Appropriazione indebita realizzata mediante la sottrazione di dati informatici e file1. Bussole di inquadramentoLa sottrazione di dati informatici e file Recentemente la Cassazione ha avuto modo di esaminare una questione di diritto molto interessante e di rilevante attualità avente ad oggetto la qualificazione in termini di appropriazione indebita della condotta di sottrazione di dati informatici e di file (Cass. II, n. 11959/2019). La sempre più diffusa utilizzazione della tecnologia, e, in particolar modo dell'informatica, comporta, parallelamente, l'individuazione di “nuove modalità” attraverso cui possono estrinsecarsi gli illeciti penali, a prescindere dai c.d. delitti “informatici” espressamente tipizzati con la l. n. 48/2008. Il caso a cui è connessa la succitata problematica è il seguente: l'agente, dopo essersi dimesso dalla società presso cui lavorava, è stato assunto da una nuova compagine societaria, costituita di recente e operante nello stesso settore. Prima di presentare le dimissioni si è impossessato dei dati informatici presenti nel notebook aziendale, a lui affidato in ragione del rapporto di lavoro, estraendo da quest'ultimo copia dei file, trasferendoli su altro dispositivo e, infine, cancellandoli. Dopo aver effettuato le predette operazioni ha, infatti, restituito il notebook aziendale con l'hard disk formattato, ovvero privo dei dati informatici relativi all'attività aziendale originariamente presenti. Tale rimozione ha provocato un malfunzionamento del sistema informatico aziendale del precedente datore di lavoro anche perché ha interrotto la procedura di back up del data base, ma non l'eliminazione definitiva dei predetti dati. In un secondo momento, infatti, quest'ultimi sono stati in parte ritrovati nella sua disponibilità: nel corso degli accertamenti svolti per verificare la sussistenza o meno di un illecito penale sono stati, infatti, rinvenuti su altro computer di sua proprietà. La tesi della configurabilità dell'appropriazione indebita Secondo un orientamento recente giurisprudenziale i dati informatici ed i file sono qualificabili come cose mobili ai sensi della legge penale (Cass. II, n. 11959/2019). Di conseguenza possono costituire oggetto materiale della condotta di appropriazione sanzionata dall'art. 646 c.p. nel caso in cui sono sottratti da un personal computer aziendale attraverso la duplicazione su un proprio apparato personale e la successiva cancellazione dal primo dispositivo in cui “risiedevano”. La Cassazione in tale arresto ha ritenuto ermeneuticamente corretta una ricostruzione della nozione di cosa mobile che tenga conto dell'evoluzione dei referenti linguistici. Come noto, il delitto di cui all'art. 646 c.p. punisce la condotta di colui che, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. L'agente, attraverso la riproduzione dei file sul proprio computer e la cancellazione degli stessi sul notebook aziendale si sarebbe “appropriato” degli stessi. Egli, disponendo autonomamente dei file attraverso il notebook, gli avrebbe dato una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificavano il loro possesso, ovvero il rapporto di lavoro intercorrente con la società a cui appartenevano, realizzando l'interversione richiesta dalla norma. Secondo la giurisprudenza, infatti, l'interversione del possesso si manifesta quando l'autore si comporta uti dominus non restituendo il bene di cui ha avuto la disponibilità senza giustificazione (Cass. II, n. 25444/2017). Nel caso di specie la mancata restituzione si sarebbe concretizzata attraverso la formattazione del notebook aziendale. La tesi della inconfigurabilità dell'appropriazione indebita Secondo l'impostazione tradizionale l'impossessamento dei file non può essere sussunto nella fattispecie di appropriazione indebita perché oggetto materiale della relativa condotta non può essere un bene immateriale. Affinché si configuri il delitto de quo l'impossessamento deve riguardare i documenti che li rappresentino (Cass. II, n. 33839/2011). 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
I dati informatici, in particolare singoli file, possono essere qualificati come cose mobili, ai sensi delle disposizioni della legge penale e, specificamente, in relazione alla possibilità di costituire oggetto di condotte di appropriazione indebita?
