La rilevanza penale della condotta distrattiva dell'amministratore di condominio

FRANCESCA ROMANA FULVI

1. Bussole di inquadramento

La rilevanza penale della condotta distrattiva dell'amministratore di condominio

Negli ultimi anni la Cassazione ha avuto modo di focalizzare l'attenzione sulle diverse possibili modalità esplicative della condotta distrattiva che può essere posta in essere dall'amministratore di condominio.

Quest'ultimo, infatti, è tenuto ad adempiere a numerosi compiti in virtù di un rapporto di mandato che lo lega ai condomini. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni civili della Corte di Cassazione l'amministratore del condominio configura, infatti, un ufficio di diritto privato oggettivamente orientato alla tutela dei loro interessi e assimilabile al mandato con rappresentanza, con la conseguente applicabilità, delle disposizioni sul mandato nei rapporti tra quest'ultimo e ciascuno dei condomini (Cass. civ. II, n. 1286/1997; Cass. civ. II, n. 12304/1993).

Uno degli aspetti più importanti di tale rapporto è indubbiamente la gestione del loro denaro. In particolare, tra le attribuzioni assegnate dall'art. 1130 c.c. all'amministratore di condominio rientrano la riscossione dei contributi e l'erogazione delle spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni e l'esecuzione degli adempimenti fiscali. Egli può, quindi, ricevere dai condòmini somme di denaro, al fine di provvedere all'esecuzione di specifici pagamenti o da riversare nella cassa condominiale onde far fronte alle spese di gestione del condominio secondo i bilanci approvati dall'assemblea. In riferimento a tali somme, in riferimento alle quali è titolare di una situazione giuridica soggettiva qualificata dalla giurisprudenza come una detenzione nomine alieno, ha, poi, l'obbligo di farle transitare su uno specifico conto corrente intestato al condominio (art. 1129, comma 7, c.c.).

Non di rado, però, gli importi ivi confluiti sono stati oggetto di appropriazione da parte dell'amministratore nel momento in cui li ha utilizzati per scopi diversi ed incompatibili con il mandato ricevuto e coerenti, al contrario, con finalità personali. In merito le ipotesi che sono state vagliate dalla giurisprudenza sono diverse: a titolo puramente esemplificativo è possibile citare il prelievo di somme di denaro depositate sui conti correnti dei singoli condomìni, dei quali l'amministratore aveva piena disponibilità per ragioni professionali, posto in essere con la coscienza e volontà di farle proprie per compensare un presunto credito preesistente non certo, né liquido ed esigibile; la mancata erogazione sia ad un professionista del suo compenso per le prestazioni rese e sia all'erario delle somme da versare per conto del condominio quale sostituto di imposta ed a titolo di ritenuta d'acconto, ecc.

In relazione alla condotta distrattiva la Cassazione ha avuto modo di analizzare in diverse occasioni il caso dell'amministratore di più condominii che fa confluire i saldi dei conti attivi di quest'ultimi su un unico conto di gestione a lui intestato — in altre sentenze sul conto corrente di titolarità di un diverso condominio — senza aver ottenuto una preventiva autorizzazione dall'assemblea condominiale. Nella casistica oggetto di esame, poi, l'amministratore ha realmente utilizzato parte delle somme riversate nel succitato conto corrente “di gestione” (o i fondi di pertinenza di un altro condominio) per effettuare i pagamenti dovuti ai fornitori dei singoli condominii. Più nello specifico in una delle ipotesi esaminate ha prelevato gli importi conferiti da alcuni condòmini per le spese del servizio di riscaldamento e l'ha utilizzata per coprire le perdite che si erano verificate in altro condominio da lui gestito. In altre in parte ha coperto ammanchi di altri conti correnti e in parte ha usato il denaro depositato per fini personali.

Si è posta, pertanto, la questione se per configurare il delitto di appropriazione indebita sia sufficiente che l'agente ponga in essere la mera “distrazione” del denaro dai conti correnti intestati ai singoli condomini o se, invece, è necessario che acquisisca in modo definitivo le somme appartenenti ai condominii attraverso la loro destinazione ad esigenze di natura “personale”.

La tesi della configurabilità dell'appropriazione indebita

La giurisprudenza più recente (Cass. II, n. 57383/2018) ha ritenuto che la condotta di “distrazione” degli importi accreditati sui singoli conti correnti fatti confluire in un conto “comune” integra il delitto di appropriazione indebita.

Quest'ultimo sanziona, infatti, il comportamento del soggetto che, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso.

L'amministratore, per ragioni del suo ufficio, è titolare di una situazione giuridica soggettiva qualificabile come detenzione “nomine alieno” delle somme di pertinenza del condominio, sulle quali opera effettuando prelievi e pagamenti vari in favore del medesimo. Come sopra esplicitato gli si applicano le norme contenute nel codice civile sul mandato (art. 1713 c.c.), ai sensi delle quali il mandatario deve rendere al mandante il conto e rimettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato. L'obbligo di restituzione sorge a seguito della conclusione dell'attività gestoria, salvo che l'estinzione avvenga prima di tale termine, e deve essere adempiuta non appena tale attività si è realizzata (generalmente in seguito al rendiconto annuale).

