Lo psichiatra


1. Bussole di inquadramento

Si è avuto modo di ripetere più volte che la responsabilità del medico operante nella struttura sanitaria è dalla legge Gelli-Bianco collocata nel comparto extracontrattuale, sicché la responsabilità sussiste in presenza di condotte del medico connotate da colpa. La difficoltà di circoscrivere il concetto di colpa si acuisce con riguardo alla posizione dello psichiatra, collocata tra doveri di intervento terapeutico, rischi di responsabilità ed addebito, per quanto improprio, di doveri di controllo. Per di più, tra gli altri campi del sapere medico, la psichiatria è quello connotato dalla maggiore incertezza in ordine all'individuazione delle leggi scientifiche di copertura che governano l'accertamento sia del nesso di causalità sia della colpa, specie in relazione al requisito della prevedibilità dell'evento.

Con la l. n. 180/1978 l'incertezza è cresciuta, col riconoscimento della libertà di autodeterminazione (anche) del malato psichico, e la conseguente circoscrizione della tipologia degli interventi leciti sul paziente

Il dibattito sull'ampiezza di tali interventi, in passato intesi come diretti al controllo e protezione del paziente, non è venuto meno con la riforma del 1978, ed anzi si ripresenta ciclicamente il dubbio se persistano, a carico dello psichiatra, compiti di sorveglianza e custodia nei confronti del malato di mente, tali da ricomprendere anche obblighi volti all'impedimento di condotte auto o etero aggressive. Accanto a chi, valorizzando l'impianto della c.d. legge Basaglia, esclude che lo psichiatra sia assoggettato ad obblighi di controllo, e non soltanto di protezione e cura del malato psichico, vi è chi considera nella sostanza immutato il contenuto della posizione di garanzia, che ricomprenderebbe tuttora obblighi anche di controllo. Per parte sua, la giurisprudenza ha mantenuto un atteggiamento non sempre lineare: accanto a pronunce che esaltano il ruolo prioritariamente terapeutico dello psichiatra (Cass. pen., n. 33609/2016) e ad altre che ribadiscono l'illegittimità di richieste di trattamento sanitario obbligatorio esclusivamente finalizzate a neutralizzare la ritenuta pericolosità sociale del malato in assenza di necessità terapeutica (Cass. pen., n. 18504/2012), non mancano decisioni che propongono una lettura talmente dilatata del concetto di protezione da ricomprendere in sé anche obblighi impeditivi di tutte le conseguenze negative che la malattia psichica può cagionare (Cass. pen., n. 10795/2008; Cass. pen., n. 48292/2008).

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
I limiti degli interventi affidati allo psichiatra 

Le previsioni normative in materia e l'orientamento della giurisprudenza

Già il legislatore del 1909 aveva stabilito, nel regolamento sui manicomi e sugli alienati, che: «Nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l'autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell'istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura e la durata del mezzo di coercizione» (art. 60 r.d. 16 agosto 1909, n. 615). È superfluo dire che lo scarto tra i buoni propositi della legge e la realtà dei manicomi era in passato quella che era. Oggi, con l'art. 32, comma 2, Cost. – il quale non solo stabilisce che: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», ma aggiunge che neppure la legge «può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» – il riconoscimento della liceità di interventi di contenimento diviene ancor più problematico.

Non mi sembra dubbio, tuttavia, che il dibattito giuridico sulla liceità di simili interventi – al di fuori dei casi di TSO di cui agli artt. 34-35 l. 23 dicembre 1978, n. 833, nella quale ipotesi il problema è risolto «a monte» – debba andare a rimorchio del dibattito in ambito psichiatrico sulla possibile eliminazione del ricorso alla contenzione: nel senso che, laddove è possibile non ricorrere alla contenzione, diviene pressoché automaticamente illecito ricorrervi. La contenzione può cioè essere ammessa se indispensabile al fine di tutelare l'integrità psicofisica del malato. Ogni volta che sia possibile, secondo lo stato dell'arte, effettuare un trattamento terapeutico meno invasivo, la bilancia – tenuto conto dei valori costituzionali in gioco di libertà, dignità, salute del paziente – non potrà mai pendere a favore della contenzione. La contenzione del paziente psichiatrico non costituisce una pratica terapeutica o diagnostica legittimata ai sensi dell'art. 32 Cost., ma è un mero presidio cautelare utilizzabile in via eccezionale qualora ricorra lo stato di necessità di cui all'art. 54 c.p., ossia il pericolo di un danno grave alla persona, che si presenti come attuale ed imminente, non altrimenti evitabile, sulla base di fatti oggettivamente riscontrati che il sanitario è tenuto ad indicare nella cartella clinica (Cass. pen., n. 50497/2018, che ha precisato che l'uso della contenzione in assenza dei presupposti di cui all'art. 54 c.p. costituisce un'illegittima privazione della libertà personale ed integra gli estremi del delitto di cui all'art. 605 c.p.).