Orientamento tradizionale della Corte di Cassazione Il concetto di “cosa mobile” La legge penale non definisce positivamente la nozione di cosa mobile, ad eccezione del disposto di cui all'art. 624, comma 2, c.p. che equipara a quest'ultima l'energia elettrica e ogni altra energia economicamente valutabile. Il legislatore del 1930, infatti, avvertì l'esigenza di chiarire la connotazione materiale di un bene come l'energia perché la sua qualificazione aveva fatto sorgere diverse questioni interpretative. La genericità del termine (circoscritto solo parzialmente dall'aggettivo “mobile”) ha comportato l'esigenza di tracciarne i confini ai fini dell'applicazione delle disposizioni di diritto penale. La giurisprudenza, pertanto, ha desunto la definizione di cosa mobile dal succitato articolo e al suo interno fa rientrare “qualsiasi entità di cui in rerum natura sia possibile una fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perchè ha l'attitudine a muoversi da sè oppure perchè può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorchè non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione” (Cass. II, n. 20647/2010). L'ambito di applicabilità dell'espressione “cosa mobile”, dunque, è stato delimitato attraverso l'individuazione di alcuni caratteri minimi in presenza dei quali è possibile ritenerla sussistente ai fini dell'applicazione del diritto penale, rappresentati dalla materialità e fisicità dell'oggetto. Quest'ultimo deve, infatti, risultare definibile nello spazio e suscettibile di essere spostato da un luogo ad un altro. L'identificazione di tali requisiti è direttamente correlata e funzionale rispetto ad una delle modalità tipiche di esplicazione delle condotte di aggressione al patrimonio, ovvero la sottrazione della cosa al controllo del proprietario o del soggetto titolare di diritti su di essa. La succitata descrizione, inoltre, non coincide con quella civilistica perché da un lato è per alcuni profili meno estesa e dall'altro, per altri aspetti, più ampia: appare più ridotta perché non vi rientrano al suo interno le entità immateriali – ad es. le opere dell'ingegno e i diritti soggettivi — che, invece, l'art. 813 c.c., assimila ai beni mobili. Sembra, invece, più ampia, laddove ricomprende al suo interno beni che, originariamente immobili o costituenti pertinenze di un complesso immobiliare (queste ultime assoggettate dall'art. 818 c.c. al regime dei beni immobili), siano mobilizzati, divenendo, quindi, asportabili e sottraibili e, pertanto, potenzialmente oggetto di appropriazione. La qualificabilità dei file come “cosa mobile” Orientamento tradizionale della Corte di Cassazione I dati informatici come elementi immateriali, estranei al concetto normativo di “cosa mobile”. La giurisprudenza di legittimità si è pronunciata diverse volte in modo sufficientemente uniforme sulla questione concernente la possibilità di qualificare, ai sensi delle disposizioni della legge penale, i dati informatici, in particolare singoli file, come cose mobili e di costituire, conseguentemente, oggetto di condotte di reato, quali il furto o l'appropriazione indebita. Secondo questo indirizzo la lettera e lo spirito dell'art. 646 c.p. non consentono di individuare un oggetto materiale diverso dal denaro o da altra cosa mobile (sulla non estensione del concetto di “cosa mobile” anche a beni immateriali Cass. II, n. 36592/2007 si è pronunciata in relazione alle quote societarie). Di conseguenza si esclude che ricadano nell'ambito di applicazione della norma i dati informatici. Quest'ultimi non sono, infatti, equiparabili né agli oggetti materiali, né alle energie propriamente dette, perché non passibili di impossessamento e di fruizione autonoma, in condizioni separate rispetto allo strumento che li contiene (supporti informatici quali pen drive, hardware, floppy disk, compact-disk o hard-disk, ecc.). Si è ritenuto, quindi, pacificamente ipotizzabile il furto di materiale informatico — ossia dei supporti nei quali si trovino “alloggiati” i dati — oltre che del computer o dei programmi utili per il funzionamento di tali macchinari, ma non quello dei dati informatici in quanto tali. Come ricordato nel paragrafo precedente, il necessario ricorso al dato naturalistico nella definizione penalistica di “cosa mobile”, ai fini della configurabilità del furto o della appropriazione indebita, trova il proprio fondamento nella necessità che il bene possa essere fisicamente detenuto, sottratto, ecc. Un bene è qualificabile “cosa mobile”, dunque, non solo perché in sé amovibile e trasportabile, ma anche suscettibile di essere mobilizzato ad opera dello stesso autore del fatto, mediante la sua avulsione od enucleazione o analoghe attività materiali (Cass. II, n. 9802/1984). La Cassazione ha, pertanto, escluso che i file possano formare oggetto di furto perché l'immaterialità dei documenti informatici rappresenta un ostacolo logico alla realizzazione dell'elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 624 c.p., ovvero la condotta tipica della sottrazione. Occorre osservare, però, che nel caso specifico la Suprema Corte si è focalizzata più sulle modalità attuative della condotta