Nel caso di specie l'amministratore di più condominii avrebbe tenuto la condotta appropriativa richiesta dalla succitata norma ai fini della consumazione del reato perché ha riversato su un unico conto di gestione a lui intestato gli importi dei conti attivi dei singoli condominii senza aver ottenuto una preventiva autorizzazione secondo le modalità prescritte dalle fonti normative in materia (codice civile e regolamento condominiale ex art. 1138 c.c.). Egli, attraverso tale operazione di “trasferimento”, avrebbe dato alle somme detenute una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificavano il loro possesso, ovvero il mandato conferito dai singoli condòmini a cui appartenevano, realizzando l'interversione richiesta dalla norma.

La ratio della norma contenuta dall'art. 646 c.p. si rintraccia, infatti, nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, disponendo autonomamente della res, le dia una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il suo possesso, anche nel caso in cui si tratti di una somma di denaro (Cass. V, n. 46474/2014).

La condotta dell'agente, pertanto, può essere sussunta nell'ambito dell'appropriazione indebita non solo perché tale delitto può estrinsecarsi in una qualsiasi forma, non essendo preindividuate dalla norma delle particolari modalità di commissione, ma anche perché — come detto — si è consumata l'interversione nel possesso.

Quest'ultima, infatti, si manifesta quando l'autore si comporta uti dominus non restituendo il bene di cui ha avuto la disponibilità̀ senza giustificazione (Cass. II, n. 25444/2017). L'amministratore, conclusa la gestione (e in difetto di contrarie disposizioni pattizie), è comunque tenuto alla restituzione di quanto ha ricevuto nell'esercizio del mandato per conto del condominio, vale a dire tutto ciò che ha in cassa, e ciò indipendentemente dalla gestione alla quale le somme si riferiscono.

Nell'ipotesi in esame la mancata riconsegna si sarebbe concretizzata proprio attraverso la condotta distrattiva e la successiva destinazione del denaro ad uno scopo incompatibile rispetto a quello per cui era stato conferito. Non rileverebbe, infatti, la destinazione finale del saldo cumulativo ad esigenze personali dell'amministratore o dei condomìni amministrati, in quanto tale comportamento comporta di per sé la violazione del vincolo di destinazione impresso al denaro al momento del suo conferimento (Cass. II, n. 46875/2021; Cass. II, n. 57383/2018).

Proprio in riferimento al denaro la giurisprudenza ha, poi, precisato che “può essere oggetto di interversione nel possesso, e conseguente appropriazione indebita solo quando sia consegnato dal legittimo proprietario, ad altri con specifica destinazione di scopo che venga poi violata attraverso l'utilizzo personale da parte dell'agente” (Cass. II, n. 50672/2017).

La condotta tenuta dall'amministratore comporta, dunque, di per sé la violazione del vincolo di destinazione impresso al denaro appartenente al primo condominio al momento del suo conferimento (Cass. II, n. 12783/2020).

La tesi della inconfigurabilità dell'appropriazione indebita

Generalmente si individua una condotta distrattiva quando il soggetto imprime alla cosa una destinazione diversa da quella cui era originariamente destinata. Secondo un orientamento giurisprudenziale meno recente tale tipologia di comportamento diverge da quello di appropriazione che consiste, invece, nell'esercizio sulla cosa di atti di dominio (uti dominus) incompatibili con il titolo che ne giustifica il possesso e postula, di conseguenza, che il possessore si comporti verso la cosa come se fosse propria, compiendo cioè sulla stessa quegli atti che potrebbe compiere solo il proprietario (Cass. S.U., n. 8342/1987).

In particolare alcune decisioni giurisprudenziali, concernenti la costituzione di fondi extrabilancio da parte di organi societari per fini (più o meno) illeciti, ma comunque non estranee alle finalità dell'azienda (conseguimento di appalti, forniture, ecc.), hanno ritenuto che la condotta distrattiva non fosse riconducibile nel genus di quelle di appropriazione. Secondo tale indirizzo l'amministratore il quale utilizzi risorse della società perseguendo l'interesse dell'ente agisce sempre quale organo della compagine societaria. Il fatto di cercare di conseguire tale interesse comporta che non venga negata l'appartenenza delle predette risorse alla medesima e, di conseguenza, l'agente compirebbe una distrazione penalmente insignificante perché riferibile al soggetto (appunto la società) proprietario dei beni (Cass. V, n. 4942/2021; Cass. II, n. 19147/2019; Cass. II, n. 30942/2015).

Per tale impostazione se l'inosservanza del titolo e delle ragioni del possesso non si concretizza in un'espropriazione del proprietario non può, di per sé, determinare l'appropriazione ai sensi dell'art. 646 c.p. Può accadere, infatti, che il dominus non è privato del suo bene/denaro quando il possessore, pur non ottemperando alle sue prescrizioni, continua a impiegarlo nel suo interesse. In tale ipotesi, infatti, l'agente non si comporta come se fosse il proprietario. Da tale ricostruzione ne consegue che l'impiego di risorse societarie per attività penalmente illecite, ma comunque non estranee alle finalità dell'azienda, non potrà configurare il reato ex art. 646 c.p. perché destinato al conseguimento di utilità del dominus, cioè la società (Cass. II, n. 19147/2019; Cass. II, n. 30942/2015).

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
È configurabile il delitto di appropriazione indebita da parte dell'amministratore di più condominii attraverso una condotta di mera “distrazione” del denaro dai conti correnti intestati ai singoli condominii?

