Le infezioni nosocomiali

Mauro Di Marzio

1. Bussole di inquadramento

Quello delle infezioni nosocomiali è un problema di proporzioni colossali che affligge il sistema sanitario nazionale: basterà pensare che le statistiche disponibili, risalenti all'epoca pre-Covid, segnalano una probabilità di contrarre infezioni durante un ricovero ospedaliero pari al 6%, con 530.000 casi ogni anno, ed un totale dei deceduti a causa di simili infezioni aggirantesi sul doppio dei morti per incidente stradale.

Il diffondersi di tali infezioni, che insorgano durante la degenza ospedaliera, dopo il decorso di almeno 48 ore dal ricovero, o che si verifichino dopo le dimissioni, ma siano riferibili, in ragione della durata della incubazione, al ricovero, è da ricondurre ad una pluralità di fattori non necessariamente riconducibili a malfunzionamenti delle strutture sanitarie: ma è un dato di fatto significativo che l'incidenza delle infezioni ospedaliere è notevolmente maggiore in Italia che negli altri paesi dell'Unione Europea.

Dal punto di vista medico, le infezioni ospedaliere si presentano per lo più come complicanze, intendendosi con ciò un evento anomalo, ossia uno sviluppo imprevisto ed imprevedibile della malattia, non addebitabile ad una condotta colposa del medico, le quali colpiscono soprattutto soggetti fragili (bambini, anziani e immunodepressi), nella gran parte dei casi inevitabili: infezioni, cioè, che si manifestano nonostante l'adozione di tutte le misure prescritte dalla letteratura medica. Si tratta, insomma, di un caso in cui la responsabilità della struttura sanitaria prescinde sovente da un profilo di responsabilità addebitabile al singolo sanitario. In ogni caso, dal punto di vista giuridico, rimane problematico stabilire l'eziologia dell'infezione, ed ancor più difficoltoso distinguere gli effetti prodottisi a causa di essa rispetto alle sequele delle preesistenti patologie.

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
Sono risarcibili i danni da infezioni nosocomiali? 

Tendenzialmente sì

Non può dubitarsi che i danni da infezioni nosocomiali siano risarcibili, ove ricorrano i presupposti per il risarcimento. In caso di infezione nosocomiale, dunque, l'attore, rivolgendo la propria domanda nei confronti della struttura sanitaria, ed avvalendosi cioè del regime della responsabilità contrattuale, deve provare l'esistenza del contratto ed offrire una deduzione di inadempimento qualificata, rimanendo a carico della struttura sanitaria la dimostrazione che l'inadempimento non sussiste o non è imputabile.

Alla luce della giurisprudenza più recente, tuttavia, occorre considerare che grava sul paziente l'onere della prova del nesso causale, con la conseguenza che, ove la causa del danno resti ignota, il risarcimento non spetta e la domanda va rigettata (Cass. n. 18392/2017; Cass. n. 26824/2017; Cass. n. 26825/2017; Cass. n. 29315/2017; Cass. n. 3704/2018; Cass. n. 26700/2018). In tale prospettiva, in caso di infezione nosocomiale, è onere dell'attore-paziente dimostrare, in applicazione del criterio del «più probabile che non», l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno subito; se, all'esito dell'istruttoria, generalmente mediante consulenza tecnica d'ufficio, le cause della patologia rimangono incerte, la struttura sanitaria non risponde. Resta in ogni caso ferma la possibilità, a fronte della prova offerta dall'attore, che la struttura sanitaria offra la prova liberatoria. Insomma, anche con riguardo alle infezioni nosocomiali, trovano applicazione le regole generali, sicché va innanzitutto accertata la sussistenza di una relazione causale tra la prestazione sanitaria e l'infezione, e quindi va accertato se la condotta della struttura ospedaliera presenti profili di colpa causalmente ricollegabili al contagio.

Così rappresentata, la situazione dinanzi alla quale si trova il paziente, in caso di infezioni nosocomiali, potrebbe sembrare alquanto impegnativa, in considerazione dell'onere della prova del nesso di causalità materiale. Ma in effetti non è così, almeno se il paziente abbia fatto correttamente la sua parte, prestando adempimento al proprio onere probatorio. Nel qual caso la struttura ospedaliera va esente da responsabilità solo se fornisce un'adeguata prova liberatoria, sempre possibile, ma non certo facile.