in concreto che sulla consistenza intrinseca del file informatico. Ad esempio, nel caso di semplice copiatura non autorizzata di “file” contenuti in un supporto informatico altrui, non è ravvisabile la perdita del possesso della res da parte del legittimo detentore perché non c'è cessazione del rapporto tra detentore originario e cosa. La duplicazione, infatti, comporta che rimangono memorizzati sul medesimo supporto sul quale si trovavano. Il presunto agente nel reato di furto entra in possesso di una copia, senza che la precedente situazione di fatto (e giuridica) venga modificata a danno del soggetto già possessore di tali file (Cass. IV, n. 44840/2010; Cass. IV, n. 3449/2003). Per quanto riguarda il delitto di appropriazione indebita, si è più volte affermato in generale che oggetto materiale della condotta di appropriazione non può essere un bene immateriale, salvo che la condotta incida sui documenti che li rappresentino: ad es. la giurisprudenza ha ritenuto che non si configura il delitto di cui all'art. 646 c.p. nell'ipotesi in cui un agente assicurativo non versi alla società di assicurazioni, per conto della quale operi, la somma di denaro corrispondente ai premi assicurativi riscossi dai subagenti, ma a lui non versati, trattandosi di crediti di cui si abbia disponibilità per conto d'altri (Cass. II, n. 33839/2011). Ha ravvisato, invece, il reato de quo nella stampa dei dati bancari di una società — in sè bene immateriale – procurati accedendo abusivamente in un sistema informatico in quanto trasfusi ed incorporati attraverso la riproduzione del contenuto del sito di home banking in documenti. In tale caso il dato bancario acquisisce il valore di questi, assumendo la natura di documento originale e non di mera copia (Cass. V, n. 47105/2014). Analogo principio è stato affermato in relazione all'appropriazione di disegni e progetti industriali coperti da segreto, riprodotti su documenti di cui l'imputato si era indebitamente appropriato (Cass. II, n. 20647/2010). Infine anche in riferimento al ricettazione è stato evidenziato che costituisce “cosa” mobile, proveniente da delitto, il supporto fisico sul quale siano trasferiti dati indebitamente carpiti mediante accesso abusivo in sistema informatico (Cass. II, n. 21596/2016). La natura immateriale dei file o dei documenti informatici non consente, dunque, di ritenere realizzato l'elemento oggettivo del reato di appropriazione indebita, non essendo configurabile la condotta tipica della sottrazione del dato, ma del solo supporto documentale che lo rappresenta (in forma di stampa cartacea) o lo contiene (hardware). Orientamento recente della Corte di Cassazione Secondo un recentissimo orientamento della Cassazione (Cass. II, n. 11959/2019) integra il delitto di appropriazione indebita la sottrazione definitiva di “dati informatici” o “file” mediante copiatura da un personal computer aziendale, affidato all'agente per motivi di lavoro e restituito con hard disk “formattato” in quanto i “dati informatici”, per fisicità strutturale, possibilità di misurarne le dimensioni e trasferibilità da un luogo all'altro, sono qualificabili come cose mobili ai sensi della legge penale. Una prima “apertura” è stata registrata con una sentenza nella quale la Cassazione ha affermato la possibilità che oggetto della condotta di furto possano essere anche i file. In merito è necessario rilevare che tale arresto si basava su un diverso atteggiarsi della condotta concreta: nel caso di specie, infatti, lo “spossessamento” successivo alla sottrazione del file si sarebbe estrinsecato nella cancellazione dei file immagazzinati nel server. Tale comportamento avrebbe cagionato la spoliazione del titolare del diritto di uso dei suddetti file della possibilità di esercitarlo (Cass. V, n. 32383/2015 ha esaminato la condotta di un avvocato che, dopo aver comunicato la propria volontà di recedere dallo studio associato presso cui lavorava, si era impossessato di alcuni file, eliminandoli dal server dello studio. L'agente, inoltre, si era impadronito che di alcuni fascicoli processuali — in ordine ai quali aveva ricevuto in via esclusiva dai clienti il mandato difensivo – per impedire agli altri colleghi dello studio un effettivo controllo sulle reciproche spettanze). Nella sentenza n. 11959/2019 la Corte opera due passaggi argomentativi per superare l'orientamento giurisprudenziale tradizionale in tema di interpretazione di “cosa mobile” ed includere i file informatici nell'ambito di applicazione della predetta categoria. In primo luogo, approfondisce il profilo relativo alla fisicità del file, individuando due requisiti che – se accertati – consentono di riconoscere al file la natura di “cosa mobile”: distingue da un lato la sua