Orientamenti giurispudenziali

Orientamento minoritario della Corte di Cassazione

Secondo un orientamento minoritario la condotta di “mera” distrazione del denaro non può essere ricompresa nell'ambito concettuale (e, pertanto, applicativo) di quella tipica di appropriazione indebita.

Tale impostazione interpretativa si rinviene in particolare in relazione al compimento da parte dell'amministratore di società di atti di disposizione patrimoniale che risultano comunque idonei a soddisfare anche indirettamente l'interesse sociale, e non quello esclusivamente personale del disponente (Cass. V, n. 4942/2021; Cass. II, n. 19147/2019; Cass. II, n. 30942/2015).

In particolare, un'ipotesi molto dibattuta, rientrante proprio nel novero delle condotte distrattive, è stata quella avente ad oggetto la formazione di fondi extrabilancio — e la creazione di riserve occulte — effettuata all'interno di una società di capitali dai suoi amministratori. La costituzione di tali fondi si caratterizzava in quanto aveva lo scopo di sovvenzionare attività illecite che si rivelavano in qualche modo produttive di vantaggi per la medesima compagine societaria perché riconducibili ad interessi societari. Specificamente nei casi analizzati dalla Corte i fondi erano destinati al finanziamento occulto di partiti politici e di giornalisti finalizzato a procurare benevolenze per la società.

In un primo momento la Cassazione ha ritenuto che la sopra descritta operazione non potesse essere sussunta nella sfera di applicazione della fattispecie sanzionata dall'art. 646 c.p. Il presupposto del ragionamento è stato che la finalità illecita non esclude di per sé la riconducibilità all'oggetto sociale dell'attività dell'amministratore di una società di capitali. Sulla base di quest'ultimo ha escluso che potesse essere qualificata come distrattiva, e tantomeno come appropriativa, un'erogazione di danaro che, sebbene compiuta in violazione delle norme organizzative della società, rispondeva a un interesse riconducibile anche indirettamente al predetto oggetto sociale. Ciò in quanto la distrazione richiede la destinazione di un bene ad uno scopo diverso da quello precostituito. Secondo la Corte per configurare la fattispecie di cui all'art. 646 c.p. era, pertanto, necessario che la condotta non risultasse giustificata o giustificabile come pertinente all'azione o all'interesse della società, in quanto poteva accadere che una persona giuridica, attraverso i suoi organi, perseguisse i propri scopi con mezzi illeciti, senza che ciò comportasse di per sè l'interruzione del rapporto organico (Cass. V, n. 10041/1998; Cass. V, n. 1245/ 1998).

La sopra esposta conclusione, sebbene frutto di un percorso argomentativo diverso, è stata ritenuta condivisibile anche da Cass. II, 23 giugno 1989. In tale arresto la Cassazione ha affermato che sebbene le condotte di appropriazione e di distrazione implichino entrambe la sottrazione del bene alle sue finalità istituzionali, in realtà si diversificano nella fase successiva della nuova destinazione: nell'appropriazione è soggettivamente ed oggettivamente orientata ad impadronirsi della cosa, cioè ad instaurare un completo dominio su di essa immettendola nel patrimonio dell'agente, mentre nella distrazione è rivolta semplicemente ad un uso arbitrario del bene con impiego per fini diversi da quello cui era destinato. Di conseguenza l'amministratore delegato della società capogruppo, che distraeva fondi extrabilancio di società controllate senza vantaggio personale né fraudolente intese con i terzi destinatari dei singoli atti di disposizione, non poneva in essere alcuna condotta riconducibile al modello di appropriazione indebita delineato dall'art. 646 c.p.

In merito alla questione sono intervenute, poi, anche le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 8342/1987) affermando che il delitto descritto dall'art. 646 c.p. prevede come condotta tipica solo l'appropriazione e non la mera distrazione.

Occorre, però, ricordare che in altre occasioni la Cassazione si è pronunciata in senso opposto, asserendo che l'amministratore di società commette appropriazione indebita nell'ipotesi in cui costituisce riserve extrabilancio, con le quali venivano remunerati pubblici ufficiali al fine di ottenere appalti per la società da lui gestita. Ciò in quanto destinare fondi ad attività illecite non può mai rientrare nell'oggetto sociale, anche in considerazione del necessario requisito di liceità del medesimo prescritto dalla legge. Secondo tale indirizzo la condotta di appropriazione, che caratterizza il delitto di cui all'art. 646 c.p., si sostanzia, infatti, non solo nell'annettere al proprio patrimonio il denaro o la cosa mobile altrui, bensì anche nel disporne arbitrariamente, uti dominus, sotto qualsiasi forma, in modo tale che ne derivi per il proprietario la perdita irreversibile. Tale risultato è raggiungibile anche attraverso la distrazione perchè consiste nell'imprimere ad un bene una destinazione in contrasto col titolo che ne legittima il possesso e, quindi, come l'esercizio di facoltà competenti al dominus (Cass. II, n. 5136/1997; in senso conf., Cass. V, 9 luglio 1992).

Il succitato indirizzo “minoritario” è stato ripreso da una recente sentenza della Cassazione (Cass. V, n. 4942/2021) secondo la quale non si configura il reato di appropriazione indebita quando l'amministratore di una società di capitali tiene una condotta distrattiva attraverso l'effettuazione di atti di disposizione patrimoniale che appaiono idonei a soddisfare, anche indirettamente, sia l'interesse sociale sia quello suo esclusivamente personale. Nella pronuncia, infatti, la Corte esclude che, in tal caso, si realizzi la divaricazione assoluta tra il titolo del possesso e l'atto di disposizione della res idoneo ad integrare la condotta appropriativa e ritiene incompatibile il perseguimento di un interesse societario — in via diretta o indiretta o anche solo putativa — con il dolo specifico del delitto contemplato dall'art. 646 c.p.

