Principio di sinteticità e chiarezza degli atti di parte
21 Gennaio 2025
Inquadramento Il principio di sinteticità ed il principio di chiarezza degli atti, quali principi generali del processo amministrativo, trovano espresso riconoscimento nell'art. 3 c.p.a., a norma del quale “ogni provvedimento decisorio del giudice è motivato. Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”. Tale norma rinviene a sua volta il proprio fondamento nell'art. 111 Cost., posto che atti processuali chiari e sintetici possono sicuramente contribuire a ridurre i tempi processuali, concorrendo così ad assicurare una ragionevole durata del processo; e l'art. 111 Cost. nei suoi primi due commi, sancendo espressamente il principio del “giusto processo” regolato dalla legge, evidenzia ciascuno dei caratteri essenziali che lo compongono: contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, (l'audiatur et altera pars), terzietà e imparzialità del giudice e, per l'appunto, ragionevole durata. Del resto, al di là del baluardo “interno” costituzionale, il principio del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso, in quanto espressione di civiltà giuridica, è previsto da tempo anche in convenzioni internazionali, quali in primis la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (art. 6) e ratificata con la legge 4 agosto 1955 n. 848, il patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e ratificato con legge 25 ottobre 1977 n. 881 (art. 14), i protocolli sullo statuto della Corte di giustizia. Sotto questo profilo vengono altresì in rilievo le istruzioni pratiche per la instaurazione del procedimento indicate nel sito della Corte Europea dei diritti dell'Uomo - CEDU, che considera il caso in cui il ricorso ecceda le 10 pagine 'eccezionale', in conformità all'affermato principio secondo cui i diritti della Convenzione devono essere garantiti in modo rapido, “pratico ed effettivo” (Corte EDU, Airey c. Irlanda, n. 6289/73, 9 ottobre 1979, punto 24). D'altra parte, come già da tempo osservato dal Giudice delle Leggi (cfr. Corte Cost., sent. 28 Giugno 1985, n. 190), l'art. 24 Cost. assumerebbe una portata meramente nominalistica, laddove si prescindesse dal tempo necessario per attuare la tutela della parte che ha ragione; ovviamente la salvaguardia del principio di sinteticità degli atti e della sottesa esigenza di eliminare le parti superflue e ridondanti del testo per garantirne una maggiore intellegibilità e chiarezza e salvaguardare le esigenze di celerità del processo, non può andare a discapito della comprensibilità e persuasività dell'atto e, in ultima analisi, della realizzazione di un pieno e leale contraddittorio tra le parti. Al pari di quanto previsto dal codice del processo amministrativo, anche il codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell'art. 20 della L. 124/2015 ed entrato in vigore il 7 ottobre 2016, contiene un espresso riconoscimento del principio di sinteticità e di chiarezza degli atti, prevedendo all'art. 5, co. 2, che “il giudice, il pubblico ministero e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica”, mentre invece, fino alla riforma Cartabia (D. lgs. n. 149/2022) nessuna analoga previsione era prevista nel codice di procedura civile, ad eccezione di quanto stabilito nell'art. 132 comma 2 n. 4 c.p.c., e pur dovendosi ricordare l'art. 16-bis comma 9-octies del D.L. n. 179 del 2012, come modificato dal D.L. 83/2015 conv. nella L. 132/2015 secondo cui "gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica", nonché le numerose pronunce della Corte Cassazione che già avevano fatto espressa applicazione e richiamo dei suddetti principi, senza dimenticare la lettera di raccomandazioni inviata, il 17 giugno 2013, dal Primo Presidente della Corte di Cassazione al Presidente del Consiglio Nazionale Forense con cui si chiedeva di far contenere la redazione dei ricorsi entro un numero massimo di pagine. Con la riforma Cartabia, il dovere di sinteticità viene infine codificato all'art. 121 c.p.c. e con il D.M. 110/2023 viene predisposto il regolamento per la redazione degli atti civili, in attuazione dell'art. 46, comma 4, disp. att. c.p.c., che oggi espressamente prevede che “il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, definisce con decreto gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l'inserimento delle informazioni nei registri del processo. Con il medesimo decreto sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell'intestazione e delle altre indicazioni formali dell'atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell'atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale”; tuttavia, a differenza di quanto avviene per il processo amministrativo, il comma 5 della predetta norma prevede espressamente che “il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell'atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo”. Tale impostazione è stata seguita anche nel processo tributario dove, da un lato, il comma 1 dell'articolo 17 ter del D.lgs 546/1992 espressamente prevede che “gli atti del processo, i verbali e i provvedimenti giurisdizionali sono redatti in modo chiaro e sintetico”, ma dall'altro lato non si introduce alcuna sanzione espressa a corredo di tale previsione se non quella, contenuta nel comma 2 nonies dell'articolo 15, a norma del quale “nella liquidazione delle spese si tiene altresì conto del rispetto dei principi di sinteticità e chiarezza degli atti di parte ”. Per quanto attiene al processo amministrativo, invece, l'art. 3 c.p.a. ha da tempo generalizzato una regola inizialmente introdotta dal d.lgs. 20.3.2010, n. 53 per il rito da seguire per le controversie in materia di appalti, finalizzata a garantirne una più celere definizione del giudizio rispetto al rito ordinario, attualmente trasfusa nell'art. 120 c.p.a. comma 10, a norma del quale “Tutti gli atti di parte e i provvedimenti del giudice devono essere sintetici e la sentenza è redatta, ordinariamente, nelle forme di cui all'articolo 74”; a quanto previsto da tale norma si affianca la disciplina recata dall'art. 26 c.p.a. in tema di spese di giudizio, ove si prevede espressamente che il giudice possa a tal fine tener conto “del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2”; la condanna alle spese di lite si configura quale prima sanzione espressa prevista per l'eventuale inosservanza del principio di sinteticità. Da ultimo, l'art. 13 ter disp. att. c.p.a. espressamente prevede che “Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i principi di sinteticità e chiarezza di cui all'articolo 3, comma 2, del codice, le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato, da adottare entro il 31 dicembre 2016, sentiti il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria degli avvocati amministrativisti. 2. Nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi si tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto. 3. Con il decreto di cui al comma 1 sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti” ed infine che “5. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”. In attuazione dell'art. 120 c.p.a. è stato originariamente emanato il decreto del Presidente del Consiglio di Stato (d.P.C.S.) 25.5.2015, n. 40, poi sostituito dal d.P.C.S. 22.12.2016, n. 167, successivamente modificato con d.P.C.S. n. 127 del 16 ottobre 2017. Va detto che la Legge di Bilancio per l'anno 2025 (L. 207/2024) ha da ultimo modificato il citato articolo 13-ter ed in particolare il comma 5 che risulta ora sostituito dalla seguente formulazione: «5. Indipendentemente dall'esito del giudizio, la parte che in qualsiasi atto del processo superi, senza avere ottenuto una preventiva autorizzazione, i limiti dimensionali stabiliti ai sensi del presente articolo può essere tenuta al pagamento di una somma complessiva per l'intero grado del giudizio fino al doppio del contributo unificato previsto in relazione all'oggetto del giudizio medesimo e, ove occorra, in aggiunta al contributo già versato. Con tale previsione il Legislatore ha avvicinato la normativa processuale amministrativa a quella degli altri plessi giurisdizionali, in cui la violazione dei limiti dimensionali stabiliti per gli atti processuali può assumere rilievo unicamente sotto il profilo della liquidazione delle spese processuali, con la peculiarità della previsione ex lege di un limite entro cui il Giudice può sanzionare, con la decisione che definisce il giudizio, la predetta violazione; il novellato comma 5 dell'art. 13 ter disp. att. c.p.a. prevede, infatti, che l'importo stabilito in relazione alla violazione non autorizzata dei limiti dimensionali, non possa in ogni caso superare il doppio del contributo unificato previsto per il singolo giudizio, che può aggiungersi, ove occorra, anche al contributo unificato già versato. Orbene, considerato che – come già a suo tempo osservato dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 73 dell'11 febbraio 2005) – il contributo unificato deve qualificarsi come una “entrata tributaria erariale”, finalizzata al finanziamento delle «spese degli atti giudiziari», sembra a chi scrive che il richiamo al contributo unificato, operato nel novellato comma 5 dal Legislatore, sia stato effettuato principalmente al fine di stabilire un parametro certo cui ancorare l'entità massima della condanna irrogabile per la violazione non autorizzata dei limiti dimensionali; d'altro canto, interpretare diversamente il richiamo al contributo unificato, contenuto nel novellato comma 5, risulterebbe vieppiù problematico, perché significherebbe condizionare il corretto e spedito svolgimento della dialettica processuale al pagamento di una tassa, confondendo così il piano fiscale, suscettibile di mettere in moto meccanismi di recupero e sanzionatori, con quello propriamente processuale finalizzato unicamente all'accertamento dei diritti. Tanto premesso, per quanto appaia anche apprezzabile l'avvertita esigenza di predeterminare il limite massimo delle somme da versare in caso di violazione non autorizzata dei limiti dimensionali, non può non evidenziarsi tuttavia – considerata la diversa entità del contributo unificato prevista per le diverse tipologie di giudizi, nonché anche l'esistenza di numerose tipologie di giudizi esenti dal pagamento del contributo unificato e non per ciò solo bagattellari (si pensi, solo per fare qualche esempio, alle controversie in materia di pubblico impiego o di concorsi pubblici o alle controversie elettorali) – che la deterrenza della previsione può essere fortemente condizionata da fattori e scelte (di carattere esclusivamente tributario) assolutamente estranei al processo amministrativo, rischiando così di depotenziare un principio – quello della sinteticità degli atti processuali – assolutamente fondamentale per garantire la speditezza del giudizio e, in ultima analisi, l'effettività della tutela giudiziaria. In attuazione dell'art. 13 ter disp. att. c.p.a. è stato emanato il d.P.C.S. 22.12.2016, n. 167 che ha sostituito il d.P.C.S. 25.5.2015, n. 40 emanato in attuazione dell'art. 120 c.p.a., nel testo all'epoca vigente (cioè del comma 6, art. 120, c.p.a. come novellato dall'art. 40, co. 1, lett. a, d.l. 24.6.2014, n. 90, conv. l. 11.8.2014, n. 114, poi abrogato dall'art. 7 bis della l. 25.10.2016, n. 197, introdotto dalla legge di conversione del d.l. 31.8.2016, n. 168, che ha per l'appunto abrogato il comma 6, art. 120, c.p.a. ed introdotto nell'all. 2c.p.a. l'art. 13 terattualmente vigente). In realtà il d.P.C.S. n. 167/2016, oltre a prevedere i criteri di redazione (art 8) ed i limiti dimensionali (all'art 3 che individua tali limiti non con riferimento al numero di pagine, come in passato avveniva per i limiti fissati dal decreto 25 maggio 2015 n. 40 per il rito appalti, bensì con riguardo al numero di caratteri), ha altresì previsto che questi ultimi possano essere derogati previa autorizzazione del Presidente dell'organo giurisdizionale adito (Consiglio di Stato o Tribunale amministrativo regionale) o magistrato da lui delegato, ma non più del Presidente di Sezione; tale previsione si spiega, probabilmente, nell'ottica di assicurare - anche in tema di deroghe al principio di sinteticità - l'uniformità dei criteri per tutto l'ufficio giudiziario di competenza; in ogni caso, nel conteggio massimo dei caratteri previsti dall'art. 3 non vanno computate le intestazioni e le altre indicazioni formali di cui al successivo art. 4 del decreto. L'autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali va presentata con apposita istanza motivata “sulla quale il Presidente o magistrato delegato si pronuncia con decreto entro i tre giorni successivi” (art. 6). È stato inoltre previsto che “In caso di superamento dei limiti dimensionali non autorizzato preventivamente ai sensi dell'articolo 6, per gravi e giustificati motivi il giudice, su istanza della parte interessata, può successivamente autorizzare, in tutto o in parte, l'avvenuto superamento dei limiti dimensionali” (art. 7); pertanto l'istanza, che, di regola, andrebbe proposta in via preventiva, può “per gravi e giustificati motivi”, essere presentata in via successiva, ossia a superamento dei suddetti limiti già avvenuta, ed essere decisa dal giudice della controversia. Quanto ai presupposti in presenza dei quali può essere concessa l'autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali prescritti in via generale dall'art. 3 citato, l'art. 5 del d.P.C.S. li individua nella presenza di questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse ovvero di interessi sostanziali perseguiti di particolare rilievo anche economico, politico e sociale, o di questioni attinenti alla tutela di diritti civili, sociali e politici; lo stesso art 5 reca poi una individuazione esemplificativa dei casi in cui può autorizzarsi la deroga, particolarmente rilevante soprattutto per il grado di appello (il valore della causa, ove comunque non inferiore a 50 milioni di euro nel rito appalti, determinato secondo i criteri relativi al contributo unificato; il numero e l'ampiezza degli atti e provvedimenti effettivamente impugnati, la dimensione della sentenza gravata, l'esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti ovvero di domande od eccezioni non esaminate, la necessità di dedurre distintamente motivi rescindenti e motivi rescissori, l'avvenuto riconoscimento della presenza dei presupposti di cui al presente articolo nel precedente grado del giudizio, la rilevanza della controversia in relazione allo stato economico dell'impresa; l'attinenza della causa, nel rito appalti, a taluna delle opere di cui all'articolo 125 del codice del processo amministrativo). Di recente, ad esempio, è stato ritenuto autorizzabile - in via del tutto eccezionale - il superamento dei limiti dimensionali, ai sensi dell'art. 5 del DPCS, in considerazione del notevole numero dei ricorrenti nonchè degli aspetti tecnico-giuridici ed economici della controversia, autorizzandosi nel contempo il ricorrente a usufruire del limite massimo e invalicabile di 100.000 (centomila) caratteri corrispondenti a n. 50 (cinquanta) pagine, nel formato previsto dall'art. 8 del medesimo DPCS, ed onerandolo nel contempo di redigere un riassunto preliminare del ricorso, esteso nel massimo a n. 3 (tre) pagine, ai sensi dell'art. 5, comma 3, del suddetto DPCS (cfr. TAR Lazio, Sez. Prima Quater, decr. 16/03/2022 n. 2719); sempre in tema di istanza di superamento dei limiti dimensionali è stato altresì chiarito che se occorre, allorchè la parte necessiti di esporre le sue argomentazioni difensive debordando dai limiti dimensionali degli atti processuali scolpiti dall'art. 3, che la stessa depositi, di regola in via preventiva, un'apposita autorizzazione, formulando, a tale fine, istanza motivata "in calce allo schema di ricorso", è comunque possibile "per gravi e giustificati motivi", che tale istanza venga presentata in via successiva, ossia a superamento dei suddetti limiti già avvenuta (Consiglio di Stato sez. IV, 14/02/2022, n. 1040); si è tuttavia precisato che non può essere accolta l'istanza postuma alla deroga ai limiti dimensionali rivolta direttamente al Presidente dell'Ufficio giudiziario atteso che l'autorizzazione “postuma” alla deroga ai limiti dimensionali compete al “giudice” che procede, e non al Presidente, cui compete solo l'autorizzazione preventiva (C.g.a., dec., 11/02/2022, n. 17). E' stato in ogni caso precisato che la richiesta di superamento dei limiti dimensionali deve corrispondere a esigenze effettive, e non può essere utilizzata come mezzo surrettizio per ottenere una rimessione in termini per la notifica delle impugnazioni, e deve essere chiesta in tempo utile affinché l'ufficio giudiziario vi possa provvedere entro il termine di scadenza dell'impugnazione, tenendo conto del termine stabilito per la pronuncia del giudice sull'istanza. Ad avviso del C.g.a. integra abuso del processo chiedere una deroga ai limiti dimensionali a poche ore di scadenza del termine lungo di impugnazione della sentenza, in un orario (nella fattispecie, le 20.33) in cui l'ufficio giudiziario è chiuso, tanto più che l'ufficio giudiziario dispone di tre giorni per pronunciarsi sull'istanza, e non è dunque posto in condizione di provvedere prima della scadenza del termine di impugnazione.] (C.g.a., dec., 20/12/2021, n. 215); peraltro, va altresì evidenziato che se l'art. 13-ter disp. att. c.p.a., al comma 5 prevede che “l'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”, nulla viene invece stabilito nella predetta norma con riferimento alle conseguenze del mancato rispetto dei criteri redazionali pure indicati nel d.P.C.S e richiamati nella pronuncia da ultimo citata. Orientamenti a confronto Nella vigenza della precedente formulazione del comma 5 dell'art. 13 ter disp.att. c.p.a. e con particolare riguardo al tema delle conseguenze derivanti dal superamento non autorizzato dei limiti dimensionali, una parte della giurisprudenza amministrativa sembrava essersi orientata nel senso di ritenere che la violazione non autorizzata dei limiti dimensionali, stabiliti con d.P.C.S. giusta la previsione recata dall'art. 13 ter, all. 2 c.p.a., comporterebbe l'irricevibilità o inammissibilità, in parte qua, dell'atto (cfr.: Cons. St., IV, 7.11.2016, n. 4636.; Cons. St., V, 12.6.2017, n. 2852; Cons. St., IV, 28.6.2016, n. 2866). In una recente pronuncia (cfr. TAR Lazio, Sez. Seconda Quater, ord. 16/02/2022 n. 1878), il Giudice amministrativo, dopo avere preso atto della mancata presentazione, in via preventiva, dell'istanza di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali stabiliti dall'art. 3 del d.P.C.S. n. 167 del 2016, e dell'assenza dei “gravi e giustificati motivi” richiesti dall'art 7 del d.P.C.S. per autorizzare ex post il superamento dei citati limiti dimensionali, - avendo rilevato che il superamento dei limiti dimensionali nel caso di specie era determinata dalla mera riproduzione nel ricorso del contenuto di documenti già presenti nel fascicolo, ed essendo invece all'uopo sufficiente la semplice indicazione delle parti e/o passaggi ritenuti rilevanti -, ha disposto la regolarizzazione degli atti difensivi di parte ricorrente, ordinando la rinnovazione del ricorso e dell'atto di motivi aggiunti. Di contrario avviso altra parte della giurisprudenza amministrativa che, in qualche modo anticipando il recentissimo intervento del Legislatore, ha ritenuto che dalla violazione del principio di sinteticità e dei limiti dimensionali stabiliti dal d.P.C.S. non derivi alcuna conseguenza in termini di inammissibilità e/o irricevibilità del ricorso, ferme le eventuali conseguenze sotto il profilo della regolazione delle spese di lite ex art. 26 c.p.a.; è stato invero osservato che “il dovere di sinteticità sancito dall'art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo, è a sua volta corollario del giusto processo, ed assume esso una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell'interesse pubblico in occasione del controllo sull'esercizio della funzione pubblica; tale impostazione è conforme alla considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in misura razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l'utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale. La violazione di tale dovere, se, da un lato, non si traduce in inammissibilità del ricorso, dall'altro, incide, certamente, sulla regolazione delle spese di giudizio” (cfr. T.A.R. Lombardia – Milano, sez. II, 4 giugno 2019, n.1279) Va detto che la maggioritaria giurisprudenza amministrativa ha finora ritenuto che il superamento dei limiti dimensionali del ricorso determini “il degradare della parte eccedentaria a contenuto che il giudice ha la mera facoltà di esaminare” (cfr . T.A.R. Calabria - Catanzaro, sez. II, 8 luglio 2020, n. 1249); in particolare, la giurisprudenza, in taluni casi, ha ritenuto direttamente non esaminabili i motivi di impugnazione proposti oltrepassando i limiti dimensionali di cui al d.P.C.S., evidenziando che in nessun atto di causa risultava essere stata mai formulata l'istanza di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14/02/2022 N. 1040, ed in termini n. 8532 del 2020; n. 1686 del 2020); tuttavia la stessa giurisprudenza in un altro caso, pur in presenza di un decreto presidenziale di declaratoria di inammissibilità della prima istanza di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali e nonostante l'assenza dei presupposti per autorizzare la stessa ex post ex art 7 d.P.C.S., ha ritenuto che la scelta di illustrare e spiegare complesse censure nel corpo dell'atto potesse essere ricondotta a profili di non ridondanza