attitudine a occupare uno spazio e a essere trasferito senza subire trasformazioni, e dall'altro la sua idoneità ad essere materialmente appreso. Ciò al fine di valutare la compatibilità dell'esegesi proposta con il principio di legalità, sub specie di tassatività e di precisione. In secondo luogo, analizza la corrispondenza tra la condotta realizzata dall'agente e quella descritta dalla norma incriminatrice contenuta dall'art. 646 c.p. Per quanto attiene alla fisicità “in senso stretto”, la Cassazione analizza la struttura e osserva che secondo le nozioni informatiche comunemente accolte (per tutte, le specifiche ISO), il file è l'insieme di dati, archiviati o elaborati, a cui è stata attribuita una denominazione secondo le regole tecniche uniformi. Da un punto di vista strettamente tecnico il file è un supporto sul quale vengono “immagazzinati” i dati, che occupa uno spazio (di memoria) misurabile in bit (cioè un'unità che misura lo spazio di memoria utilizzato) e che può essere traslocato da un dispositivo a un altro, anche utilizzando la rete internet. Possiede, pertanto, una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono e determinata dal numero delle componenti, necessarie per l'archiviazione e la lettura dei dati inseriti al suo interno. Si tratterebbe, quindi, di un'entità fisica, ancorché non percepibile attraverso i sensi. In merito alla capacità di essere “materialmente appresi”, la Corte rileva che i file non posseggono tale caratteristica. Al contempo, però, evidenzia che tale mancanza non determina logicamente che non possano costituire oggetto di appropriazione indebita. Secondo la Cassazione, infatti, il criterio della indispensabile detenzione fisica della cosa, riconosciuto come necessario per ravvisare le condotte di sottrazione e impossessamento (o appropriazione) di cose mobili, non soddisfa a pieno la ratio dell'incriminazione di impedire l'aggressione all'altrui patrimonio, soprattutto alla luce delle nuove modalità di esplicazione dei comportamenti umani attuabili attraverso le apparecchiature informatiche. Ad una prima analisi, infatti, l'attività diretta a spogliare il titolare del bene dalla possibilità di esercitare i diritti connessi alla sua utilizzazione sembrerebbe presuppore in via logica la sua materiale disponibilità. Approfondendo, però, emerge che può essere posta in essere anche quando ha ad oggetto non solo dei beni mobili, ma anche dei file, la cui trasferibilità è svincolata dall'incorporazione in un supporto materiale. Le sue caratteristiche permettano un altro tipo di apprensione: in particolare la idoneità del file ad essere trasmigrato da un supporto informatico ad un altro, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali intatte, e la sua capacità – e quella dei dati ivi custoditi — di “viaggiare” attraverso la rete Internet per essere inviato da un sistema o dispositivo ad un altro, anche a distanze rilevanti, e di essere “custodito” in ambienti “virtuali” (corrispondenti a luoghi fisici in cui gli elaboratori conservano e trattano i dati informatici: ad es. cloud) sono tutte proprietà che confermano la possibilità del file e dei relativi dati informatici di formare oggetto di condotte di sottrazione e appropriazione. Ricostruita in tal senso la nozione di cosa mobile la Corte procede, poi, a verificare se l'interpretazione proposta nei termini su indicati si ponga in contrasto con i principi volti a garantire l'intervento della legge penale quale extrema ratio, e di legalità, sub specie di tassatività e determinatezza. In riferimento a quest'ultimo principio, la Cassazione si limita a richiamare l'orientamento della Corte costituzionale (espresso dalla sentenza n. 327/2008 e recentemente ribadito, tra le altre da Corte cost. n. 141/2019) secondo il quale l'utilizzo di «espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici» non comporta la violazione del principio di precisione ogniqualvolta il giudice sia comunque in grado di «esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo». Secondo la Corte Costituzionale, infatti, ciò che rileva è che “la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell'illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce” (Corte cost.n. 327/2008). Quanto al principio di tassatività, che governa l'attività interpretativa giurisdizionale affinchè l'applicazione della fattispecie incriminatrice non avvenga al di fuori dei casi espressamente considerati, la Corte di Cassazione precisa che il legislatore, utilizzando la nozione di “cosa mobile”, avrebbe fatto rinvio ad elementi extragiuridici (scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune). Chiarisce, poi, che non è ravvisabile una violazione del principio di tassatività ogni qualvolta