Orientamento più recente della Corte di Cassazione

Più recentemente la Cassazione (Cass. II, n. 57383/2018) ha qualificato atti di appropriazione indebita tutte le condotte che si erano sostanziate nella fuoriuscita di denaro, senza autorizzazione, dai singoli conti correnti di ciascun condominio per confluire su un unico conto corrente (talvolta intestato ad altro condominio e altre volte all'amministratore). In tale ipotesi, infatti, non rileverebbe la destinazione finale del saldo cumulativo ad esigenze personali dell'amministratore o dei condomìni amministrati, in quanto tale condotta implica di per sé la violazione del vincolo di destinazione impresso al denaro al momento del suo conferimento. (Cass. II, n. 46875/2021; Cass. II, n. 12783/2020; Cass. II, n. 57383/2018).

In primo luogo ha chiarito che non c'è motivo di distinguere due tipologie di pagamenti, ovvero “incrociati” (eseguiti a favore di un condominio con i fondi di pertinenza di altro amministrato dal medesimo soggetto) e “cumulativi” (effettuati per tutti i condominii amministrati dall'agente con i fondi confluiti nel conto “di gestione” appositamente da lui acceso a suo nome). Ciò in quanto si tratta di espressioni utilizzate per descrivere il medesimo meccanismo posto in essere dall'amministratore: quest'ultimo aveva aperto e si era intestato un conto corrente nel quale aveva fatto confluire gli importi accreditati su quelli dei singoli condominii e, poi, aveva utilizzato la provvista così formata per effettuare tutti i pagamenti relativi a tutti gli stabili da lui gestiti. In tal modo, infatti, una volta confluite le somme sul conto “comune”, è fisiologico e “automatico” che le spese di un condominio siano pagate con i soldi di altro. Di conseguenza non appare aver senso distinguere tra pagamenti “incrociati” e pagamenti “cumulativi”.

Poi ha affermato che la sola “distrazione” dei fondi sopra descritta, effettuata in assenza di una preventiva autorizzazione da parte dell'assemblea condominiale, costituisce condotta sussumibile nell'ambito di applicazione del delitto di cui all'art. 646 c.p.

In merito chiarisce che la specifica indicazione del “denaro” (a fianco di quella, in forma alternativa, di “cosa mobile”) all'interno del corpo del testo della norma contenuta nell'art. 646 c.p. permette di ricostruire la voluntas legislatoris. Come già evidenziato da un orientamento giurisprudenziale risalente nel tempo, il legislatore, infatti, per evitare incertezze e di reprimere gli abusi e le violazioni del possesso del danaro, ha voluto precisare che anche il denaro può costituire oggetto del reato di appropriazione indebita, in quanto, nonostante la sua “ontologica” fungibilità, può essere oggetto di trasferimento relativamente al mero possesso, senza che al predetto passaggio si accompagni anche quello della proprietà.

Pertanto “il denaro può essere oggetto di interversione nel possesso, e conseguente appropriazione indebita solo quando sia consegnato dal legittimo proprietario, ad altri con specifica destinazione di scopo che venga poi violata attraverso l'utilizzo personale da parte dell'agente” (Cass. II, n. 50672/2017).

Tale eventualità si verifica in tutte le ipotesi in cui sussista o si instauri un rapporto di deposito o un obbligo di custodia e in quelle in cui il denaro venga consegnato con l'espressa limitazione del suo uso o con un preciso incarico di dare allo stesso una specifica destinazione o di impiegarlo per un determinato uso. In tutti questi casi il possesso del denaro non conferisce il potere di compiere atti di disposizione non autorizzati o, comunque, incompatibili con il diritto poziore del proprietario e, ove ciò avvenga si commette il delitto di appropriazione indebita (Cass. II, n. 50672/2017; Cass. II, n. 24857/2017; Cass. II, n. 12869/2016).

La Corte ha osservato, inoltre, che in una fattispecie che presenta profili di affinità rispetto al caso di specie, ovvero di condotte comunque di natura distrattiva poste in essere in ambito infragruppo societario, il legislatore ha avuto cura di introdurre, con l'art. 2634 c.c., comma 3, una specifica causa di non punibilità per le ipotesi di infedeltà patrimoniale. Quest'ultima, infatti, prevede l'impunità per fatti che, altrimenti, sarebbero oggettivamente (e soggettivamente) distrattivi quali i pagamenti eseguiti da una società rispetto a debiti facenti capo ad altra appartenente del medesimo gruppo.

L'art. 2634 c.c., infatti, da un lato al comma 1, sanziona “gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale”, e dall'altro, al comma 3, prevede che “in ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo”.

A sostegno, infine, delle conclusioni formulate la Corte ha ricordato i casi in cui si configura la fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione (art. 322 d.lgs. n. 14/2019, che recepisce il testo dell'art. 216 r.d. n. 267/1942), ovvero quando il fatto si riferisce a rapporti intercorsi tra società appartenenti a un medesimo gruppo.

