La rilevanza penale dell'allaccio abusivo al contatore condominiale1. Bussole di inquadramentoLa rilevanza penale dell'allaccio abusivo al contatore condominiale Una questione trattata di recente dalla giurisprudenza e di significativo interesse pratico concerne la rilevanza penale dell'allaccio abusivo al contatore condominiale. È possibile, infatti, riscontrare diversa casistica avente ad oggetto il comportamento del condomino il quale, agganciandosi a valle del contatore condominiale senza aver ricevuto una preventiva autorizzazione, si impossessa, per usufruirne per la propria abitazione, di energia elettrica destinata all'alimentazione di apparecchi ed impianti di proprietà comune (illuminazione degli ambienti comuni, funzionamento dell'ascensore, apertura del cancello condominiale, ecc.). Il soggetto attraverso il suddetto attacco, non anticipatamente condiviso con gli altri condomini, fruisce dell'energia, e, di conseguenza, beneficia dell'utilizzo di tutti i macchinari da quest'ultima alimentati (televisione, lavatrice, lavastoviglie, ecc.) senza versare il dovuto corrispettivo alle società erogante. Il profitto conseguito s'individua proprio nel risparmio economico che l'agente realizza per sé o per altri, ottenuto facendo ricadere quel consumo sull'intera platea degli altri consumatori (in relazione alla nozione di profitto sono di recente intervenute le S.U. n. 41570/2023 che hanno chiarito – proprio in riferimento ad un caso di furto di energia elettrica – che il fine di profitto che integra il dolo specifico del predetto reato va inteso come qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall'autore) . Nel caso da ultimo esaminato dalla Cassazione (Cass. V, n. 17773/2022) i condomini avevano riscontrato un significativo aumento – per circa un anno — dell'importo delle bollette collegate all'utenza condominiale e, sebbene il tecnico dell'Enel avesse verificato che non vi era stata un'alterazione dei due contatori condominiali, l'elettricista, che aveva effettuato lavori di manutenzione della linea elettrica condominiale circa sei mesi prima, nel corso del sopralluogo aveva constatato la presenza di una manomissione della linea condominiale. In particolare, il filo elettrico della spina di corrente, che alimentava il cancello di ingresso e il giardino condominiale, risultava modificato attraverso due fili di corrente di circa 50 centimetri, entrambi collegati all'alimentazione del garage in uso esclusivo dell'agente e occultati in una canalina di plastica posta all'interno del quadro. Occorre, quindi, individuare quale fattispecie di reato si realizzata in tutte le ipotesi in cui la manipolazione — che ha dato luogo alla artata deviazione del flusso di energia in favore del soggetto agente — è intervenuta sulla linea elettrica di alimentazione delle utenze condominiali. La condotta, infatti, è penalmente rilevante in quanto l'energia elettrica è considerata ai fini penali un bene mobile: il secondo comma dell'art. 624 c.p. dispone espressamente che agli effetti della legge penale è considerata cosa mobile insieme ad ogni altra energia che abbia un valore economico. In generale il furto di energia, essendo una fattispecie a “forma libera”, può integrarsi con comportamenti eterogenei. Le più frequenti modalità di estrinsecazione di quest'ultimi sono l'allacciamento abusivo direttamente ai cavi della rete di distribuzione o di un'utenza distaccata, il collegamento al cavo di alimentazione di un altro utente o la manomissione del proprio contatore per rallentare o dimezzare i consumi (mediante la modifica del software dei contatori più moderni o l'apposizione di una resistenza o un magnete all'esterno della cassetta) e la rottura del sigillo del distributore in modo da bypassare il proprio contatore e non pagare la corrente usata. L'allacciamento abusivo ad un cavo di alimentazione di un altro soggetto può anche integrare altre ipotesi di reato, tra cui l'appropriazione indebita. Tale fattispecie di reato, infatti, è “affine” al furto: le due norme sono contigue e si “completano” a vicenda. La differenza sostanziale risiede nel fatto che mentre il furto presuppone la mancanza del possesso della cosa mobile o del denaro altrui (consistendo il reato proprio nell'impossessamento), l'appropriazione indebita implica che l'agente già li possieda. La Cassazione ha individuato la ratio dell'incriminazione nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l'autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso (Cass. V, n. 46475/2014; Cass. II, n. 12869/2016). Il corretto inquadramento della fattispecie è fondamentale perché non ha solo conseguenze sul piano sanzionatorio, ma anche di carattere processuale. Ad es. colui che ruba energia elettrica generalmente commette un furto aggravato dall'utilizzo di un “mezzo fraudolento” o “da violenza sulle cose” (Cass. V, n. 13431/2021) per cui, a differenza del furto semplice e dell'appropriazione indebita, è procedibile d'ufficio. Occorre, poi, evidenziare che in caso di sottrazione dell'energia elettrica non è stata ritenuta applicabile la causa di giustificazione di cui all'art. 54 c.p., poiché l'esimente dello stato di necessità postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non scongiurabile se non attraverso l'atto penalmente illecito. Pertanto, non può ricorrere in riferimento a reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico, qualora a esso possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti (Cass. V, n. 994/2018). La Cassazione ha più volte ribadito che la situazione di indigenza non è di per sé idonea ad integrare la scriminante dello stato di necessità in relazione a reati contro il patrimonio perché non sussistono gli elementi dell'attualità e dell'inevitabilità del pericolo. Quest'ultimi non sono ravvisabili perché è possibile provvedere alle esigenze delle persone che versano in tale stato per mezzo degli istituti di assistenza sociale (Cass. IV, n. 36160/2021). La tesi della configurabilità dell'appropriazione indebita Parte della giurisprudenza ha ritenuto che la sottrazione da parte di un condomino dell'energia elettrica già transitata dal contatore, che registra i consumi del condominio, configuri il reato di appropriazione indebita (Cass. V, n. 29121/2020; Cass. V, n. 57749/2017). Tale impostazione si basa sulla premessa che l'energia di cui il soggetto si è appropriato appartiene sia all'ente condominio sia, anche se pro quota, alla persona fisica colpevole dell'illecito penale (ovvero il singolo condomino). Il furto, infatti, presuppone la mancanza della disponibilità dell'energia elettrica (consistendo il reato proprio nell'impossessamento), mentre l'appropriazione indebita implica che l'agente già abbia a disposizione l'energia e possa esercitare un autonomo potere dispositivo su di essa. La tesi della configurabilità del furto Altra impostazione giurisprudenziale qualifica come furto la condotta del condomino sopra descritta quando è finalizzata ad alimentare soltanto gli apparecchi e gli impianti propri (Cass. V, n. 115/2021; Cass. V, n. 117/2021). Egli compie, infatti, una sottrazione dell'energia destinata a fini condominiali (e solo entro tali limiti nella disponibilità comune) a beneficio del proprio consumo individuale. Tale modalità d'impossessamento dell'energia fa conseguire al reo la piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, rappresentata dall'energia elettrica. Quest'ultima non è più quella che può essere utilizzata dagli altri condomini e dallo stesso colpevole. Quando il condòmino per commettere il reato si avvale di un accorgimento tecnico di difficile realizzazione si consuma il furto aggravato dall'uso del mezzo fraudolento. Si pone in essere, invece, l'appropriazione indebita quando egli sottrae parte di quell'energia che transitando attraverso il contatore continui ad alimentare anche gli impianti condominiali. 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
Come si definisce l'ambito di applicazione delle fattispecie di furto e di appropriazione indebita in caso di sottrazione di energia elettrica destinata all'alimentazione di apparecchi ed impianti di proprietà comune quando tale sottrazione è realizzata mediante allaccio abusivo a valle del contatore condominiale?
Orientamento meno recente della Corte di Cassazione Secondo un indirizzo meno recente (Cass. V, n. 29121/2020; Cass. V, n. 57749/2017; Cass. II, n. 13551/2002; Cass. II, n. 4316/1995) il condòmino che, mediante allaccio abusivo a valle del contatore condominiale, si impossessi per uso della propria abitazione di energia elettrica destinata all'alimentazione di apparecchi ed impianti di proprietà comune commette il reato di cui all'art. 646 c.p. Questo orientamento si ricollega ad un precedente arresto della Cassazione secondo il quale la condotta di colui che faccia propria la cosa mobile di cui sia già possessore, pur se a titolo di compossesso pro indiviso, è riconducibile al delitto di appropriazione indebita. Ciò in quanto non è possibile configurare una “sottrazione” da parte di chi si trovi attualmente, anche se solo pro quota, in possesso del bene. Tutti i partecipanti al condominio, compreso l'agente, devono reputarsi, infatti, compossessori dell'energia elettrica somministrata dall'ente erogatore (Cass. II, n. 13551/2002). Tale impostazione, pertanto, si basa sull'assunto che l'energia elettrica sottratta, una volta transitata dal contatore che registra i consumi del condominio, appartiene sia al condominio, sia pro quota anche al condòmino che la sottrae. Di conseguenza ciascuno dei condòmini può consumarla ed utilizzarla al di fuori della stretta sorveglianza degli altri. Inoltre, in ragione del comune possesso, pone in essere una condotta indebitamente appropriativa qualora la consumi nella parte a ciascuno di loro dovuta pro quota e la utilizzi al di fuori della stretta sorveglianza degli altri condòmini. Ciò in quanto in tale ipotesi esercita un autonomo potere dispositivo del bene. Questa teoria si fonda, inoltre, sul fatto che il furto presuppone la mancanza della disponibilità dell'energia elettrica (consistendo il reato proprio nell'impossessamento), mentre l'appropriazione indebita implica che l'agente già abbia a disposizione l'energia. Orientamento più recente della Corte di Cassazione Secondo un recentissimo orientamento della Cassazione (Cass. V, n. 17773/2022, Cass. V, n. 115/2021; Cass. V, n. 117/2021) il condomino che realizza la sopra descritta condotta pone in essere il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita. La Cassazione effettua due passaggi logici per determinare quale delle due succitate fattispecie si configura: il primo attiene alla sussistenza o meno di un potere dispositivo autonomo sul bene/energia da parte del singolo condomino ed il secondo concerne la tipologia di energia oggetto del predetto potere. In primo luogo, infatti, occorre verificare se l'agente ha già acquisito, o meno, un autonomo potere dispositivo sul bene. Deve trattarsi di un potere di fatto che si esercita al di fuori del controllo di chi disponga di un potere giuridico maggiore (Cass. IV, n. 54014/2018; Cass. IV, n. 10638/2013; Cass. IV, n. 23091/2008). Tale tipologia di potere non è ravvisabile nella semplice esistenza di rapporto materiale con la cosa, generato da un affidamento condizionato a determinati adempimenti e conseguente ad un preciso rapporto giuridico (ad es. di lavoro) soggetto ad una specifica regolamentazione. Da tale precisazione si deduce che si integra il reato di appropriazione indebita in tutte le ipotesi in cui da un lato si è riscontrata l'esistenza di siffatto potere di autonoma disponibilità sul bene e dall'altro vi è stato un mancato rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità dello stesso. Diversamente è configurabile il reato di furto. In secondo luogo è necessario individuare qual è l'energia oggetto del potere dispositivo che i condomini possono esercitare attivando, con gli interruttori appositamente predisposti, la sua erogazione. Si tratta, infatti, di quell'energia che, transitando attraverso il contatore, ha una specifica destinazione, ovvero serve in concreto le parti comuni o i beni comuni. Quando il soggetto agente la devia, dopo che essa è transitata dal contatore condominiale, verso degli spazi ad uso esclusivo come il proprio appartamento, non c'è un esercizio del potere dispositivo di cui è titolare ciascun condomino. In questo caso, infatti, il risultato è conseguibile solo attraverso una modalità di cambiamento di direzione dell'energia — ossia, attraverso una sottrazione — che non raggiunge gli spazi condominiali. Diversamente la condotta appropriativa, invece, si realizza quando l'agente imprime alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni del suo possesso (Cass. S.U., n. 1/1989): ciò va inteso nel senso di un abuso rispetto al potere dispositivo del quale il soggetto è titolare. Di conseguenza, l'energia che transita per il contatore condominiale è, per la sua destinazione assunta a servizio delle parti comuni, indisponibile ad un uso privato da parte del condomino. Quest'ultimo non ne acquisisce l'autonomo possesso e la distrae a proprio esclusivo vantaggio solo attraverso una condotta di sottrazione, tipica del reato di furto. La Cassazione stabilisce che l'energia sulla quale ciascun condomino ha un autonomo potere di fatto — esercitato al di fuori del controllo altrui — è soltanto quella che transitando attraverso il contatore serve in concreto gli impianti condominiali. Solo in tale ipotesi si riscontra un “autonomo potere dispositivo” in presenza del quale la condotta di indebita fruizione per costante giurisprudenza deve essere qualificata come appropriazione indebita e non come furto (Cass. IV, n. 54014/2018). Quando, invece, il condomino (o il conduttore) distoglie il flusso dell'energia che è transitato dal contatore, in modo da alimentare (soltanto) gli apparecchi e gli impianti propri, non esercita il potere dispositivo che anche a lui (come agli altri condomini o conduttori) è attribuito. In tale ipotesi compie una sottrazione dell'energia destinata a fini condominiali (e solo entro tali limiti nella disponibilità comune) a beneficio, invece, del proprio consumo individuale. Tale tipologia di consumo esorbita dai limiti della disponibilità comune dell'energia la quale può ravvisarsi solo limitatamente al flusso effettivamente utilizzato per alimentare gli impianti comuni. E, in tal modo, pone in essere quell'impossessamento dell'energia deviata, sanzionato dall'art. 624 c.p., conseguendo la signoria su di essa “intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell'agente” (Cass. S.U., n. 52117/2014). Recentemente la Corte (Cass. IV, n. 17230/2023) ha ricordato quanto chiarito in un precedente arresto (Cass. S.U., n. 10495/1996) ovvero che la misurazione dei consumi operata mediante