il mutamento di significato di tali elementi esterni rispetto al momento storico in cui la norma fu emanata non comporti un ampliamento della sua sfera di applicazione. In tale ipotesi, infatti, il disvalore del reato e il contenuto significativo dell'espressione usata per indicare gli estremi costitutivi delle fattispecie rimangono immutato. La nozione di “cosa mobile” sarebbe, pertanto, determinabile in base al linguaggio comune ed il cambiamento del significato abitualmente attribuibile a tale espressione nel tempo non avrebbe comportato una determinazione del suo perimetro applicativo oltre i suoi confini originari, bensì soltanto a una sua interpretazione in chiave «logico-sistematica, assiologica e per il principio dell'unità dell'ordinamento». Alla luce dei sopraesposti criteri la Cassazione reputa che la circostanza che il dato informatico possiede un valore economico, insieme al requisito della trasferibilità, sono due caratteristiche sufficiente affinché lo stesso si possa definire “cosa mobile”, secondo il concetto sopra ricostruito. Da ultimo la Cassazione affronta la questione relativa alla riconducibilità del fatto posto in essere alla condotta tipica richiesta ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 646 c.p. In merito osserva che anche in riferimento al denaro, che la legge equipara alla cosa mobile in più disposizioni, si pongono in astratto le medesime questioni sollevate in relazione ai dati informatici. Sebbene, infatti, sia fisicamente suscettibile di diretta apprensione materiale anche il denaro, nella sua componente espressiva del valore di scambio tra beni, può essere oggetto di operazioni contabili, così come di trasferimenti giuridicamente efficaci, anche in assenza di una materiale apprensione delle unità fisiche che rappresentano l'ammontare del denaro oggetto di quelle operazioni giuridiche. Trattandosi di reato a forma libera, le condotte dirette alla sottrazione, ovvero all'impossessamento del denaro, possono esser realizzate anche senza alcun contatto fisico con il denaro, attraverso operazioni bancarie o disposizioni impartite, anche telematicamente. L'apprensione materiale della res non costituisce, dunque, elemento essenziale della condotta di appropriazione. Distinzione tra appropriazione indebita e “furto di informazioni” La Cassazione precisa che le condotte appropriative di dati informatici si differenziano dalla generalità delle ipotesi di “furto di informazioni”. In quest'ultimo caso si è frequentemente rilevato che non è ravvisabile il pericolo della perdita definitiva da parte del titolare dei dati informatici attraverso la cancellazione degli stessi. L'agente, infatti, attraverso la sottrazione si procura sostanzialmente un mezzo per acquisire la conoscenza delle informazioni contenute nel dato informatico, che resta comunque nella disponibilità materiale e giuridica del titolare. Tale considerazione aveva indotto il legislatore, nel corso del procedimento di discussione ed approvazione della L. n. 547/1993, a ritenere che alle condotte di sottrazione di dati, programmi e informazioni non fosse applicabile l'art. 624 c.p. nonostante “l'ampio concetto di ”cosa mobile” da esso previsto”, in quanto “la sottrazione di dati, quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati sono impressi (nel qual caso si configura con evidenza il reato di furto), altro non è che una “presa di conoscenza” di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante, se del caso, nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti” (così la relazione al relativo disegno di l. n. 2773). Infatti, il fatto tipico della materiale sottrazione del bene, che entra a far parte in via esclusiva del patrimonio del responsabile della condotta illecita, si realizza quando l'appropriazione è posta in essere attraverso una condotta volta a conseguire due diverse finalità: la prima rappresentata dall'interversione del possesso legittimamente acquisito dei dati informatici, in virtù di accordi negoziali e convenzioni che ne legittimano la possibilità temporanea d'impiego, con l'obbligo della successiva restituzione, e la seconda costituita dalla privazione definitiva per il proprietario della loro disponibilità mediante la loro cancellazione e la contestuale duplicazione e acquisizione autonoma nella utilizzabilità del soggetto agente. 