Nell'esaminare il caso di una donna sottoposta ad un intervento chirurgico al ginocchio, cui era seguita un'infezione da stafilococco aureo, e cioè una tipica infezione ospedaliera, la S.C., dopo che i giudici di merito avevano concordemente respinto la domanda risarcitoria proposta dagli eredi della paziente, ha di recente osservato, sulla scia di Cass. n. 13953/2007, che sulla struttura sanitaria grava tra le altre l'obbligazione di garantire l'assoluta sterilità non soltanto dell'attrezzatura chirurgica ma anche dell'intero ambiente operatorio nel quale l'intervento ha luogo, così da contrastare il rischio di insorgenza della detta infezione, che non può considerarsi un fatto eccezionale né difficilmente prevedibile: e l'onere della prova di avere approntato in concreto tutto quanto necessario per la perfetta igiene della sala operatoria è, ovviamente, a carico della struttura. Sicché, insorta l'infezione, tipicamente ospedaliera, successivamente all'intervento, e non essendo stata neppure prospettata la possibilità che essa avesse avuto una genesi diversa da quella nosocomiale, doveva darsi per accertato, anche se in via presuntiva, che i danneggiati avessero dimostrato il verificarsi del contagio in ospedale, e con ciò la sussistenza del nesso di causalità tra l'insorgere della malattia l'intervento eseguito, con l'ulteriore conseguenza che era onere della struttura sanitaria provare l'inesistenza di quel nesso, ad esempio, dimostrando l'assoluta correttezza dell'attività di sterilizzazione, ovvero l'esistenza di un fattore esterno tale da rendere impossibile quell'adempimento (Cass. n. 17696/2020).

Altre volte la bilancia è fatta prendere dal lato del paziente anche con qualche forzatura. È emblematico in tal senso il caso esaminato da Cass. n. 11599/2020. Una donna si ricovera per un intervento all'occhio sinistro e contrae un'infezione, che assume riconducibile a responsabilità del nosocomio, con i conseguenti danni. La sua domanda è respinta in primo grado, giacché il tribunale ritiene che ella non abbia allegato un «inadempimento qualificato», invocando per di più un inesistente regime di responsabilità oggettiva della struttura sanitaria. La corte d'appello ribalta la decisione: il primo giudice non avrebbe esaminato adeguatamente gli elementi addotti dalla paziente a fondamento della domanda, né avrebbe considerato la circostanza che la struttura sanitaria si era limitata a depositare il protocollo previsto per le medicazioni post-operatorie, ma non aveva provato la loro effettiva osservanza. Proposto ricorso per cassazione, la decisione d'appello è confermata: secondo la S.C., la sentenza d'appello «ha in primo luogo ritenuto che la paziente avesse denunciato una inadempienza qualificata della struttura sanitaria, consistente nel non essersi attenuta rigidamente alle misure precauzionali dalla stessa indicate nei protocolli post-operatori, ed ha ritenuto, con ragionamento probabilistico basato sulla regola del più probabile che non, che, non avendo la paziente alcuna infezione all'occhio prima del suo accesso in ospedale per l'operazione, avendo subito a causa della operazione il bendaggio dell'occhio che rendeva la zona inaccessibile al contatto, e sulla quale potevano intervenire, per la rimozione delle medicazioni e la loro sostituzione, soltanto i medici e il personale dell'ospedale, l'infezione da stafilococco faecalis dalla quale era risultata affetta all'uscita dell'ospedale fosse dovuta ragionevolmente, secondo un ragionamento probabilistico, ad una falla nella attuazione dei protocolli di sepsi». In buona sostanza la verifica del nesso di causalità si riduce qui all'applicazione della regola, priva ovviamente di qualsiasi fondamento logico-scientifico, post hoc ergo propter hoc: siccome l'infezione si è manifestata dopo che la paziente ha fatto ingresso in ospedale, allora essa è da attribuire a responsabilità della struttura sanitaria. Il che val quanto dire che la responsabilità è stata nel caso di specie riconosciuta non già in applicazione del principio del «più probabile che non», ma in una situazione di totale ignoranza ― e a quanto pare perfino in mancanza di una consulenza tecnica d'ufficio, di cui la sentenza di Cassazione non parla ― in ordine all'eziologia dell'infezione.