I principi elaborati in materia fallimentare confermano, infatti, che si ha “distrazione” e, quindi, appropriazione indebita, non soltanto quando chi ha la materiale disponibilità del denaro se ne appropri per finalità sue proprie e personali, ma anche quando gli imprima, senza alcuna autorizzazione del titolare, una destinazione diversa da quella che ne aveva legittimato la detenzione.

In tale ipotesi, infatti, non è possibile escludere l'effettività della distrazione e la configurabilità del reato sulla base di un interesse che si sostanzia solo nella partecipazione al gruppo stesso o si identifica nel vantaggio della società controllante. Ciò in quanto il collegamento tra le società e l'appartenenza a un gruppo imprenditoriale unitario è solo la premessa per individuare uno specifico e concreto vantaggio per la società che compie l'atto di disposizione patrimoniale (Cass. V, n. 1137/2008).

Per ritenere, infatti, insussistente la natura distrattiva di un'operazione infragruppo occorre dimostrare il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse del gruppo, elemento indispensabile per considerare lecita l'operazione temporaneamente svantaggiosa per la società depauperata. Non è sufficiente, dunque, allegare la mera partecipazione al gruppo, ovvero l'esistenza di un vantaggio per la società controllante (Cass. V, n. 46689/2016; Cass. V, n. 8253/2015).

Nel caso di specie, peraltro, non è evidentemente configurabile, tra i diversi condomini amministrati, alcun legame di “gruppo”: ne deriva che non è nemmeno in astratto possibile immaginare un vantaggio per il singolo condominio a veder confluire le sue risorse in un calderone unitario dal quale attingere per i pagamenti di tutti.

La Corte, infine, evidenzia che la ricostruzione operata nei succitati termini comporta che risulta irrilevante (ai fini della ritenuta integrazione della fattispecie di reato in esame) la circostanza che almeno parte delle somme confluite sul conto corrente “di gestione” fossero state effettivamente utilizzate per i pagamenti dovuti ai fornitori dei singoli condomini. Di conseguenza appare corretta l'impostazione del Tribunale che aveva indifferenziatamente ritenuto come fatti di appropriazione indebita tutte le condotte che si erano concretizzate nella fuoriuscita di denaro dai singoli conti correnti di ciascun condominio per confluire su quell'unico conto corrente, intestato all'amministratore, ed utilizzato come conto “di gestione” dei pagamenti per tutti condomini da costui amministrati.

Inconfigurabilità del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni

Orientamento prevalente della cassazione

In riferimento ad una diversa modalità esplicativa della condotta distrattiva la Cassazione ha avuto modo di puntualizzare che non è configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (Cass. II, n. 12618/2019).

Nel caso di specie l'amministratore di condominio aveva prelevato delle somme di denaro depositate sui conti correnti dei singoli condomìni, a pretesa compensazione con un suo credito preesistente non certo (cioè che risulta chiaramente nel suo contenuto e nei suoi limiti dagli elementi indicati nel titolo esecutivo, ovvero non è controverso nella sua esistenza), né liquido (cioè che il suo ammontare appare espresso in misura determinata o determinabile e non in modo generico) ed esigibile (cioè che non è sottoposto a condizione sospensiva né a termini, ovvero che il diritto è venuto a maturazione e può essere fatto valere in giudizio per ottenere una sentenza di condanna).

In primo luogo la Corte ha ricordato che per giurisprudenza costante (Cass. II, n. 46670/2019; Cass. II, n. 293/2013, Cass. II, n. 45992/2007) il reato di appropriazione indebita non viene meno quanto l'imputato invochi di aver trattenuto le somme in contestazione a compensazione di propri preesistenti crediti, ove si tratti di crediti non certi, non liquidi e non esigibili.

Poi ha spiegato che il sopra descritto prelievo realizzava la condotta tipica del reato di cui all'art. 646 c.p. perché l'agente aveva il possesso del succiato denaro per ragioni professionali (ovvero in qualità di mandatario e quale unico delegato ad operare sui predetti conti correnti) e tali somme erano gravate da un vincolo di destinazione (l'amministratore aveva l'obbligo di incassare i canoni di affitto di un immobile di proprietà del condominio con l'accordo di restituirli ogni tre mesi ai proprietari, dopo aver detratto a titolo di compensi professionali la percentuale del 3% annuo del monte locazioni e le spese documentate necessarie alla gestione).

Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si configura, invece, quando l'agente, al fine di esercitare un preteso diritto, potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo, mediante violenza sulle cose (agli effetti della legge penale, si ha violenza sulle cose allorché la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione).

Per giurisprudenza consolidata tale delitto non si ravvisa nel caso in cui il soggetto che si sia appropriato del denaro o dei beni a preteso soddisfacimento di un credito abbia la piena signoria sugli stessi e piena coscienza e volontà di farli propri. In tale ipotesi, infatti, sussiste l'elemento psicologico del reato di cui all'art. 646 c.p.: non può, infatti, ritenersi sussistente la buona fede rispetto ad una azione esecutiva privatamente esercitata, e non ricorre conseguentemente alcuno dei casi che potrebbero giustificare l'esclusione del dolo (Cass. II, n. 10282/1975).

Individuazione del momento consumativo del reato

Orientamento minoritario e risalente della Corte di Cassazione

Secondo un indirizzo minoritario e risalente l'evento del delitto di appropriazione indebita si realizza nel luogo e nel tempo in cui la manifestazione della volontà dell'agente di fare proprio il bene posseduto giunge a conoscenza della persona offesa, e non nel tempo e nel luogo in cui si compie l'azione (Cass. II, n. 48438/2004).

Orientamento dominante della Corte di Cassazione

Un'impostazione giurisprudenziale consolidata reputa che nell'ipotesi in analisi di appropriazione da parte dell'amministratore degli importi relativi ad un condominio il reato si consuma all'atto della cessazione della carica. La Cassazione ha, infatti, osservato che proprio in tale momento, in mancanza di restituzione delle somme di denaro ricevute nel corso della gestione, si verifica con certezza l'interversione del possesso (Cass. II, n. 27363/2016). Ha evidenziato, infatti, che, considerata la natura fungibile del denaro, l'amministratore potrebbe reintegrare il condominio delle somme precedentemente disperse sino alla conclusione del suo mandato.

In diverse pronunce, poi, la Cassazione ha precisato che il termine di prescrizione decorre dal giorno di cessazione della carica (Cass. II, n. 19519/2020; Cass. II, n. 40870/2017). Tale impostazione è conforme a quell'indirizzo giurisprudenziale secondo cui il delitto di appropriazione indebita è un reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, e cioè quando l'agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria. A ciò consegue che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Cass. II, n. 15735/2020; Cass. II, n. 17901/2014; Cass. II, n. 22127/2013; Cass. I, n. 26440/2002).

Legittimazione a proporre querela

Orientamento più risalente della Corte di Cassazione

Per un'impostazione meno recente la querela proposta dal singolo condomino per un reato commesso in danno di parti comuni dell'edificio non è valida, in quanto il condominio è strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condomini e l'espressione della volontà di presentare querela passa attraverso detto strumento di gestione collegiale. Ne consegue che la presentazione di una valida querela, da parte di un condominio, in relazione ad un reato commesso in danno del patrimonio comune dello stesso, presuppone uno specifico incarico conferito all'amministratore dall'assemblea condominiale (Cass. V, n. 6197/2010).

Orientamento recente della Corte di Cassazione

Secondo un indirizzo più recente il singolo condomino, in quanto titolare del diritto di tutelare le destinazioni d'uso delle parti comuni ex art. 1117-quater c.c., è legittimato, quanto meno in via concorrente o eventualmente surrogatoria con l'amministratore del condominio, a sporgere querela (Cass. II, n. 45902/2021, Cass. III, n. 49392/2019).

3. Azioni processuali

Ulteriori attività difensive

Per la fattispecie in esame si possono esperire le seguenti ulteriori attività difensive: Querela (art. 336); Istanza di sequestro conservativo della parte civile (art. 316); Memoria difensiva al pubblico ministero (art. 367); Richiesta di presentazione spontanea per rilasciare dichiarazioni (art. 374); Memoria difensiva (art. 419, comma 2); Richiesta di giudizio abbreviato (art. 438, comma 1).

Procedibilità

L'appropriazione indebita, ai sensi dell'art. 646, comma 1, c.p. è sanzionata a querela della persona offesa. A tale fattispecie si applica il disposto dell'art. 649 c.p., che sancisce la non punibilità per fatti commessi a danno di congiunti elencati al primo comma, a meno che non ricorrano una delle situazioni esplicitate al comma 2 (fatto commesso a danno del coniuge legalmente separato, ecc.). Se ricorre una delle predette ipotesi si procede a querela della persona offesa.

Prima della riforma Cartabia nei casi in cui o si verificavano i fatti previsti dall'art. 646, comma 2, c.p. o i fatti di appropriazione indebita erano aggravati dalle circostanze di cui all'art. 61, comma 1, numero 11, c.p. si procedeva, inoltre, di ufficio ai sensi dell'art. 649-bis c.p. se:

– ricorrevano circostanze aggravanti ad effetto speciale (inclusa la recidiva nei casi di cui all'art. 99, commi secondo e seguenti: cfr. Cass. S.U.,n. 3585/2021);

– la persona offesa era incapace per età o per infermità;

– il danno arrecato alla persona offesa era di rilevante gravità (con duplicazione sostanziale del riferimento ai casi di cui all'art. 61, comma 1, n. 7, c.p.).

Diversamente, la c.d. “Riforma Cartabia” [art. 2, comma 1, lett. q), d.lgs. n. 150/2022, in vigore, come stabilito dal d.l. n. 162/2022, convertito in l. n. 199/2022, dal 30 dicembre 2022], modificando l'649-bis c.p., prevede che si proceda d'ufficio se:

– ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale diverse dalla recidiva;

– la persona offesa era incapace per età o per infermità.

Le disposizioni transitorie contenute nell'art. 85, comma 1, d.lgs. n. 150/2022, e nella l. n. 199/2022 (che sostituisce il disposto riportato dal comma 2 del predetto art. 85 ed introduce i commi 2-bis e 2-ter) individuano le tempistiche di entrata in vigore delle predette modifiche. Quest'ultime, infatti, sono immediatamente operative per i reati commessi a partire dal 30/12/2022, data di vigenza della novella, mentre in riferimento ai reati commessi fino al 29/12/2022, divenuti procedibili a querela di parte in forza delle nuove disposizioni, operano secondo lo schema di seguito riportato:

A) Casi in cui non pende il procedimento penale:

– se il soggetto legittimato a proporre querela ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato” il termine per proporla è di mesi tre, ex art. 124 c.p. (disposto non toccato dall'intervento novellatore), decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade, pertanto, il 30/03/2023;

– se il soggetto legittimato a proporre querela non ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato” il medesimo termine per proporla decorre, secondo la disciplina ordinaria, in parte qua non modificata, dal momento in cui ne abbia avuto conoscenza. Tale tempistica si deduce dalla lettura “a contrario” della succitata disposizione.

B) Casi in cui pende il procedimento penale:

– il termine trimestrale per proporre querela decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade il 30/03/2023 in quanto il soggetto legittimato a proporla ha necessariamente avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato”. Inoltre, diversamente rispetto a quanto previsto dall'originario comma 2 del succitato art. 85, sul giudice procedente non grava alcun onere di informare la parte offesa di tale facoltà. Si presume, infatti, che la parte offesa debba avere conoscenza della novella.

Ferma restando la predetta disciplina, l'art. 85 al comma 2 prevede che le misure cautelari personali in corso di esecuzione perdono efficacia se, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2022, e quindi entro il 19/01/2022, l'autorità giudiziaria che procede non acquisisce la querela. A tal fine, l'autorità giudiziaria procedente effettua ogni utile ricerca della parte offesa, anche avvalendosi della polizia giudiziaria. Durante la pendenza del predetto termine di venti giorni, i termini di cui all'art. 303 c.p.p. sono sospesi.

Infine, durante la pendenza del termine per proporre querela, si applica quanto disposto dall'art. 346 c.p.p. in tema di atti compiuti in mancanza di condizioni di procedibilità.

Alcune questioni che la nuova disciplina potrà proporre sono già state risolte dalla giurisprudenza in relazione a precedenti interventi novellatori dello stesso tenore:

– l'inammissibilità del ricorso per cassazione esclude che possano porsi questioni riguardanti l'eventuale esercizio del diritto di querela (Cass. S.U., n. 40150/2018, in tema di reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018 n. 36 e di giudizi pendenti in sede di legittimità);

– non possono porsi questioni riguardanti l'eventuale esercizio del diritto di querela quando la persona offesa abbia già manifestato la volontà di punizione del reo, costituendosi parte civile e persistendo in tale costituzione nei successivi gradi di giudizio (Cass. II, n. 28305/2019 e Cass. V, n. 44114/2019: fattispecie riguardante i reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d. lgs. 10 aprile 2018, n. 36);

– la remissione della querela, pur intervenuta in un momento nel quale vigeva un regime di procedibilità d'ufficio, implica l'obbligo di dichiarare la non procedibilità ai sensi dell'art. 129 c.p.p., ove disposizioni sopravvenute abbiano comportato la procedibilità di ufficio: la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, determina, infatti, la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti (Cass. II, n. 225/2019: fattispecie riguardante la modifica del regime di procedibilità per i delitti di cui agli artt. 640 e 646 c.p., introdotta dal d.lgs. n. 36/2018. Nella motivazione la Corte ha richiamato la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, dalla quale discende la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti);

– non costituisce causa di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 c.p.p. una modifica legislativa per effetto della quale un reato procedibile d'ufficio divenga procedibile a querela, in caso di mancata proposizione di quest'ultima. Ciò in quanto il regime di procedibilità non è elemento costitutivo della fattispecie e, conseguentemente, la sopravvenuta previsione della procedibilità a querela è inidonea a determinare un fenomeno di abolitio criminis (Cass. I, n. 1628/2020: fattispecie relativa al delitto di appropriazione indebita aggravato art. 61, comma 1, n. 11, c.p., divenuto procedibile a querela a seguito del d.lgs. n. 36/2018);

– la sopravvenuta procedibilità a querela del reato di appropriazione indebita per effetto del d.lgs. n. 36/2018 non costituisce prova nuova ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p. nel caso in cui la modifica normativa sia intervenuta successivamente al passaggio in giudicato della sentenza della quale si chiede la revisione: in ragione della natura mista – sostanziale e processuale – dell'istituto della querela, la sopravvenuta disciplina più favorevole deve, infatti, essere applicata nei procedimenti pendenti, salva l'insuperabile preclusione costituita dalla pronuncia di sentenza irrevocabile, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., se non derogata da una disposizione transitoria ad hoc (Cass. II, n. 14987/2020).

Illustrati gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità pacifici occorre segnalare che sussiste un contrasto sulla possibile valenza della querela tardiva o comunque, per altro verso, irrituale, sporta quando vigeva un regime di procedibilità d'ufficio:

– un orientamento ritiene privo di rilievo il fatto che la persona offesa abbia, in precedenza, manifestato la volontà di punizione oltre il termine di cui all'art. 124 c.p. Ciò in quanto la valutazione in ordine alla condizione di procedibilità è ancorata al momento dell'entrata in vigore del nuovo regime normativo che prevede la procedibilità a querela. Non rileverebbero eventuali irregolarità della querela afferenti ad un momento procedimentale anteriore, in cui la querela stessa non era richiesta ai fini della procedibilità (Cass. II, n. 25341/2021; Cass. II, n. 11970/2020; Cass. S.U. , n. 5540/1982);

– altro orientamento considera preclusa la possibilità di esercitare il diritto di sporgere querela per la parte offesa che abbia in precedenza già manifestato la volontà di punizione oltre il termine di cui all'art. 124 c.p., poiché, diversamente, l'avviso si risolverebbe in una rimessione in termini. Tale indirizzo precisa, inoltre, che l'onere di tempestività a carico della parte che si ritenga persona offesa dal reato, sussiste indipendentemente dalla procedibilità del reato di ufficio o a querela di parte (Cass. II, n. 8823/2021; Cass. II, n. 12420/2020).

Quest'ultimo orientamento appare all'evidenza non condivisibile, pretendendo di valorizzare, al fine di precludere alla parte offesa l'esercizio della facoltà di sporgere querela, vizi della medesima intervenuti quando l'atto era irrilevante, vigendo un regime di procedibilità officiosa.

Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato)

Il termine-base di prescrizione è pari ad anni sei (cfr. art. 157 c.p.).

A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), per l'appropriazione indebita costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione:

— del giudizio di appello entro il termine di due anni;

— del giudizio di cassazione entro il termine di un anno.

Tali cause di improcedibilità ricorrono a meno che non intervenga:

— la proroga per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare;

— la sospensione nei casi previsti dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p.;

— la diversa modulazione dei predetti termini in applicazione della normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021).

Misure precautelari e cautelari

Arresto e fermo

Per il reato di appropriazione indebita:

— non è mai consentito l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380 c.p.p.);

— è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 2, c.p.p.);

— è consentito il fermo (art. 384 c.p.p.).

In riferimento all'arresto facoltativo in fragranza di reato l'art. 381, comma 3, c.p.p. dispone che se si tratta di delitto perseguibile a querela, può essere eseguito se quest'ultima viene proposta, anche con dichiarazione resa oralmente all'ufficiale o all'agente di polizia giudiziaria presente nel luogo. Se l'avente diritto dichiara di rimetterla, l'arrestato è posto immediatamente in libertà.

Misure cautelari personali

Nel caso del delitto di appropriazione indebita è consentita l'applicazione delle misure cautelari personali (custodia cautelare in carcere ed altre misure cautelari personali art. 278 e ss. c.p.p.). In relazione al predetto delitto si applica il disposto dell'art. 391, comma 5, c.p.p. che contempla l'applicazione di misure cautelari coercitive soltanto in caso di arresto in flagranza, stabilendo che, in tali casi, “l'applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lett. c), e 280”.

Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale

Competenza

Nei casi di appropriazione indebita è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione monocratica (cfr. artt. 33-bis e 33-ter c.p.p.).

Citazione a giudizio

Per l'appropriazione indebita si procede con udienza preliminare, in luogo della citazione diretta del P.M. a giudizio.

Composizione del tribunale

Il processo per il reato di appropriazione indebita si svolgerà dinanzi al tribunale in composizione monocratica ai sensi dell'art. 33-ter, comma 2, c.p.p. (che detta regole riguardanti le attribuzioni del tribunale in composizione monocratica).

4. Conclusioni

La questione che si pone in relazione al comportamento dell'amministratore di più condomìni che, senza autorizzazione, fa confluire i saldi dei conti attivi dei singoli condomìni su un unico conto di gestione a lui intestato (o sul conto di altro condominio) attiene alla sussumibilità di tale condotta distrattiva nell'ambito di applicazione del delitto di cui 646 c.p.

La Cassazione in diverse pronunce ha verificato se per configurare il delitto di appropriazione indebita è sufficiente che l'agente ponga in essere la mera “distrazione” del denaro dai conti correnti intestati ai singoli condomini o se, invece, è necessario che acquisisca in modo definitivo le somme appartenenti ai condominii attraverso la loro destinazione ad esigenze di natura “personale”.

Un orientamento minoritario, formatosi in riferimento alla costituzione di fondi extrabilancio da parte di organi societari per fini (più o meno) illeciti, ma comunque non estranee alle finalità dell'azienda (conseguimento di appalti, forniture, ecc.), ha reputato che la condotta distrattiva non fosse riconducibile nel genus di quelle di appropriazione. Il perseguimento dell'interesse dell'ente, sebbene realizzato attraverso la violazione del titolo e delle ragioni del possesso del bene, escluderebbe che l'agente si comporta uti dominus e, di conseguenza, l'espropriazione del proprietario rilevante ex art. 646 c.p.

Secondo l'indirizzo giurisprudenziale dominante, invece, la destinazione finale del saldo cumulativo ad esigenze personali dell'amministratore o dei condomìni amministrati non rileva, in quanto tale condotta distrattiva comporta di per sé la violazione del vincolo di destinazione impresso al denaro al momento del suo conferimento.

Egli, attraverso tale operazione di “trasferimento”, avrebbe dato alle somme detenute una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificavano il loro possesso, ovvero il mandato conferito dai singoli condòmini a cui appartenevano, realizzando l'interversione richiesta dalla norma.

A sostegno di tale conclusione la Cassazione ha ricordato sia l'operatività della causa di non punibilità per le ipotesi di infedeltà patrimoniale disciplinata dall'art. 2634, comma 3, c.c. sia i principi elaborati in materia bancarotta fraudolenta. Quest'ultimi confermano, infatti, che si ha “distrazione” e, quindi, appropriazione indebita, non soltanto quando chi ha la materiale disponibilità del denaro se ne appropri per finalità sue proprie e personali, ma anche quando gli imprima, senza alcuna autorizzazione del titolare, una destinazione diversa da quella che ne aveva legittimato la detenzione.

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