3. Azioni processualiUlteriori attività difensive Per la fattispecie in esame si possono esperire le seguenti ulteriori attività difensive: Querela (art. 336); Istanza di sequestro conservativo della parte civile (art. 316); Memoria difensiva al pubblico ministero (art. 367); Richiesta di presentazione spontanea per rilasciare dichiarazioni (art. 374); Memoria difensiva (art. 419, comma 2); Richiesta di giudizio abbreviato (art. 438, comma 1). Procedibilità L'appropriazione indebita, ai sensi dell'art. 646, comma 1, c.p. è sanzionata a querela della persona offesa. A tale fattispecie si applica il disposto dell'art. 649 c.p., che sancisce la non punibilità per fatti commessi a danno di congiunti elencati al primo comma, a meno che non ricorrano una delle situazioni esplicitate al comma 2 (fatto commesso a danno del coniuge legalmente separato, ecc.). Se ricorre una delle predette ipotesi si procede a querela della persona offesa. Prima della riforma Cartabia nei casi in cui o si verificavano i fatti previsti dall'art. 646, comma 2, c.p. o i fatti di appropriazione indebita erano aggravati dalle circostanze di cui all'art. 61, comma 1, numero 11, c.p. si procedeva, inoltre, di ufficio ai sensi dell'art. 649-bis c.p. se: – ricorrevano circostanze aggravanti ad effetto speciale (inclusa la recidiva nei casi di cui all'art. 99, commi secondo e seguenti: cfr. Cass. S.U., n. 3585/2021); – la persona offesa era incapace per età o per infermità; – il danno arrecato alla persona offesa era di rilevante gravità (con duplicazione sostanziale del riferimento ai casi di cui all'art. 61, comma 1, n. 7, c.p.). Diversamente, la c.d. “Riforma Cartabia” [art. 2, comma 1, lett. q), d.lgs. n. 150/2022, in vigore, come stabilito dal d.l. n. 162/2022, convertito in l. n. 199/2022, dal 30 dicembre 2022], modificando l'649-bis c.p., prevede che si proceda d'ufficio se: – ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale diverse dalla recidiva; – la persona offesa era incapace per età o per infermità. Le disposizioni transitorie contenute nell'art. 85, comma 1, d.lgs. n. 150/2022, e nella l. n. 199/2022 (che sostituisce il disposto riportato dal comma 2 del predetto art. 85 ed introduce i commi 2-bis e 2-ter) individuano le tempistiche di entrata in vigore delle predette modifiche. Quest'ultime, infatti, sono immediatamente operative per i reati commessi a partire dal 30/12/2022, data di vigenza della novella, mentre in riferimento ai reati commessi fino al 29/12/2022, divenuti procedibili a querela di parte in forza delle nuove disposizioni, operano secondo lo schema di seguito riportato, A) Casi in cui non pende il procedimento penale: – se il soggetto legittimato a proporre querela ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato” il termine per proporla è di mesi tre, ex art. 124 c.p., (disposto non toccato dall'intervento novellatore), decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade, pertanto, il 30/03/2023; – se il soggetto legittimato a proporre querela non ha avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato” il medesimo termine per proporla decorre, secondo la disciplina ordinaria, in parte qua non modificata, dal momento in cui ne abbia avuto conoscenza. Tale tempistica si deduce dalla lettura “a contrario” della succitata disposizione. B) Casi in cui pende il procedimento penale: – il termine trimestrale per proporre querela decorre dal 30/12/2022, data di entrata in vigore della novella, e scade il 30/03/2023 in quanto il soggetto legittimato a proporla ha necessariamente avuto in precedenza notizia “del fatto costituente reato”. Inoltre, diversamente rispetto a quanto previsto dall'originario comma 2 del succitato art. 85, sul giudice procedente non grava alcun onere di informare la parte offesa di tale facoltà. Si presume, infatti, che la parte offesa debba avere conoscenza della novella. Ferma restando la predetta disciplina, l'art. 85 al comma 2 prevede che le misure cautelari personali in corso di esecuzione perdono efficacia se, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2022, e quindi entro il 19/01/2022, l'autorità giudiziaria che procede non acquisisce la querela. A tal fine, l'autorità giudiziaria procedente effettua ogni utile ricerca della parte offesa, anche avvalendosi della polizia giudiziaria. Durante la pendenza del predetto termine di venti giorni, i termini di cui all'art. 303 c.p.p. sono sospesi. Infine, durante la pendenza del termine per proporre querela, si applica quanto disposto dall'art. 346 c.p.p. in tema di atti compiuti in mancanza di condizioni di procedibilità. Alcune questioni che la nuova disciplina potrà proporre sono già state risolte dalla giurisprudenza in relazione a precedenti interventi novellatori dello stesso tenore: – l'inammissibilità del ricorso per cassazione esclude che possano porsi questioni riguardanti l'eventuale esercizio del diritto di querela (Cass. S.U., n. 40150/2018, in tema di reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018 n. 36 e di giudizi pendenti in sede di legittimità); – non possono porsi questioni riguardanti l'eventuale esercizio del