Più ragionate appaiono alcune decisioni di merito pure in tema di infezioni nosocomiali. In un caso in cui era stato eseguito un intervento di artroprotesi del ginocchio, con successivo sviluppo di un'infezione che aveva richiesto la rimozione e reimpianto della protesi, il giudice ha valorizzato il mancato controllo dei comportamenti del personale ospedaliero circa l'utilizzo obbligatorio di maschere, camici, cuffie, guanti nonché circa l'effettiva adozione di uno scrupoloso e costante lavaggio delle mani; l'assenza di prova circa l'adozione di protocolli e linee-guida in tema di asepsi; la mancanza nella cartella clinica di una descrizione dettagliata delle procedure di medicazione seguite; la mancanza di qualsiasi indicazione circa le procedure di medicazione post-operatoria (Trib. Bologna 13 ottobre 2017, n. 2231). Sicché, in ossequio alla regola del «più probabile che non», la condivisibilità della decisione appare evidente. In non dissimile frangente, concernente un'infezione verificatasi in seguito ad un intervento chirurgico agli arti inferiori, infezione che aveva reso necessari ulteriori interventi, il tribunale ha osservato che nonostante la convenuta avesse genericamente dimostrato di aver adottato linee guida e protocolli diretti ad evitare l'insorgenza di infezioni nosocomiali, era mancata la prova che, nel caso specifico, tali protocolli fossero stati scrupolosamente osservati, in quanto dalla cartella clinica e dalla check list preoperatoria non era emerso il rispetto di tutte le attività di prevenzione (Trib. Milano 9 aprile 2019, n. 2728). Analogo ragionamento è sotteso alla decisione resa in un caso di infezione contratta in occasione di un intervento chirurgico necessitato da una frattura al piede, sul rilievo della mancanza della prova sia della preesistenza dell'infezione sia dell'efficace asepsi della strumentazione chirurgica e degli ambienti ospedalieri, nonostante nella struttura ospedaliera fosse stato costituito uno specifico organismo di gestione e controllo delle infezioni ospedaliere (Trib. Agrigento 2 marzo 2016 n. 370). Ancora, un giudice di merito ha ritenuto responsabile la struttura ospedaliera per il danno subito da una paziente che, sottopostasi ad un intervento di cataratta, aveva contratto un'endoftalmite da pseudomonas aeruginosa con conseguente enucleazione bulbare e sostituzione protesica: pur essendo stato provato che la struttura sanitaria osservava procedure di sterilizzazione delle sale operatorie e del materiale chirurgico nonché di campionamento dell'aria, ed altresì l'impiego durante l'intervento di strumenti monouso/sterilizzati, con l'adozione di strategie di profilassi per la prevenzione delle endoftalmiti mediante sterilizzazione del campo operatorio e copertura antibiotica preoperatoria e postoperatoria, nondimeno «la comprovata prassi di disinfestazione e sterilizzazione non dimostra di per sé l'efficace conseguimento del risultato», poiché «l'effettiva bontà delle sterilizzazioni delle attrezzature non è stata documentata» (Trib. Bari 10 marzo 2009, n. 827). Decisione, quest'ultima, probabilmente da ripensare nell'ottica, maturata nella più recente giurisprudenza di legittimità, dell'addebito dell'onere probatorio del nesso di causalità al paziente.

3. Azioni processuali

Ulteriori azioni processuali

Per la fattispecie in esame è, in alternativa, esperibile il Ricorso ex art. 281-undecies c.p.c. (Procedimento semplificato di cognizione).

Aspetti preliminari

Mediazione

Le cause di risarcimento del danno da responsabilità medico-sanitaria rientrano tra quelle elencate dall'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Accertamento tecnico preventivo diretto alla conciliazione della lite

Con la legge Gelli-Bianco è stato inoltre previsto un diverso congegno volto alla definizione conciliativa della lite ed alternativo alla mediazione, ossia l'accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, previsto dall'art. 696-bis c.p.c. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

L'alternativa tra mediazione e consulenza tecnica preventiva

Sia la consulenza tecnica preventiva che la mediazione perseguono lo stesso scopo, ossia la definizione conciliativa della lite, con conseguente effetto deflattivo sul contenzioso civile. Tra i due strumenti sussistono similitudini e diversità, che possono rendere preferibile l'uno o l'altro. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Competenza per territorio

La legge Gelli Bianco ha inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nell'ambito della responsabilità contrattuale, il che va considerato ai fini dell'individuazione del giudice presso cui si radica la competenza territoriale per le cause in materia di responsabilità medica. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Competenza per valore

La competenza per valore del giudice di pace si determina in base ai criteri indicati dall'art. 7, comma 1, c.p.c.. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Rito applicabile

La domanda di risarcimento del danno per responsabilità medica può essere proposta con atto di citazione, nelle forme del procedimento ordinario di cognizione, ovvero con ricorso nelle forme del procedimento semplificato di cognizione. La scelta è libera, però, solo se si avvia la mediazione e questa non conduce alla soluzione della lite. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Legittimazione attiva e passiva

Il paziente che si assume danneggiato, ovvero i suoi congiunti in caso di morte (ovvero gli ulteriori legittimati, unitamente al paziente), può agire in via risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria, nei confronti dell'«esercente la professione sanitaria, nei confronti dell'impresa di assicurazione della struttura ovvero dell'esercente. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Contenuto dell'atto introduttivo

Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale), e si aggiunge che, nell'ipotesi di specie, grava sul paziente la prova del nesso di causalità tra il ricovero ospedaliero e l'insorgenza dell'infezione, con le sue successive conseguenze, di modo che l'attore in giudizio deve soffermarsi su detto aspetto, formulando nel rispetto delle scansioni processuali previste le necessarie richieste istruttorie.

4. Conclusioni

Quello delle infezioni nosocomiali costituisce esempio emblematico di responsabilità della struttura sanitaria cui non sempre accede una responsabilità del medico, nel senso che dette infezioni costituiscono eventi non totalmente controllabili, e comunque spesso ascrivibili non già alla negligenza del singolo operatore, ma alla mancanza di procedure volte a debellare il rischio infettivo, avuto riguardo alla considerazione, svolta in giurisprudenza, secondo cui la struttura sanitaria è obbligata a garantire l'assoluta sterilità non soltanto dell'attrezzatura chirurgica ma anche dell'intero ambiente operatorio nel quale l'intervento ha luogo.

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