e condurre ad accogliere la richiesta subordinata formulata in udienza di esaminare comunque i motivi proposti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07/04/2022 N. 02583). Tale ultima pronuncia si pone in piena sintonia con i principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di violazione dei principi di chiarezza e sinteticità e, nel contempo, con quanto prevedeva l'art. 13 ter disp. att. c.p.a. nella precedente formulazione, posto che autorizzare il giudice a pronunciare sulla domanda solo entro i limiti dimensionali prescritti per l'atto non equivale a vietare di conoscere comunque l'intero atto; da ciò consegue che ove il giudice ritenga di pronunciare ugualmente su tutta la domanda, ritenendo che in ogni caso il superamento dei limiti dimensionali non si sia tradotto in oscurità ed inintellegibilità dell'atto, l'unico problema che si porrebbe sarebbe quello di assicurare in ogni caso il pieno rispetto del contraddittorio processuale, analogamente a quanto dovrebbe parimenti avvenire nel caso di concessione “tardiva” dell'autorizzazione da parte del Collegio. Tale interpretazione consentiva anche di superare i dubbi di legittimità costituzionale pure avanzati dalla dottrina in merito alla precedente formulazione dell'art. 13 ter disp. att. c.p.a., in specie quanto alla compatibilità con gli artt. 21 e 24 Cost., di una norma che impone al difensore la connotazione e le peculiarità della sua difesa (v. ad es. Sandulli, M.A., Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell'abuso del processo o diniego di giustizia?, in federalismi.it, 2012), nonché l'ulteriore rilievo che, da un lato, la norma in questione non contiene alcuna declaratoria espressa di inammissibilità e che, dall'altro lato, l'inosservanza delle forme previste per il compimento di un atto processuale non ne determina la nullità se questa non è espressamente prevista dalla legge o se l'atto è comunque in grado di raggiungere lo scopo cui è destinato, secondo i principi generali espressi dall'art. 156 c.p.c., applicabile al processo amministrativo per il rinvio operato dall'art. 39, co. 1, c.p.a. Del resto anche la Corte di Cassazione ha osservato, quanto alla violazione del principio di sinteticità, che se la stessa non determina di per sè l'inammissibilità del ricorso per cassazione, non rinvenendosi in nessuna norma una comminatoria espressa di inammissibilità, tuttavia tale violazione comunque "espone al rischio" [...] di una declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione. Detta violazione, infatti, rischia di pregiudicare la intelligibilità delle questioni sottoposte all'esame della Corte, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata”, a maggior ragione se il ricorso è stato redatto in violazione anche delle prescrizioni di cui all'art. 366, nn. 3 e 4, c.p.c.., violazioni, queste, assistite da una sanzione testuale di inammissibilità (cfr. Cass. civ., n. 212979/2016). Dal canto loro, recentissime pronunce del Giudice Amministrativo hanno precisato che il superamento dei limiti dimensionali degli atti difensivi è questione di rito afferente all'ordine pubblico processuale, stabilito in funzione dell'interesse pubblico all'ordinato, efficiente e celere svolgimento dei giudizi, ed è rilevabile d'ufficio a prescindere da eccezioni di parte; il rigoroso rispetto dei limiti dimensionali costituisce attuazione del fondamentale principio di sinteticità (art. 3 c.p.a.), a sua volta ispirato ai canoni di economia processuale e celerità (Consiglio di Stato sez. V, 14/02/2024, n.1502) e che in assenza di richiesta di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali, il Collegio non può leggere la parte eccedente ma può in ogni caso decidere il motivo se questo è comprensibile al netto della parte non letta (Consiglio di Stato sez. V, 05/01/2024, n.219) Va tuttavia da ultimo richiamata una recente pronuncia cautelare del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana, che ha affermato l'inammissibilità e la conseguente inutilizzabilità delle c.d. “note di udienza” di parte appellante, depositate, avvalendosi della facoltà concessa alla parte dall'art. 4 del d.l. n. 28 del 2020, in data 12.1.2021, perché estese 42 pagine, in quanto depositate in violazione del principio di sinteticità (cfr CGARS ord. 15/01/2021 n. 36); nella