diritto di querela quando la persona offesa abbia già manifestato la volontà di punizione del reo, costituendosi parte civile e persistendo in tale costituzione nei successivi gradi di giudizio (Cass. II, n. 28305/2019 e Cass. V, n. 44114/2019: fattispecie riguardante i reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36); – la remissione della querela, pur intervenuta in un momento nel quale vigeva un regime di procedibilità d'ufficio, implica l'obbligo di dichiarare la non procedibilità ai sensi dell'art. 129 c.p.p., ove disposizioni sopravvenute abbiano comportato la procedibilità di ufficio: la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, determina, infatti, la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti (Cass. II, n. 225/2019: fattispecie riguardante la modifica del regime di procedibilità per i delitti di cui agli artt. 640 e 646 c.p., introdotta dal d.lgs. n. 36/2018. Nella motivazione la Corte ha richiamato la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, dalla quale discende la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti); – non costituisce causa di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 c.p.p. una modifica legislativa per effetto della quale un reato procedibile d'ufficio divenga procedibile a querela, in caso di mancata proposizione di quest'ultima. Ciò in quanto il regime di procedibilità non è elemento costitutivo della fattispecie e, conseguentemente, la sopravvenuta previsione della procedibilità a querela è inidonea a determinare un fenomeno di abolitio criminis (Cass. I, n. 1628/2020: fattispecie relativa al delitto di appropriazione indebita aggravato art. 61, comma 1, n. 11, c.p., divenuto procedibile a querela a seguito del d.lgs. n. 36/2018); – la sopravvenuta procedibilità a querela del reato di appropriazione indebita per effetto del d.lgs. n. 36/2018 non costituisce prova nuova ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p. nel caso in cui la modifica normativa sia intervenuta successivamente al passaggio in giudicato della sentenza della quale si chiede la revisione: in ragione della natura mista – sostanziale e processuale – dell'istituto della querela, la sopravvenuta disciplina più favorevole deve, infatti, essere applicata nei procedimenti pendenti, salva l'insuperabile preclusione costituita dalla pronuncia di sentenza irrevocabile, ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., se non derogata da una disposizione transitoria ad hoc (Cass. II, n. 14987/2020). Illustrati gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità pacifici occorre segnalare che sussiste un contrasto sulla possibile valenza della querela tardiva o comunque, per altro verso, irrituale, sporta quando vigeva un regime di procedibilità d'ufficio: – un orientamento ritiene privo di rilievo il fatto che la persona offesa abbia, in precedenza, manifestato la volontà di punizione oltre il termine di cui all'art. 124 c.p. Ciò in quanto la valutazione in ordine alla condizione di procedibilità è ancorata al momento dell'entrata in vigore del nuovo regime normativo che prevede la procedibilità a querela. Non rileverebbero eventuali irregolarità della querela afferenti ad un momento procedimentale anteriore, in cui la querela stessa non era richiesta ai fini della procedibilità (Cass. II, n. 25341/2021; Cass. II, n. 11970/2020; Cass. S.U. , n. 5540/1982); – altro orientamento considera preclusa la possibilità di esercitare il diritto di sporgere querela per la parte offesa che abbia in precedenza già manifestato la volontà di punizione oltre il termine di cui all'art. 124 c.p., poiché, diversamente, l'avviso si risolverebbe in una rimessione in termini. Tale indirizzo precisa, inoltre, che l'onere di tempestività a carico della parte che si ritenga persona offesa dal reato, sussiste indipendentemente dalla procedibilità del reato di ufficio o a querela di parte (Cass. II, n. 8823/2021; Cass. II, n. 12420/2020). Quest'ultimo orientamento appare all'evidenza non condivisibile, pretendendo di valorizzare, al fine di precludere alla parte offesa l'esercizio della facoltà di sporgere querela, vizi della medesima intervenuti quando l'atto era irrilevante, vigendo un regime di procedibilità officiosa. Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato) Il termine-base di prescrizione è pari ad anni sei (cfr. art. 157 c.p.). A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), per l'appropriazione indebita costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione: — del giudizio di appello entro il termine di due anni; — del giudizio di cassazione entro il termine di un anno. Tali cause di improcedibilità ricorrono a meno che non intervenga: — la proroga per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare; — la sospensione nei casi previsti dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p.; — la diversa modulazione dei predetti termini in applicazione della normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021). Misure precautelari e cautelari Arresto e fermo Per il reato di appropriazione indebita: — non è mai consentito l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380 c.p.p.); — è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 2, c.p.p.); — è consentito il fermo (art. 384 c.p.p.). In riferimento all'arresto facoltativo in fragranza di reato l'art. 381, comma 3, c.p.p. dispone che se si tratta di delitto perseguibile a querela, può essere eseguito se quest'ultima viene proposta, anche con dichiarazione resa oralmente all'ufficiale o all'agente di polizia giudiziaria presente nel luogo. Se l'avente diritto dichiara di rimetterla, l'arrestato è posto immediatamente in libertà. Misure cautelari personali Nel caso del delitto di appropriazione indebita è consentita l'applicazione delle misure cautelari personali (custodia cautelare in carcere ed altre misure cautelari personali art. 278 e ss. c.p.p.). In relazione al predetto delitto si applica il disposto dell'art. 391, comma 5, c.p.p. che contempla l'applicazione di misure cautelari coercitive soltanto in caso di arresto in flagranza, stabilendo che, in tali casi, “l'applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lett. c), e 280”. Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale Competenza Nei casi di appropriazione indebita è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione monocratica (cfr. artt. 33-bis e 33-ter c.p.p.). Citazione a giudizio Per l'appropriazione indebita si procede con udienza preliminare, in luogo della citazione diretta del P.M. a giudizio. Composizione del tribunale Il processo per il reato di appropriazione indebita si svolgerà dinanzi al tribunale in composizione monocratica ai sensi dell'art. 33-ter, comma 2, c.p.p. (che detta regole riguardanti le attribuzioni del tribunale in composizione monocratica). 4. ConclusioniCon la sentenza n. 11959/2019 la Corte afferma il seguente principio di diritto: i dati informatici (file) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi di lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer “formattato”. La qualificazione dei file come “cosa mobile” avviene attraverso un iter logico-argomentativo che si snoda in due passaggi fondamentali: da un lato la dimostrazione che posseggono una loro fisicità, determinata dalla loro “misurabilità”, dall'altro la rilevazione che la loro dimensione fisica non coincide con la loro tangibilità. La Cassazione, infatti, afferma che il requisito della materiale apprensione – richiesto ai fini dello spossessamento — non è necessario per qualificare l'oggetto come ‘cosa mobile'. Osserva, infatti, che la condotta di appropriazione consegue, necessariamente, ad una situazione possessoria iniziale, e che, quindi, occorre verificare se il file possa essere oggetto di possesso (rectius: di disponibilità materiale). Ad un approfondito esame risulta che quest'ultimo, anche se non possiede la caratteristica della tangibilità (se non quando esso sia fissato su un supporto digitale che lo contenga), rappresenta comunque una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura, alla possibilità di misurarne l'estensione e la capacità di contenere dati. Le sue caratteristiche permettano un altro tipo di apprensione pur nel limite del difetto del requisito della “fisicità” della detenzione: è, infatti, suscettibile di esser trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l'intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall'uomo e possiede un suo indiscusso valore patrimoniale. La Corte, poi, dimostra che una nozione così costruita è compatibile con il contesto normativo in cui la stessa si inserisce e che la condotta di appropriazione può realizzarsi anche in assenza di un rapporto materiale con la res. Nel compiere detto sindacato si affida agli insegnamenti della Corte costituzionale secondo i quali ritiene che né la precisione linguistica, né la determinatezza della fattispecie risultano compromesse. Il ragionamento svolto sarebbe ulteriormente avvalorato dalla circostanza che si pone la medesima questione in riferimento al denaro, quando è oggetto, ad es., di trasferimenti bancari. Anche le condotte dirette alla sottrazione ovvero all'impossessamento del denaro possono, infatti, esplicarsi in assenza di alcun contatto fisico con quest'ultimo: per l'appunto, attraverso trasferimenti telematici. L'apprensione materiale della res non costituisce, pertanto, elemento essenziale della condotta di appropriazione. |