il contatore non solo definisce la prestazione erogata in termini quantitativi ma, correlativamente, determina il momento in cui l'energia passa, secondo i termini contrattuali, dalla disponibilità del somministrante all'utente. Di conseguenza a valle del contatore condominiale la disponibilità dell'energia è solo della comunità dei condomini, che la destinano al funzionamento di beni comuni e non di ciascuno di essi autonomamente (salvo autorizzazioni o concessioni in tal senso). Inconfigurabilità dell'illecito di sottrazione di cose comuni La Cassazione ha ritenuto che nel caso di specie non si possa ravvisare l'illecito civile descritto dall'art. 4, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 7/2016, che riproduce il delitto di sottrazione di cose comuni sanzionato dall'abrogato art. 627 c.p. Tale illecito civile, infatti, per la sua configurabilità presuppone che l'agente non abbia la detenzione (nel senso che non si trovi nella materiale possibilità di disporre del bene oggetto di sottrazione). Nel caso di specie, invece, l'autore ha il potere di disporre dell'energia, poiché è servente gli impianti condominiali, e la sottrae in quanto, attraverso la condotta di sottrazione, acquisisce un potere dispositivo del quale prima era privo (Cass. V, n. 115/2021). In tal senso anche in un arresto precedente la Cassazione ha spiegato che sono integrati gli estremi del succitato illecito quando il comproprietario/condomino non ha la “detenzione” dell'energia, e cioè utilizzi una presa che si trova nella esclusiva materiale disponibilità di altra persona. Nel caso in cui usufruisca di una messa a disposizione di tutti i condomini (ovviamente per un uso dell'energia stessa nell'interesse comune) si realizzano gli estremi del delitto di cui all'articolo 646 c.p., dovendosi tale situazione assimilarsi a quella del compossesso (Cass. II, n. 13551/2002). Configurabilità del furto aggravato dalla violenza sulle cose (art. 624 e 625 comma 1 n. 2 c.p.) La circostanza aggravante del furto della violenza sulle cose si realizza tutte le volte in cui il soggetto faccia uso di energia fisica provocando la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione, il mutamento di destinazione della cosa altrui o il distacco di una componente essenziale ai fini della funzionalità, tali da rendere necessaria un'attività di ripristino per restituire alla res la propria funzionalità (Cass. V, n. 13431/2021). Secondo Cass. V, n. 45325/2005, inoltre, la sottrazione di energia elettrica perpetrata mediante la effrazione del contatore dell'erogazione integra il reato di furto mediante violenza sulle cose. Ciò anche nel caso in cui tale effrazione sia finalizzata a riattivare la somministrazione sull'utenza distaccata per morosità e non cagioni un blocco nel computo del valore dell'erogazione, consentendo, quindi, all'ente erogatore dell'energia la contabilizzazione dei successivi consumi. La Suprema Corte ha chiarito che la registrazione dei consumi svolge la sola funzione di prova della condotta e di quantificazione del danno cagionato, mentre il reato è da ritenersi consumato anche se non vi sia stato celamento della quantità esatta di energia sottratta. Recentemente, poi, la Cassazione ha spiegato anche che nel caso in cui si verifichi un furto di energia elettrica, non si deve distinguere la posizione dell'autore materiale della sottrazione di energia elettrica effettuata mediante allacciamento diretto alla rete di erogazione e da quella dell'agente che si limiti ad utilizzare e trarre beneficio dall'allaccio abusivo posto in opera da altri. Ciò comporta che si deve ritenere sussistente l'aggravante della violenza sulle cose sia a carico dell'autore materiale della manomissione sia del beneficiario dell'erogazione. La circostanza in esame ha, infatti, natura oggettiva, ascrivibile al soggetto agente laddove a questi nota o da lui ignorata per colpa. Ne deriva che la differenziazione fra l'autore materiale della manomissione e il beneficiario dell'erogazione può avere rilievo — ai fini della configurabilità del reato o della circostanza aggravante – esclusivamente se incidente sull'elemento psicologico (Cass. IV, n. 5973/2020). Configurabilità dell'aggravante ex art. 61 n. 11 di abuso di relazioni di coabitazione Orientamento più risalente della Corte di Cassazione Secondo un indirizzo più risalente l'aggravante di cui all'articolo 61, numero 11, c.p., sarebbe configurabile in quanto la relazione di coabitazione sarebbe data dalla circostanza oggettiva della convivenza più o meno protratta nel tempo — e, comunque, per un periodo apprezzabile — non solo nel medesimo appartamento, ma anche, secondo un concetto più lato del termine “coabitazione”, nel medesimo immobile (Cass. II, n. 4316/1995). Orientamento recente della Corte di Cassazione La Cassazione ha precisato che il reato di appropriazione indebita, da parte di un condomino, di energia elettrica destinata ad uso comune del condominio