menzionata pronuncia il Giudice ha evidenziato che anche le note d'udienza devono rispettare il canone di sinteticità (e ragionevolmente non possono eccedere le tre-quattro pagine) e non possono assolvere alla funzione sostanziale della “memoria” con una elusione del termine di deposito di quest'ultima, pena la violazione del contraddittorio e un vulnus quanto all'approfondimento collegiale della causa. Questa posizione è stata recepita da talune recentissime pronunce del Consiglio di Stato, che hanno espressamente affermato che non rilevano al fine della decisione della controversia, in quanto inammissibili, le parti del ricorso che superano i limiti dimensionali previsti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016, n. 167 (Consiglio di Stato sez. V, 14/02/2024, n.1502), e che deve dichiararsi inammissibile nella sua interezza il ricorso i cui mezzi sono collocati dopo il superamento dei 70 mila caratteri calcolati alla stregua dell'art. 4 del d.P.C.S. 22 dicembre 2016 (C.g.a. 22/05/2023, n. 350). Ovviamente tutti gli orientamenti da ultimo citati sono destinati ad essere superati in ragione della novella introdotta dalla citata Legge di Bilancio. Chiarezza degli atti processuali Il principio di sinteticità e di chiarezza degli atti processuali, quali corollari del principio del giusto processo, vengono riconosciuti dalle norme in precedenza richiamate come requisiti necessari degli atti e provvedimenti degli attori del processo, per garantire una efficiente ed effettiva tutela giudiziaria; a ben vedere si tratta di principi strettamente connessi tra loro, considerato che la sinteticità non può mai andare a discapito della chiarezza degli atti processuali e che, sovente, la prolissità ed eccessiva complessità degli atti e provvedimenti giudiziari si traduce in una scarsa intellegibilità – e dunque in una scarsa chiarezza - degli stessi. Quanto al contenuto vero e proprio di tali principi, si possono ad esempio richiamare alcune pronunce della Corte di Cassazione in cui si evidenzia come il dovere di sinteticità e chiarezza impone “di selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell'intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell'ambito della tipologia dei vizi elencata dall'art. 360 c.p.c., venendo altrimenti pregiudicata l'intellegibilità delle questioni per essere rimasta oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata” (cfr. ex multis Cass. Cass., sez. trib., 16.06.2021, n. 16977) Dal canto suo il Giudice Amministrativo ha già da tempo osservato che la violazione del principio di sinteticità e chiarezza porta spesso a determinare motivi intrusi, ossia di quei motivi di ricorso, ex se inammissibili, perché inseriti nella parte in fatto del ricorso, con il conseguente diffuso aumento di sentenze che non contengono l'esatta disamina di tutti i motivi di ricorso proposti a causa dell'oggettiva difficoltà di individuarli nel corpo dell'atto (cfr. Cons. St. V., 5459/2015 e già Cons. St. n. 346/2016). Si è visto che il d.P.C.S. n.167/2016 non si limita a dare attuazione a quanto prescritto dall'art. 13 ter citato in relazione al principio di sinteticità, ma indica altresì all'avvocato anche i “criteri di redazione” degli atti processuali, stabilendo all'art. 2 del d.P.C.S. precise tecniche redazionali da osservarsi, fermo quanto disposto dagli articoli 40 e 101 del c.p.a., nella redazione degli atti introduttivi del giudizio, in primo grado o in sede di impugnazione, dei ricorsi e delle impugnazioni incidentali, dei motivi aggiunti, dell'atto di intervento; si prevede inoltre che anche gli atti di intervento per ordine del giudice, le memorie, le repliche, debbano indicare il numero di ruolo del processo a cui si riferiscono, e recare in modo chiaro e separato gli argomenti giuridici, nonché, in appositi e distinti paragrafi, specificamente titolati, le eccezioni di rito e di merito, le richieste di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, le richieste di rinvio alla Corte costituzionale, le istanze di oscuramento dei dati personali e le altre richieste su cui il giudice debba pronunciarsi; l'art. 8 d.P.C.S. addirittura prevede anche alcune “specifiche tecniche” di redazione e nel decreto si stabilisce altresì espressamente il divieto di note a piè pagina. Tuttavia, si è già in precedenza osservato