Il problema della liceità della contenzione, ancora, si va a combinare con quello del consenso, che in ambito psichiatrico presenta intuitivamente rilevanti peculiarità. Nessun atto medico è in linea di principio lecito senza il consenso informato del paziente. E tuttavia, il paziente può non essere in grado di manifestare la propria volontà, nel qual caso – a parte i citati casi di TSO – vale in linea di massima il principio dello stato di necessità di cui all'art. 51 c.p. Naturalmente è alquanto difficile pensare ad un consenso informato alla contenzione.

Domanda
Che responsabilità civile per lo psichiatra? 

La contenzione

Partiremo da alcuni esempi utili a comprendere quanto alta possa essere la posta in gioco nell'impiego della contenzione. Ecco un caso di contenzione di fonte letteraria, ma mutuato dalla realtà. Una vecchia prostituta compra un banco di frutta in un mercato e riesce ad impiegare il figlio – che nulla sa della sua vecchia attività – in una trattoria. Ma il figlio viene a sapere che la madre faceva «la vita» e ne rimane sconvolto. Lascia il lavoro e si dà al furto. Prova a derubare i malati di un ospedale nell'ora delle visite. Gli infermieri lo sorprendono: ha rubato una radiolina. Finisce in carcere, dove, febbricitante, a causa di una «crisi di nervi», viene portato in infermeria e legato al letto di contenzione. Morirà dopo una lunga e inascoltata agonia. Si tratta della vicenda raccontata in Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini, ma, in realtà, la storia è sostanzialmente vera: quella di Marcello Elisei, un giovane detenuto morto a Regina Coeli legato, appunto, al letto.

Ormai remota è la vicenda che si svolge nel manicomio di Pozzuoli (Trib. Napoli 17 giugno 1977, in Quale giustizia, 1977, 701). È il periodo natalizio. Una paziente legata al letto di contenzione dà fuoco al materasso e muore bruciata. Ne nasce un processo penale dal quale emergerà che la donna, nel passato, aveva subito numerosi internamenti e, al momento, era in attesa di giudizio per oltraggio e lesioni a pubblico ufficiale. Una precisa diagnosi nei suoi confronti non era stata mai formulata, e, dalle testimonianze raccolte, risulta che si trattava, in generale, di una «persona tranquilla». Perché, allora, era legata al letto di contenzione? Facile rispondere: era legata come tutti gli altri pazienti non per motivi in qualche modo legati alla terapia, ma per consentire ai sanitari e alle sorveglianti di dormire tranquillamente. E per di più, dato il periodo festivo, uno dei medici aveva sottoscritto in bianco i fogli del registro delle contenzioni relativi al periodo in cui sarebbe recato in ferie. Scontata la condanna dei sanitari.

Basta spostare qualche particolare per arrivare ad esiti in parte diversi (Trib. Milano 4 aprile 1979, in Riv. it. med. leg., 1979, 571). Siamo nuovamente al cospetto di una paziente morta a causa dell'incendio del materasso del letto al quale era legata. In questo caso si tratta di un ricovero su base volontaria e vi è una diagnosi di schizofrenia. L'incendio si è generato a causa di un mozzicone di sigaretta che la paziente ha lasciato cadere. Lo psichiatra responsabile giustifica la contenzione con la crisi acuta che al momento aveva la paziente. Il tribunale accerta che, in realtà, l'impiego del letto di contenzione dipendeva più alla scarsità di personale, che non a concrete esigenze terapeutiche, tanto più che la clinica possedeva lo status di istituto manicomiale privato e, dunque, non era neppure abilitata all'utilizzo di trattamenti coercitivi. Nondimeno la sentenza di condanna – che riguarda il direttore sanitario, il medico curante e l'infermiere di turno – si basa non già sul riconoscimento di un errore professionale nell'uso del letto di contenzione, ma nella colpa consistita nell'omettere il controllo sulla circostanza che la paziente avesse sigarette e fiammiferi.

Domanda
Quid iuris in caso di danni arrecati dal paziente a se medesimo? 

Orientamento della giurisprudenza

Sotto il profilo dei danni che il paziente possa recare a sé medesimo la questione si è posta frequentemente con riguardo al suicidio. Ad esempio Cass. pen., n. 1442/2003 ha confermato la sentenza di un tribunale (Trib. Como 13 novembre 2000, in Riv. it. med. leg., 2002, 907) che aveva riconosciuto la responsabilità colposa di un medico psichiatra direttore di una casa di cura per il suicidio di una paziente affetta da sindrome depressiva psicotica sul rilievo che egli aveva consentito alla medesima di uscire in compagnia di una accompagnatrice volontaria priva di adeguata informazione sullo stato mentale dell'ammalata e di competenze medico-infermieristiche. