L'individuazione del dies a quo della prescrizione nel caso di appropriazione indebita realizzata dall'amministratore di condominio1. Bussole di inquadramentoL'appropriazione indebita realizzata l'amministratore di condominio e l'individuazione del dies a quo della prescrizione La casistica in materia di appropriazione indebita realizzata dall'amministratore di condominio è alquanto varia e abbastanza numerosa. La giurisprudenza delle Sezioni civili della Corte di Cassazione ha qualificato l'attività svolta dall'amministratore di condominio come ufficio di diritto privato oggettivamente orientato alla tutela del complesso di interessi dei condomini e assimilabile, pur con tratti distintivi in ordine alle modalità di costituzione ed al contenuto “sociale” della gestione, al mandato con rappresentanza. In virtù di tale “assimilazione” nei rapporti tra l'amministratore e ciascuno dei condomini sono applicabili, di conseguenza, le disposizioni sul mandato (Cass. civ. II, n. 1286/1997; Cass. civ. II, n. 12304/1993) (oltre a quelle specifiche contenute nel codice civile e nel regolamento condominiale). L'art. 1130 c.c. elenca i compiti attribuiti all'amministratore tra cui rientrano quelli aventi ad oggetto la gestione del denaro dei condomini (la riscossione dei contributi e l'erogazione delle spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni, l'esecuzione degli adempimenti fiscali, ecc.) e quelli relativi alla conservazione dei documenti concernenti l'amministrazione del condominio. Egli può, quindi, ricevere dai condòmini somme di denaro, sulle quali ha una detenzione “nomine alieno”, al fine di provvedere all'esecuzione di specifici pagamenti o da riversare nella cassa condominiale per fronteggiare le spese di gestione del condominio secondo i bilanci approvati dall'assemblea. Non di rado, però, tali somme sono state oggetto di appropriazione da parte dell'amministratore nel momento in cui le ha utilizzate per scopi diversi ed incompatibili con il mandato ricevuto e coerenti, al contrario, con finalità personali (nel caso della succitata documentazione, invece, quando non ha provveduto alla riconsegna normativamente prevista). Diverse, infatti, sono le modalità esplicative della condotta appropriativa che sono state oggetto del vaglio della giurisprudenza. Alcune attengono alla gestione dei fondi di pertinenza dei singoli condomini: è possibile annoverare in quest'ambito il prelievo da parte dell'amministratore di somme di denaro depositate sui conti correnti dei singoli condomìni, dei quali aveva piena disponibilità per ragioni professionali, con la coscienza e volontà di farle proprie a pretesa compensazione con un credito preesistente non certo, né liquido ed esigibile (Cass. II, n. 12618/2019); l'omessa erogazione ad un professionista del suo compenso per le prestazioni rese e all'erario delle somme da versare per conto del condominio quale sostituto di imposta ed a titolo di ritenuta d'acconto (Cass. II, n. 38660/2016) o il mancato versamento dei contributi previdenziali per il servizio di portierato (Cass. II, n. 41462/2010); il trasferimento, senza aver ottenuto un'autorizzazione da parte dell'assemblea condominiale, dei saldi dei conti attivi dei singoli condominii su un unico conto di gestione a lui intestato (Cass. II, n. 46875/2021; Cass. II, n. 57383/2018) o di titolarità di un diverso condominio (Cass. II, n. 12783/2020) per coprire le perdite che si erano verificate in altro condominio da lui gestito. Altre, invece, sono relative alla mancata riconsegna della documentazione e della contabilità detenuta (Cass. n. 17901/2014; Cass. II, n. 29451/2013). In tutti questi casi risulta fondamentale individuare il momento consumativo del reato per calcolare il dies a quo della prescrizione. In sede di applicazione concreta sono, però, sorte diverse problematiche, soprattutto quando non è possibile avere certezza sul luogo e del momento in cui si è verificata l'interversio possessionis e, quindi, la Cassazione ha dovuto focalizzare l'attenzione sugli indici di rilevabilità del primo incontrovertibile comportamento uti dominus. La connessa questione di diritto che si pone consiste, poi, nello stabilire se, ai fini della determinazione del momento consumativo del reato di appropriazione indebita, influisca o meno la conoscenza che la parte offesa abbia dell'interversione del possesso effettuato dall'agente. Tale cognizione indubbiamente è rilevante per individuare il termine di proposizione della querela. Il primo comma dell'art. 646 c.p. sancisce, infatti, che il delitto di appropriazione indebita è perseguibile a querela della persona offesa, per cui i condomini che intendano agire nei confronti dell'amministratore devono presentarla entro tre mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato, come espressamente previsto dall'art. 124 c.p. Il rispetto dei termini esaminati, pertanto, si rivela indispensabile, non potendosi altrimenti più procedere nei confronti dell'amministratore che abbia posto in essere atti corrispondenti a quelli del proprietario del bene incompatibili con il titolo detenuto, violando il rapporto di fiducia con i condomini. La sua condanna, poi, risulta particolarmente onerosa, perché determina anche il venir meno del requisito dell'onorabilità, qualità necessaria per l'esercizio della relativa professione. Di conseguenza, l'amministratore condannato per il delitto in esame cessa di esercitare le sue funzioni, con facoltà per i condòmini di procedere alla nomina di un nuovo amministratore. La tesi della configurabilità dell'appropriazione indebita Secondo un orientamento consolidato in giurisprudenza nel caso dell'appropriazione indebita posta in essere dall'amministratore di condominio l'interversione del possesso, che segna la consumazione del reato, si verifica quando quest'ultimo, negando volontariamente la restituzione degli importi o della contabilità detenuta, si comporta uti dominus rispetto alla res, e non nel momento della sua revoca e della nomina del successore (Cass. II, n. 40870/2017). Poiché all'amministratore si applicano le norme contenute nel codice civile sul mandato (art. 1713 c.c.) l'obbligo di restituzione sorge a seguito della conclusione dell'attività gestoria, salvo che l'estinzione avvenga prima di tale conclusione, e deve essere adempiuta non appena tale attività si è realizzata (generalmente in seguito al rendiconto annuale). La mancata riconsegna palesa la volontà di dare alle somme (o alla documentazione) detenute una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificavano il loro possesso, ovvero il mandato conferito dai singoli condòmini a cui appartengono, realizzando in tal modo l'interversione richiesta dalla norma (Cass. II, n. 25282/2016). Nell'ipotesi in cui l'amministratore di condominio non ha restituito la totalità delle somme introitate di volta in volta in seguito ai vari rendiconti annuali l'omessa riconsegna, però, non costituisce un dato certo ed incontrovertibile dell'avvenuta interversione del possesso richiesta dall'art. 646 c.p. Di conseguenza in questi casi il momento consumativo si può individuare all'atto della cessazione della carica, in quanto solo allora si verifica con certezza l'interversione nel possesso (Cass. II, n. 19519/2020; Cass. II, n. 40870/2017; Cass. II, n. 27363/2016; Cass. II, n. 18864/2012). Poiché il delitto di cui all'art. 646 c.p. è, pertanto, un reato a consumazione immediata che si verifica nel momento (e nel luogo) in cui l'agente tiene consapevolmente un comportamento oggettivamente eccedente la sfera delle facoltà ricomprese nel titolo del suo possesso ed incompatibile con il diritto del proprietario, la conoscenza che ne abbia la parte offesa è irrilevante. Tale elemento, invece, è fondamentale ai fini del diverso problema della decorrenza del termine per proporre la querela ex art. 124 c.p., “dal giorno della notizia”. La tesi della inconfigurabilità dell'appropriazione indebita Un indirizzo meno recente ha asserito che il delitto di appropriazione indebita si consuma nel luogo e nel tempo in cui la persona offesa giunge a conoscenza dell'avvenuta interversione nel possesso, palesatasi attraverso un atto significativo della manifestazione della volontà dell'agente di fare proprio il bene posseduto (Cass. II, n. 48438/2004; Cass. II, n. 1119/1999; Cass. II, n. 12096/1986). 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
Come si individua il dies a quo della prescrizione nel caso di appropriazione indebita realizzata dall'amministratore di condominio?
Orientamento meno recente della Corte di Cassazione Un indirizzo giurisprudenziale minoritario e risalente ha sostenuto che l'evento del delitto di appropriazione indebita si realizza nel luogo e nel tempo in cui la manifestazione della volontà dell'agente di fare proprio il bene posseduto giunge a conoscenza della persona offesa, e non nel tempo e nel luogo in cui si compie l'azione (Cass. II, n. 48438/2004). Secondo tale impostazione in riferimento al reato di cui all'art. 646 c.p. occorre scindere tra la consumazione dell'azione, che si ha con l'estrinsecarsi dell'interversione del titolo del possesso, e il perfezionamento del delitto, che si identifica con il verificarsi dell'evento, ovvero quando il soggetto passivo del reato viene posto a conoscenza dell'avvenuta appropriazione del suo bene/denaro in suo danno. In tale arresto, infatti, la Cassazione ha osservato che non vi è una necessaria coincidenza tra il momento in cui viene posta in essere la condotta di appropriazione e di interversione del possesso e quello in cui si avvera l'evento di appropriazione, che è costituito dalla manifestazione della volontà dell'agente di fare propria la cosa. Tale evento si realizza quando la parte offesa subisce il danno della mancata restituzione. Nel caso di specie l'agente aveva trasferito sul proprio conto titoli l'importo relativo ad un certificato di deposito a lui affidato per motivi di custodia dal proprietario e la Corte ha ritenuto che il reato si sia perfezionato non nel luogo della negoziazione, ma nel luogo e al tempo in cui la manifestazione di volontà del soggetto attivo del delitto di fare proprio il bene posseduto era giunto a conoscenza della persona offesa. Il principio sopra esposto è stato affermato dalla Cassazione anche in riferimento alla fattispecie relativa alla spendita di titoli avuti in garanzia. Specificamente l'agente aveva posto all'incasso alcuni assegni ricevuti a titolo di garanzia, informandone telefonicamente il debitore: anche in tale ipotesi la Corte ha statuito che il delitto si perfeziona non quando il titolo viene posto in circolazione, bensì nel luogo e nel tempo in cui la manifestazione di volontà dell'agente di impadronirsi del bene posseduto giunge a conoscenza della persona offesa ovvero in quello in cui quest'ultima si trovava al momento della ricezione della predetta comunicazione (Cass. II, n. 1119/1999; Cass. II, n. 12096/1986). Ciò in quanto il momento dell'interversione del titolo del possesso non coincide necessariamente con quello della scadenza del termine stabilito per la restituzione (in quanto la mancata restituzione colposa non integra gli estremi del reato), nè con quello dell'alienazione della cosa da parte del possessore (che può essere preceduta dall'interversione). Il rifiuto ingiustificato della restituzione della cosa dopo la scadenza del termine che ne legittima il possesso (salvo che sia ascrivibile a colpa) rende manifesta l'esistenza sia dell'elemento oggettivo, per il venir meno della legittimità del possesso, sia di quello soggettivo, evidenziando la volontà del possessore di invertire il titolo del possesso per trarre dalla cosa stessa un ingiusto profitto. In tale momento il reato deve ritenersi integrato in tutti i suoi elementi. Anche in caso di indebita appropriazione di titoli di credito ricevuti in garanzia o di cui il possessore non può comunque disporre, la sussistenza del dolo e il momento consumativo del reato vanno riferiti non al periodo temporale in cui l'agente pone in circolazione i titoli, bensì a quello in cui, pur essendo scaduto il termine per la restituzione, si rifiuti di restituirli al proprietario, così manifestando la volontà di farli propri. Orientamento più recente della Corte di Cassazione Secondo un orientamento consolidato in giurisprudenza il reato di appropriazione indebita si consuma con l'interversione del possesso, ovvero quando il soggetto agente compie sul bene l'atto di dominio (consumazione, alienazione, ritenzione, ecc.) con la volontà di trattenerlo come proprio (Cass. II, n. 25444/2017). In riferimento al caso di un amministratore condominiale cessato dalla carica che deteneva in nomine alieno le somme di pertinenza del condominio la Cassazione ha evidenziato che il momento della suddetta interversione coincide con l'atto della consegna della cassa al nuovo amministratore. Ciò in quanto l'agente, attraverso la mancata restituzione dell'intero importo delle somme ricevute nel corso della sua gestione, manifesta chiaramente la volontà di voler trattenere per sé parte delle somme legittimamente detenute, e non utilizzate (o non ancora utilizzate) per le spese di gestione del condominio (Cass. II, n. 40870/2017). Analogamente in riferimento all'omessa riconsegna della documentazione relativa al condominio da parte di colui che ne era stato amministratore la Corte ha ritenuto perfezionato il delitto di appropriazione indebita non nel momento della revoca dello stesso e della nomina del successore, bensì in quello in cui l'agente, volontariamente negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato uti dominus rispetto alla res. A tale conclusione la Corte giunge dopo aver effettuato i seguenti passaggi argomentativi. In primo luogo chiarisce, come evidenziato anche sopra, che l'amministratore del condominio configura un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza, con la conseguente applicabilità, nei rapporti tra l'amministratore e ciascuno dei condomini delle disposizioni sul mandato (Cass. civ. II, n. 1286/1997; Cass. civ. II, n. 12304/1993). Spiega, inoltre, che l'amministratore è titolare di una situazione giuridica soggettiva che qualifica come detenzione “nomine alieno” delle somme di pertinenza del condominio sulle quali opera effettuando prelievi e pagamenti vari in favore del condominio medesimo. Al fine, poi, di chiarire le modalità attraverso le quali si manifesta la condotta appropriativa richiama due norme, l'art. 1138 e l'art. 1713 c.c. La prima al comma 4 dichiara espressamente inderogabili dal regolamento condominiale le disposizioni del codice civile ai sensi delle quali l'amministratore del condominio dura in carica un anno (art. 1129, comma 10 c.c.) e sottopone all'assemblea il preventivo e il consuntivo delle spese afferenti all'anno (art. 1135 n. 2 e n. 3). Dal combinato disposto delle predette norme deriva che la gestione condominiale viene rapportata alla competenza (annuale). L'amministratore, infatti, deve rispondere della gestione alla scadenza dell'anno sociale corrispondente alla durata in carica perché è tenuto anno per anno a predisporre il bilancio preventivo ed a far approvare dall'assemblea il bilancio consuntivo, astrattamente, anno per anno. La seconda prevede che il mandatario deve rendere al mandante il conto e rimettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato. Dalla lettura integrata delle succitate disposizioni deriva che l'obbligo di restituzione posto a carico dell'amministratore sorge a seguito della conclusione dell'attività gestoria, salvo che l'estinzione avvenga prima di tale conclusione, e deve essere adempiuta non appena tale attività si è realizzata. Generalmente la riconsegna avviene in seguito al rendiconto annuale ma, ove ciò non avvenga (anche per meri errori contabili o perché devono essere ancora recuperate somme dovute da condomini morosi o per altre cause), una volta che la gestione si conclude, e in difetto di contrarie disposizioni pattizie, l'amministratore del condominio è comunque tenuto alla restituzione, in riferimento a tutto quanto ha ricevuto nell'esercizio del mandato per conto del condominio, ovvero tutto ciò che ha in cassa, e ciò indipendentemente dalla gestione alla quale le somme si riferiscono. Tale conclusione, ovvero che alla scadenza (o alla revoca del mandato) l'amministratore ha l'obbligo di riconsegnare tutto ciò che ha in cassa, è deducibile anche dalla considerazione che egli potrebbe avere avuto anche l'incarico di recuperare somme dovute da condomini morosi e riguardanti anche la precedente gestione. La Corte al riguardo osserva che sarebbe privo di senso ritenere che l'amministratore al momento della fine della gestione — sia che essa avvenga per la scadenza del termine, sia che avvenga prematuramente per effetto della revoca — debba rendere soltanto quanto afferisce la gestione dell'anno e non, invece, tutto quanto ha percepito per conto del condominio, comprese le somme riguardanti le precedenti gestioni (Cass. civ. II, n. 10815/2000). Chiarite le modalità e il momento in cui sorge l'obbligo di restituzione e, di conseguenza, può manifestarsi l'interversione nel possesso, la Cassazione si sofferma sul momento consumativo del reato. A tal fine ricorda che il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si realizza con la prima condotta appropriativa, cioè nel momento in cui l'agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria (Cass. II, n. 29451/2013). Tale momento nel caso di detenzione qualificata si verifica quando il detentore rifiuti, anche per fatti concludenti, di restituire il bene che, in origine, deteneva legittimamente (Cass. II, n. 25282/2016). Nell'ipotesi in cui l'amministratore di condominio non ha restituito la totalità delle somme introitate di volta in volta in seguito ai vari rendiconti annuali l'omessa riconsegna non costituisce un dato certo ed incontrovertibile dell'avvenuta interversione del possesso richiesta dall'art. 646 c.p., né può essere considerata un fatto di per sè incompatibile con la conservazione del danaro, del quale non si può comunque accertare la dispersione fino alla consegna della cassa (Cass. II, n. 18864/2012). In questi casi il momento consumativo si può individuare all'atto della cessazione della carica, in quanto solo allora si verifica con certezza l'interversione nel possesso (Cass. II, n. 19519/2020; Cass. II, n. 40870/2017; Cass. II, n. 27363/2016). Fino al termine del suo mandato l'amministratore condominiale gode sempre della facoltà di disporre legittimamente delle somme de quibus nell'interesse del condominio amministrato. Soltanto a partire dal momento della cessazione dalla carica egli manifesta (anche soltanto implicitamente) la volontà di conservare uti dominus la disponibilità degli importi appartenente al condominio, non potendo più legittimamente esercitare su di essi alcun diritto. Se, invece, l'agente non ha restituito l'intero importo delle somme ricevute nel corso della sua gestione, ma solo una parte, l'interversione del possesso si realizza all'atto della consegna della cassa al nuovo amministratore. Ciò in quanto in tale momento l'amministratore manifesta chiaramente la volontà di voler trattenere per sè parte delle somme legittimamente detenute, e non utilizzate (o non ancora utilizzate) per le spese di gestione del condominio (Cass. II, n. 40870/2017). Nel caso, invece, di omessa restituzione della documentazione relativa al condominio da parte di colui che ne era stato amministratore (Cass., n. 17901/2014; Cass. II, n. 29451/2013) la Cassazione ha precisato che il momento consumativo non può essere rinvenuto in quello della revoca e della nomina di nuovo amministratore perché in tal modo si confonde il mero venir meno del titolo per cui si detiene con la condotta appropriativa, che richiede quid pluris. Va, invece, individuato nel periodo temporale in cui l'agente si è comportato uti dominus rispetto alla res ovvero quanto ha volontariamente negato la restituzione della contabilità che ancora deteneva, nella consapevolezza di non avere più alcun titolo per trattenerla presso di sé (nel caso di specie tale momento è stato identificato nella notifica del precetto, che dava seguito all'ordinanza del Tribunale che gli ordinava la consegna della documentazione). Dalla ricostruzione sopra esposta ne discende che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Cass. II, n. 15735/2020, Cass. II, n. 17901/2014; Cass. II, n. 22127/2013; Cass. I, n. 26440/2002). Risulta, però, fondamentale per individuare il termine di proposizione della querela. La valutazione della circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 7, c.p. Come noto l'art. 61, n. 7, c.p. prescrive un aumento della pena fino ad un terzo nel caso in cui l'agente che ha commesso un delitto contro il patrimonio o che comunque offende il patrimonio ovvero un reato determinato da motivi di lucro ha cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità. In merito ai profili di carattere applicativo della succitata disposizione la Cassazione ha avuto modo di chiarire che la valutazione della sussistenza o meno di tale circostanza deve essere operata dal giudice prendendo in considerazione la peculiarità delle modalità di commissione del reato e la diversa incidenza, laddove questo sia stato commesso con una pluralità di condotte, dell'istituto della continuazione nella determinazione del danno (Cass. S.U., n. 3286/2008). Gli illeciti penali che si trovano in rapporto di continuazione, con riferimento alle circostanze attenuanti ed aggravanti, conservano la loro autonomia e si considerano come reati distinti. Da tale assunto deriva che — rispetto all'aggravante della rilevanza economica del pregiudizio patrimoniale (art. 61, n. 7, c.p.) — l'entità del danno e l'efficacia della condotta riparatoria devono essere valutate in relazione ad ogni singolo reato e non al complesso di tutti i fatti illeciti avvinti dal vincolo della continuazione. Per quanto attiene al delitto di cui all'art. 646 c.p. la Corte ha rilevato che, anche nell'ipotesi in cui sia stato commesso ponendo in essere una serie di operazioni, presenta comunque dei profili di specificità che impongono di procedere a una valutazione caso per caso (Cass. II, n. 11323/2021). Il fatto che secondo l'impostazione giurisprudenziale prevalente il momento consumativo non debba essere individuato in quello in cui viene posta in essere la singola condotta, ma in quello in cui si ha l'atto della cessazione della carica — in quanto in tale circostanza temporale, in mancanza di restituzione degli importi, si verifica l'interversione del possesso — è significativo dell'unitarietà dell'azione complessivamente posta in essere della quale le singole apprensioni/distrazioni, se pure per altri versi autonomamente rilevanti, sono dei segmenti. In merito al profilo relativo all'esame valutativo della consistenza del nocumento subito la Corte, poi, osserva che occorre prendere anche in considerazione il dato di fatto che il soggetto che subisce il danno – ovvero il condominio — è unico. Di conseguenza, non si ravvisano motivi per procedere ad una valutazione parcellizzata del danno, soprattutto con riferimento a condotte analoghe. Nel caso di appropriazione indebita di somme di denaro relative ad un condominio da parte dell'amministratore, pertanto, la circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 7, c.p. deve essere valutata con riferimento all'unicità del danno subito dal condominio, a prescindere dai singoli segmenti di condotta progressivamente posti in essere Legittimazione a proporre querela Orientamento più risalente della Corte di Cassazione Per un'impostazione meno recente la querela proposta dal singolo condomino per un reato commesso in danno di parti comuni dell'edificio non è valida, in quanto il condominio è strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condomini e l'espressione della volontà di presentare querela passa attraverso detto strumento di gestione collegiale. Ne consegue che la presentazione di una valida querela, da parte di un condominio, in relazione ad un reato commesso in danno del patrimonio comune dello stesso, presuppone uno specifico incarico conferito all'amministratore dall'assemblea condominiale (Cass. V n. 6197/2010). Orientamento recente della Corte di Cassazione Secondo un indirizzo più recente il singolo condomino, in quanto titolare del diritto di tutelare le destinazioni d'uso delle parti comuni ex art. 1117-quater c.c., è legittimato, quanto meno in via concorrente o eventualmente surrogatoria con l'amministratore del condominio, a sporgere querela (Cass. II n. 45902/2021, Cass. III n. 49392/2019). 3. Azioni processualiUlteriori attività difensive Per la fattispecie in esame si possono esperire le seguenti ulteriori attività difensive: Istanza di sequestro conservativo della parte civile (art. 316); Memoria difensiva al pubblico ministero (art. 367); Richiesta di presentazione spontanea per rilasciare dichiarazioni (art. 374); Memoria difensiva (art. 419, comma 2); Richiesta di giudizio abbreviato (art. 438, comma 1). Procedibilità L'appropriazione indebita, ai sensi dell'art. 646, comma 1, c.p. è sanzionata a querela della persona offesa. A tale fattispecie si applica il disposto dell'art. 649 c.p., che sancisce la non punibilità per fatti commessi a danno di congiunti elencati al primo comma, a meno che non ricorrano una delle situazioni esplicitate al comma 2 (fatto commesso a danno del coniuge legalmente separato, ecc.). Se ricorre una delle predette ipotesi si procede a querela della persona offesa. Prima della riforma Cartabia nei casi in cui o si verificavano i fatti previsti dall'art. 646, comma 2, c.p. o i fatti di appropriazione indebita erano aggravati dalle circostanze di cui all'art. 61, comma 1, numero 11, c.p. si procedeva, inoltre, di ufficio ai sensi dell'art. 649-bis c.p. se: – ricorrevano circostanze aggravanti ad effetto speciale (inclusa la recidiva nei casi di cui all'art. 99, commi secondo e seguenti: cfr. Cass. S.U., n. 3585/2021); – la persona offesa era incapace per età o per infermità; – il danno arrecato alla persona offesa era di rilevante gravità (con duplicazione sostanziale del riferimento ai casi di cui all'art. 61, comma 1, n. 7, c.p.). Diversamente, la c.d. “Riforma Cartabia” [art. 2, comma 1, lett. q), d.lgs. n. 150/2022, in vigore, come stabilito dal d.l. n. 162/2022, convertito in l. n. 199/2022, dal 30 dicembre 2022], modificando l'649-bis c.p., prevede che si proceda d'ufficio se: – ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale diverse dalla recidiva; – la persona offesa era incapace per età o per infermità. Le disposizioni transitorie contenute nell'art. 85, comma 1, d.lgs. n. 150/2022, e nella l. n. 199/2022 (che sostituisce il disposto riportato dal comma 2 del predetto art. 85 ed introduce i commi 2-bis e 2-ter) individuano le tempistiche di entrata in vigore delle predette modifiche. Quest'ultime, infatti, sono immediatamente operative per i reati commessi a partire dal 30/12/2022, data di vigenza della novella, mentre in riferimento ai reati commessi fino al 29/12/2022, divenuti procedibili a querela di parte in forza delle nuove disposizioni, operano secondo lo schema di seguito riportato, A) Casi in cui non pende il procedimento penale: – se il soggetto legittimato a proporre querela ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato” il termine per proporla è di mesi tre, ex art. 124 c.p., (disposto non toccato dall'intervento novellatore), decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade, pertanto, il 30/03/2023; – se il soggetto legittimato a proporre querela non ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato” il medesimo termine per proporla decorre, secondo la disciplina ordinaria, in parte qua non modificata, dal momento in cui ne abbia avuto conoscenza. Tale tempistica si deduce dalla lettura “a contrario” della succitata disposizione. B) Casi in cui pende il procedimento penale: – il termine trimestrale per proporre querela decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade il 30/03/2023 in quanto il soggetto legittimato a proporla ha necessariamente avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato”. Inoltre, diversamente rispetto a quanto previsto dall'originario comma 2 del succitato art. 85, sul giudice procedente non grava alcun onere di informare la parte offesa di tale facoltà. Si presume, infatti, che la parte offesa debba avere conoscenza della novella. Ferma restando la predetta disciplina, l'art. 85 al comma 2 prevede che le misure cautelari personali in corso di esecuzione perdono efficacia se, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2022, e quindi entro il 19/01/2022, l'autorità giudiziaria che procede non acquisisce la querela. A tal fine, l'autorità giudiziaria procedente effettua ogni utile ricerca della parte offesa, anche avvalendosi della polizia giudiziaria. Durante la pendenza del predetto termine di venti giorni, i termini di cui all'art. 303 c.p.p. sono sospesi. Infine, durante la pendenza del termine per proporre querela, si applica quanto disposto dall'art. 346 c.p.p. in tema di atti compiuti in mancanza di condizioni di procedibilità. Alcune questioni che la nuova disciplina potrà proporre sono già state risolte dalla giurisprudenza in relazione a precedenti interventi novellatori dello stesso tenore: – inammissibilità del ricorso per cassazione esclude che possano porsi questioni riguardanti l'eventuale esercizio del diritto di querela (Cass. S.U. n. 40150/2018, in tema di reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018 n. 36 e di giudizi pendenti in sede di legittimità); – non possono porsi questioni riguardanti l'eventuale esercizio del diritto di querela quando la persona offesa abbia già manifestato la volontà di punizione del reo, costituendosi parte civile e persistendo in tale costituzione nei successivi gradi di giudizio (Cass. II, n. 28305/2019 e Cass. V, n. 44114/2019: fattispecie riguardante i reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36); – la remissione della querela, pur intervenuta in un momento nel quale vigeva un regime di procedibilità d'ufficio, implica l'obbligo di dichiarare la non procedibilità ai sensi dell'art. 129 c.p.p., ove disposizioni sopravvenute abbiano comportato la procedibilità di ufficio: la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, determina, infatti, la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti (Cass. II, n. 225/2019: fattispecie riguardante la modifica del regime di procedibilità per i delitti di cui agli artt. 640 e 646 c.p., introdotta dal d.lgs. n. 36/2018. Nella motivazione la Corte ha richiamato la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, dalla quale discende la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti); – non costituisce causa di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 c.p.p. una modifica legislativa per effetto della quale un reato procedibile d'ufficio divenga procedibile a querela, in caso di mancata proposizione di quest'ultima. Ciò in quanto il regime di procedibilità non è elemento costitutivo della fattispecie e, conseguentemente, la sopravvenuta previsione della procedibilità a querela è inidonea a determinare un fenomeno di abolitio criminis (Cass. I, n. 1628/2020: fattispecie relativa al delitto di appropriazione indebita aggravato art. 61, comma primo, n. 11, c.p., divenuto procedibile a querela a seguito del d.lgs. n. 36/2018); – la sopravvenuta procedibilità a querela del reato di appropriazione indebita per effetto del d.lgs. n. 36/2018 non costituisce prova nuova ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p. nel caso in cui la modifica normativa sia intervenuta successivamente al passaggio in giudicato della sentenza della quale si chiede la revisione: in ragione della natura mista – sostanziale e processuale – dell'istituto della querela, la sopravvenuta disciplina più favorevole deve, infatti, essere applicata nei procedimenti pendenti, salva l'insuperabile preclusione costituita dalla pronuncia di sentenza irrevocabile, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., se non derogata da una disposizione transitoria ad hoc (Cass. II, n. 14987/2020). Illustrati gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità pacifici occorre segnalare che sussiste un contrasto sulla possibile valenza della querela tardiva o comunque, per altro verso, irrituale, sporta quando vigeva un regime di procedibilità d'ufficio: – un orientamento ritiene privo di rilievo il fatto che la persona offesa abbia, in precedenza, manifestato la volontà di punizione oltre il termine di cui all'art. 124 c.p. Ciò in quanto la valutazione in ordine alla condizione di procedibilità è ancorata al momento dell'entrata in vigore del nuovo regime normativo che prevede la procedibilità a querela. Non rileverebbero eventuali irregolarità della querela afferenti ad un momento procedimentale anteriore, in cui la querela stessa non era richiesta ai fini della procedibilità (Cass. II, n. 25341/2021; Cass. II, n. 11970/2020; Cass. S.U. , n. 5540/1982); – altro orientamento considera preclusa la possibilità di esercitare il diritto di sporgere querela per la parte offesa che abbia in precedenza già manifestato la volontà di punizione oltre il termine di cui all'art. 124 c.p., poiché, diversamente, l'avviso si risolverebbe in una rimessione in termini. Tale indirizzo precisa, inoltre, che l'onere di tempestività a carico della parte che si ritenga persona offesa dal reato, sussiste indipendentemente dalla procedibilità del reato di ufficio o a querela di parte (Cass. II, n. 8823/2021; Cass. II, n. 12420/2020). Quest'ultimo orientamento appare all'evidenza non condivisibile, pretendendo di valorizzare, al fine di precludere alla parte offesa l'esercizio della facoltà di sporgere querela, vizi della medesima intervenuti quando l'atto era irrilevante, vigendo un regime di procedibilità officiosa. Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato) Il termine-base di prescrizione è pari ad anni sei (cfr. art. 157 c.p.). A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), per l'appropriazione indebita costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione: — del giudizio di appello entro il termine di due anni; — del giudizio di cassazione entro il termine di un anno. Tali cause di improcedibilità ricorrono a meno che non intervenga: — la proroga per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare; — la sospensione nei casi previsti dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p.; — la diversa modulazione dei predetti termini in applicazione della normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021). Misure precautelari e cautelari Arresto e fermo Per il reato di appropriazione indebita: — non è mai consentito l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380 c.p.p.); — è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 2, c.p.p.); — è consentito il fermo (art. 384 c.p.p.). In riferimento all'arresto facoltativo in fragranza di reato l'art. 381, comma 3, c.p.p. dispone che se si tratta di delitto perseguibile a querela, può essere eseguito se quest'ultima viene proposta, anche con dichiarazione resa oralmente all'ufficiale o all'agente di polizia giudiziaria presente nel luogo. Se l'avente diritto dichiara di rimetterla, l'arrestato è posto immediatamente in libertà. Misure cautelari personali Nel caso del delitto di appropriazione indebita è consentita l'applicazione delle misure cautelari personali (custodia cautelare in carcere ed altre misure cautelari personali art. 278 e ss. c.p.p.). In relazione al predetto delitto si applica il disposto dell'art. 391, comma 5, c.p.p. che contempla l'applicazione di misure cautelari coercitive soltanto in caso di arresto in flagranza, stabilendo che, in tali casi, “l'applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lett. c), e 280”. Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale Competenza Nei casi di appropriazione indebita è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione monocratica (cfr. artt. 33-bis e 33-ter c.p.p.). Citazione a giudizio Per l'appropriazione indebita si procede con udienza preliminare, in luogo della citazione diretta del P.M. a giudizio. Composizione del tribunale Il processo per il reato di appropriazione indebita si svolgerà dinanzi al tribunale in composizione monocratica ai sensi dell'art. 33-ter, comma 2, c.p.p. (che detta regole riguardanti le attribuzioni del tribunale in composizione monocratica). 4. ConclusioniIn riferimento al momento consumativo dell'illecito penale sanzionato dall'art. 646 c.p. commesso dall'amministratore di condominio la Cassazione ha pronunciato il seguente principio di diritto: “Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa e, cioè nel momento in cui l'agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria. Di conseguenza, ai fini della consumazione del reato e della decorrenza del termine previsto per la prescrizione, è irrilevante il momento in cui la persona offesa venga a conoscenza della manifestazione di volontà dell'agente di appropriarsi della cosa, elemento questo che, invece, rileva al diverso fine della decorrenza del termine per la proposizione della querela”. La Corte, pertanto, si è discostata da un orientamento minoritario che, invece, distingueva tra la consumazione dell'azione, che si ha con l'estrinsecarsi dell'interversione del titolo del possesso, e il perfezionamento del delitto, che si identifica con il verificarsi dell'evento, ovvero quando la parte offesa viene posta a conoscenza dell'avvenuta appropriazione del suo bene/denaro in suo danno. Ha precisato, poi, quando avviene l'interversione del possesso a secondo delle modalità esplicative della condotta appropriativa posta in essere dall'amministratore di condominio: nell'ipotesi di appropriazione da parte di quest'ultimo di tutti gli importi relativi ad un condominio il reato si consuma all'atto della cessazione della carica, perché proprio in tale momento, in mancanza di restituzione delle somme ricevuti nel corso della gestione, si verifica con certezza l'interversione del possesso (considerata la natura fungibile del denaro, sino alla cessazione dalla carica l'amministratore potrebbe reintegrare il condominio delle somme precedentemente disperse); in quella di appropriazione di solo una parte dei succitati importi il delitto, invece, si realizza all'atto della consegna della cassa al nuovo amministratore; in quella, infine, di appropriazione indebita della documentazione relativa al condominio nel momento in cui l'agente, volontariamente negando la restituzione della contabilità detenuta, si comporta uti dominus rispetto alla res rifiutando di consegnarla (e non all'atto della revoca dello stesso e della nomina del successore). Da tale ricostruzione ne consegue che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione. Risulta, però, fondamentale per individuare il termine di proposizione della querela. |