che l'art. 13-ter disp. att. c.p.a., anche a seguito del recentissimo intervento modificativo, nulla prevede con riferimento alle conseguenze del mancato rispetto dei criteri redazionali pure indicati nel d.P.C.S. in esso richiamato. Non si può non evidenziare come la mancata espressa previsione di sanzioni per il caso del mancato rispetto dei criteri redazionali di cui al citato d.P.C.S., sia quanto mai opportuna considerato che altrimenti si sarebbero difficilmente potuti superare eventuali dubbi sulla compatibilità della suddetta norma con gli art. 21 e 24 Cost.; ed invero, per quanto la chiarezza sia un corollario del giusto processo oltre che della stessa effettività della tutela giudiziaria, che non può prescindere dallo svolgimento di difese chiare e comprensibili, è altresì indubbio che l'introduzione di eccessivi formalismi o di una griglia di regole che finiscano per irrigidire eccessivamente e dunque limitare il modo in cui l'avvocato ritenga di svolgere il proprio mandato difensivo, finirebbe per collidere con i principi di cui agli art 21 e 24 Cost., oltre che ridondare in una limitazione potenzialmente incompatibile con la garanzia del diritto di accesso al giudice ricavata dall'art. 6(1) CEDU. Se infatti il dovere di sinteticità e chiarezza degli atti di parte è sicuramente funzionale all'efficienza nella giurisdizione, ed in particolare allo scopo di evitare di gravare sia lo Stato sia le parti di oneri processuali superflui, è anche vero che un approccio eccessivamente formalistico è stato ritenuto una violazione del diritto del ricorrente alla “tutela effettiva” (cfr. Corte EDU, Zubac c. Croazia, 5 aprile 2018, n. 40160/12); orbene, è probabile che l'imposizione di eccessive rigidità formali nella redazione degli atti di parte, per di più sanzionate espressamente in termini di irricevibilità o inammissibilità degli atti stessi, potrebbero forse finire per rilevare alla stregua di possibile violazione del diritto del ricorrente alla tutela effettiva. Ovviamente, proprio perché corollari del principio del giusto processo, i principi di sinteticità e chiarezza non riguardano solo gli atti di parte, ma costituiscono anche principi da osservare da parte del Giudice nella redazione dei provvedimenti. Va tuttavia evidenziato che la circolare adottata il 22 dicembre 2016 dal Presidente del Consiglio di Stato ed indirizzata a tutti i magistrati amministrativi si limita a raccomandare di non superare nella stesura dei provvedimenti le venti pagine e, nei casi di particolare complessità, le quaranta pagine. Conclusioni La sinteticità e la chiarezza degli atti processuali e dei provvedimenti giudiziali costituiscono sicuramente principi fondamentali cui tutti gli operatori del diritto devono attenersi, strettamente legati come sono all'esigenza di efficienza ed al diritto alla ragionevole durata di cui all'art. 111 Cost., ma anche al principio di leale collaborazione tra le parti processuali. Ovviamente va sempre ricercato il punto di equilibrio tra le esigenze di efficienza e di tutela effettiva, posto che la pur avvertita necessità di salvaguardare le esigenze di celerità del processo non può giammai andare a discapito della comprensibilità e persuasività dell'atto e della realizzazione di un pieno e leale contraddittorio tra le parti, quale fondamentale espressione del diritto di difesa. Sotto tale profilo la disciplina che si è in precedenza esaminata, dettata dalle norme del codice del processo amministrativo e dal d.P.C.S. 22.12.2016, n. 167 sui limiti dimensionali e sulla chiarezza degli atti processuali in attuazione del principio di sinteticità, nella formulazione precedente alla recente modifica legislativa, non introducendo - a ben vedere - nuove ipotesi di nullità o inammissibilità degli atti, ma consentendo comunque di dare giuridico rilievo a tutte quei casi in cui il superamento dei limiti dimensionali ridondi sulla intellegibilità e chiarezza dell'atto, poteva senza dubbio essere considerata come espressione di un ricercato punto di equilibrio tra le esigenze di efficienza del processo e di tutela effettiva delle posizioni giuridiche soggettive fatte valere all'interno dello stesso. Sarà importante verificare gli effetti e gli approdi giurisprudenziali che si svilupperanno a seguito della novella introdotta dalla l. n. 207/2024. |