non può essere ritenuto aggravato, ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 11, da abuso di relazioni di coabitazione, non essendo configurabile un tal genere di relazioni tra inquilini di uno stesso stabile condominiale, ma soltanto tra quelli di essi che vivono nella stessa abitazione (Cass. V, n. 57749/2017; Cass. II, n. 13551/2002). La Corte ha ricordato che il termine coabitare, infatti, nel linguaggio comune significa “abitare insieme, nella stessa casa, nello stesso appartamento” e che in tal senso è stato sicuramente adoperato dal legislatore del codice penale vigente. Di conseguenza è possibile ravvisare una relazione di coabitazione se sussiste uno stato di fatto per cui due o più persone si trovino riunite per la vita domestica, o per qualche atto di tale vita, in un medesimo luogo idoneo, per un tempo qualsiasi. La giurisprudenza ha, poi, elaborato ampiamente tale concetto, giungendo alla conclusione che “per aversi coabitazione non è necessaria la convivenza, la quale implica un rapporto più stretto; che non è necessario dimostrare che, per effetto della coabitazione, siano sorte relazioni di fiducia tra il soggetto attivo e il soggetto passivo del reato; che il luogo nel quale avviene la coabitazione è indifferente, non occorrendo che esso sia stato appositamente creato per l'abitazione: così che le relazioni di coabitazione possono sussistere non solo in una casa privata, ma anche (con le opportune precisazioni) in un albergo, in un dormitorio, in un rifugio, in una nave, in un ospedale, in una casa circondariale, e in ogni altro luogo ove appunto le persone si trovano riunite per qualche atto di vita domestica” (Cass. II, n. 13551/2002). La “coabitazione” prevista dall'art. 61 c.p., n. 11 ricomprende, pertanto, solo ciò che accade nell'abitazione strettamente intesa, ove si svolgono le ordinarie attività della vita privata, e che pertanto merita particolare tutela. Esclude, invece, ciò che avviene nei luoghi comuni condominiali, che, anche in vista della loro comune proprietà e del loro comune possesso, sono utilizzati solo strumentalmente alle necessità dell'abitazione propriamente detta e che non necessitano di altrettanta tutela. Legittimazione a proporre querela Orientamento più risalente della Corte di Cassazione Per un'impostazione meno recente la querela proposta dal singolo condomino per un reato commesso in danno di parti comuni dell'edificio non è valida, in quanto il condominio è strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condomini e l'espressione della volontà di presentare querela passa attraverso detto strumento di gestione collegiale. Ne consegue che la presentazione di una valida querela, da parte di un condominio, in relazione ad un reato commesso in danno del patrimonio comune dello stesso, presuppone uno specifico incarico conferito all'amministratore dall'assemblea condominiale (Cass. V, n. 6197/2010). Orientamento recente della Corte di Cassazione Secondo un indirizzo più recente il singolo condomino, in quanto titolare del diritto di tutelare le destinazioni d'uso delle parti comuni ex art. 1117-quater c.c., è legittimato, quanto meno in via concorrente o eventualmente surrogatoria con l'amministratore del condominio, a sporgere querela (Cass. II, n. 45902/2021, Cass. III, n. 49392/2019). 3. Azioni processualiUlteriori attività difensive Per la fattispecie in esame si possono esperire le seguenti ulteriori attività difensive: Istanza di sequestro conservativo della parte civile (art. 316); Memoria difensiva al pubblico ministero (art. 367); Richiesta di presentazione spontanea per rilasciare dichiarazioni (art. 374); Memoria difensiva (art. 419, comma 2); Richiesta di giudizio abbreviato (art. 438, comma 1). Procedibilità Il furto, ai sensi dell'art. 624, comma 3, c.p., è punito a querela della persona offesa, ad eccezione delle ipotesi in cui o quest'ultima è incapace, per età o per infermità, o ricorrono taluna delle circostanze di cui all'articolo 625, numeri 7, salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede, e 7-bis). Pertanto, in caso di furto aggravato perché il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di un qualsiasi mezzo fraudolento (art. 625, comma 1, n. 2 c.p.) si procede a querela. L'appropriazione indebita, ai sensi dell'art. 646, comma 1, c.p. è sanzionata a querela della persona offesa. Ad entrambe le fattispecie si applica il disposto dell'art. 649 c.p., che sancisce la non punibilità per fatti commessi a danno di congiunti elencati al primo comma, a meno che non ricorrano una delle situazioni esplicitate al comma 2 (fatto commesso a danno del coniuge legalmente separato, ecc.). Se ricorre una delle predette ipotesi si procede a querela della persona offesa. Prima della riforma Cartabia nei casi in cui o si verificavano i fatti previsti dall'art. 646, comma 2, c.p. o i fatti di appropriazione indebita erano aggravati dalle circostanze di cui all'art. 61, comma 1, numero 11, c.p. si procedeva, inoltre, di ufficio ai sensi dell'art. 649-bis c.p. se: – ricorrevano circostanze aggravanti ad effetto speciale (inclusa la recidiva nei casi di cui all'art. 99, commi secondo e seguenti: cfr. Cass. S.U., n. 3585/2021); – la persona offesa era incapace per età o per infermità; – il danno arrecato alla persona offesa era di rilevante gravità (con duplicazione sostanziale del riferimento ai casi di cui all'art. 61, comma 1, n. 7, c.p.). Diversamente, la c.d. “Riforma Cartabia” [art. 2, comma 1, lett. q), d.lgs. n. 150/2022, in vigore, come stabilito dal d.l. n. 162/2022, convertito in l. n. 199/2022, dal 30 dicembre 2022], modificando l'art. 649-bis c.p., prevede che si proceda d'ufficio se: – ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale diverse dalla recidiva; – la persona offesa era incapace per età o per infermità. Le disposizioni transitorie contenute nell'art. 85, comma 1, d.lgs. n. 150/2022, e nella l. n. 199/2022 (che sostituisce il disposto riportato dal comma 2 del predetto art. 85 ed introduce i commi 2-bis e 2-ter) individuano le tempistiche di entrata in vigore delle predette modifiche. Quest'ultime, infatti, sono immediatamente operative per i reati commessi a partire dal 30/12/2022, data di vigenza della novella, mentre in riferimento ai reati commessi fino al 29/12/2022, divenuti procedibili a querela di parte in forza delle nuove disposizioni, operano secondo lo schema di seguito riportato, A) Casi in cui non pende il procedimento penale: – se il soggetto legittimato a proporre querela ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato” il termine per proporla è di mesi tre, ex art. 124 c.p., (disposto non toccato dall'intervento novellatore), decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade, pertanto, il 30/03/2023; – se il soggetto legittimato a proporre querela non ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato” il medesimo termine per proporla decorre, secondo la disciplina ordinaria, in parte qua non modificata, dal momento in cui ne abbia avuto conoscenza. Tale tempistica si deduce dalla lettura “a contrario” della succitata disposizione. B) Casi in cui pende il procedimento penale: – il termine trimestrale per proporre querela decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade il 30/03/2023 in quanto il soggetto legittimato a proporla ha necessariamente avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato”. Inoltre, diversamente rispetto a quanto previsto dall'originario comma 2 del succitato art. 85, sul giudice procedente non grava alcun onere di informare la parte offesa di tale facoltà. Si presume, infatti, che la parte offesa debba avere conoscenza della novella. Ferma restando la predetta disciplina, l'art. 85 al comma 2 prevede che le misure cautelari personali in corso di esecuzione perdono efficacia se, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2022, e quindi entro il 19/01/2022, l'autorità giudiziaria che procede non acquisisce la querela. A tal fine, l'autorità giudiziaria procedente effettua ogni utile ricerca della parte offesa, anche avvalendosi della polizia giudiziaria. Durante la pendenza del predetto termine di venti giorni, i termini di cui all'art. 303 c.p.p. sono sospesi. Quest'ultima disposizione è applicabile al reato di appropriazione indebita e a quello di furto aggravato ex art. 625, ma non a quello di furto “semplice” ai sensi dell'art. 624 c.p. Per determinare la pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari personali ai sensi dell'art. 278 c.p.p. si tiene conto, infatti, delle sole circostanza aggravanti ad effetto speciale, ma non anche della recidiva. Ciò comporta che le misure cautelari coercitive sono applicabili (artt. 281/286-bis c.p.p.) soltanto all'appropriazione indebita, punita con pena edittale massima pari ad anni sei di reclusione, ed al furto aggravato ex art. 625 c.p., punito con pena edittale massima pari ad anni sei di reclusione (e non anche al furto aggravato ex art. 61, comma primo, n. 7 e n. 11, c.p. – a cui la norma non riconosce quoad poenam alcun “effetto speciale”, e che, pertanto, resta punito con pena edittale massima pari ad anni tre di reclusione – ovvero dalla recidiva). Ciò in quanto l'art. 280, comma 1, c.p.p. consente l'applicazione delle predette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni e il comma 2, c.p.p. prevede l'applicazione della predetta misura coercitiva ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Infine, durante la pendenza del termine per proporre querela, si applica quanto disposto dall'art. 346 c.p.p. in tema di atti compiuti in mancanza di condizioni di procedibilità. Alcune questioni che la nuova disciplina potrà proporre sono già state risolte dalla giurisprudenza in relazione a precedenti interventi novellatori dello stesso tenore: – l'inammissibilità del ricorso per cassazione esclude che possano porsi questioni riguardanti l'eventuale esercizio del diritto di querela (Cass. S.U., n. 40150/2018, in tema di reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018 n. 36 e di giudizi pendenti in sede di legittimità); – non possono porsi questioni riguardanti l'eventuale esercizio del diritto di querela quando la persona offesa abbia già manifestato la volontà di punizione del reo, costituendosi parte civile e persistendo in tale costituzione nei successivi gradi di giudizio (Cass. II, n. 28305/2019 e Cass. V, n. 44114/2019: fattispecie riguardante i reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36); – la remissione della querela, pur intervenuta in un momento nel quale vigeva un regime di procedibilità d'ufficio, implica l'obbligo di dichiarare la non procedibilità ai sensi dell'art. 129 c.p.p., ove disposizioni sopravvenute abbiano comportato la procedibilità di ufficio: la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, determina, infatti, la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti (Cass. II, n. 225/2019: fattispecie riguardante la modifica del regime di procedibilità per i delitti di cui agli artt. 640 e 646 c.p., introdotta dal d.lgs. n. 36/2018. Nella motivazione la Corte ha richiamato la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, dalla quale discende la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti); – non costituisce causa di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 c.p.p. una modifica legislativa per effetto della quale un reato procedibile d'ufficio divenga procedibile a querela, in caso di mancata proposizione di quest'ultima. Ciò in quanto il regime di procedibilità non è elemento costitutivo della fattispecie e, conseguentemente, la sopravvenuta previsione della procedibilità a querela è inidonea a determinare un fenomeno di abolitio criminis (Cass. I, n. 1628/2020: fattispecie relativa al delitto di appropriazione indebita aggravato art. 61, comma 1, n. 11, c.p., divenuto procedibile a querela a seguito del d.lgs. n. 36/2018); – la sopravvenuta procedibilità a querela del reato di appropriazione indebita per effetto del d.lgs. n. 36/2018 non costituisce prova nuova ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p. nel caso in cui la modifica normativa sia intervenuta successivamente al passaggio in giudicato della sentenza della quale si chiede la revisione: in ragione della natura mista – sostanziale e processuale – dell'istituto della querela, la sopravvenuta disciplina più favorevole deve, infatti, essere applicata nei procedimenti pendenti, salva l'insuperabile preclusione costituita dalla pronuncia di sentenza irrevocabile, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., se non derogata da una disposizione transitoria ad hoc (Cass. II, n. 14987/2020). Illustrati gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità pacifici occorre segnalare che sussiste un contrasto sulla possibile valenza della querela tardiva o comunque, per altro verso, irrituale, sporta quando vigeva un regime di procedibilità d'ufficio: – un orientamento ritiene privo di rilievo il fatto che la persona offesa abbia, in precedenza, manifestato la volontà di punizione oltre il termine di cui all'art. 124 c.p. Ciò in quanto la valutazione in ordine alla condizione di procedibilità è ancorata al momento dell'entrata in vigore del nuovo regime normativo che prevede la procedibilità a querela. Non rileverebbero eventuali irregolarità della querela afferenti ad un momento procedimentale anteriore, in cui la querela stessa non era richiesta ai fini della procedibilità (Cass. II, n. 25341/2021; Cass. II, n. 11970/2020; Cass. S.U. , n. 5540/1982); – altro orientamento considera preclusa la possibilità di esercitare il diritto di sporgere querela per la parte offesa che abbia in precedenza già manifestato la volontà di punizione oltre il termine di cui all'art. 124 c.p., poiché, diversamente, l'avviso si risolverebbe in una rimessione in termini. Tale indirizzo precisa, inoltre, che l'onere di tempestività a carico della parte che si ritenga persona offesa dal reato, sussiste indipendentemente dalla procedibilità del reato di ufficio o a querela di parte (Cass. II, n. 8823/2021; Cass. II, n. 12420/2020). Quest'ultimo orientamento appare all'evidenza non condivisibile, pretendendo di valorizzare, al fine di precludere alla parte offesa l'esercizio della facoltà di sporgere querela, vizi della medesima intervenuti quando l'atto era irrilevante, vigendo un regime di procedibilità officiosa. Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato) Il termine-base di prescrizione è pari ad anni sei (cfr. art. 157 c.p.) sia per il furto, anche aggravato, sia per l'appropriazione indebita. A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), per l'appropriazione indebita costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione: — del giudizio di appello entro il termine di due anni; — del giudizio di cassazione entro il termine di un anno. Tali cause di improcedibilità ricorrono a meno che non intervenga: — la proroga per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare; — la sospensione nei casi previsti dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p.; — la diversa modulazione dei predetti termini in applicazione della normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021). Misure precautelari e cautelari Arresto e fermo In relazione al reato di furto: — non è mai consentito l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380 c.p.p.); — è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 2, lett. g), c.p.p.); — non è mai consentito il fermo (art. 384 c.p.p.) a meno che non ricorra l'aggravante di cui all'art. 4 l. 8 agosto 1977, n. 533 in materia di armi. In riferimento al reato di furto aggravato ai sensi dell'art. 625, comma 1, n. 1, c.p.: — non è mai consentito l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380 c.p.p.); — è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 1, c.p.p.); — non è consentito il fermo a meno che non ricorra un concorso di circostanze ai sensi dell'art. 625, comma 2, c.p. (art. 384 c.p.p.). Con riguardo al reato di appropriazione indebita: — non è mai consentito l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380 c.p.p.); — è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 2, c.p.p.); — è consentito il fermo (art. 384 c.p.p.). In riferimento all'arresto facoltativo in fragranza di reato l'art. 381, comma 3, c.p.p. dispone che se si tratta di delitto perseguibile a querela, può essere eseguito se la querela viene proposta, anche con dichiarazione resa oralmente all'ufficiale o all'agente di polizia giudiziaria presente nel luogo. Se l'avente diritto dichiara di rimettere la querela, l'arrestato è posto immediatamente in libertà. Sempre riguardo l'arresto in flagranza, non è necessario che l'autore del furto sia sorpreso nell'atto di manomettere il contatore o di effettuare l'allacciamento abusivo, ma è sufficiente che la captazione di energia elettrica sia in corso e che la condotta integrante l'aggravante di cui all'art. 625, n. 2) c.p. sia stata preventivamente posta in essere per consentire l'impossessamento (Cass. IV, n. 43693/2019). Misure cautelari personali Nel caso di furto non è consentita la custodia cautelare in carcere ed altre misure cautelari personali (art. 278 e ss. c.p.p.) poiché l'art. 280, comma 1, c.p.p. prevede l'applicazione delle predette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni. Sempre in riferimento al furto, per il quale è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 2, lett. g, c.p.p.), l'art. 391, comma 5, c.p.p. contempla l'applicazione di misure cautelari coercitive soltanto in caso di arresto in flagranza, stabilendo che, in tali casi, “l'applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lett. c), e 280”. È consentita, invece, l'applicazione delle misure cautelari personali (custodia cautelare in carcere ed altre misure cautelari personali art. 278 e ss. c.p.p.) in riferimento sia alla fattispecie di furto aggravata, sia a quella di appropriazione indebita. Anche in relazione ai due predetti delitti si applica il succitato disposto dell'art. 391, comma 5, c.p.p. Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale Competenza Nei casi di furto, anche aggravato, e di appropriazione indebita è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione monocratica (cfr. artt. 33-bis e 33-ter c.p.p.). Citazione a giudizio Per il furto, anche aggravato, si procede con citazione diretta a giudizio del P.M., ex art. 550, comma 1 e comma 2 lett. f), c.p.p. Per l'appropriazione indebita, invece, si procede con udienza preliminare, in luogo della citazione diretta del P.M. a giudizio. Composizione del tribunale Il processo per i reati di furto, anche aggravato, e di appropriazione indebita si svolgerà sempre dinanzi al tribunale in composizione monocratica ai sensi dell'art. 33-ter, comma 2, c.p.p. (che detta regole riguardanti le attribuzioni del tribunale in composizione monocratica). 4. ConclusioniPer delimitare l'ambito di applicazione delle fattispecie di furto e di appropriazione di energia elettrica da parte del condòmino la Cassazione nella l'impostazione più recente opera una distinzione sulla base della sussistenza o meno in capo all'agente/condòmino di un autonomo potere di fatto sull'energia elettrica. Quest'ultimo si ravvisa solo in riferimento a quell'energia che transitando attraverso il contatore serve in concreto gli impianti condominiali. In tale ipotesi la condotta di indebita fruizione per costante giurisprudenza deve essere qualificata come appropriazione indebita (Cass. IV, n. 54014/2018). Non sussiste alcun potere dispositivo, invece, quando il soggetto attivo distoglie il flusso dell'energia che è transitato dal contatore, in modo da alimentare (soltanto) gli apparecchi e gli impianti propri. In tale caso si impossessa dell'energia deviata ai sensi dell'art. 624 c.p. |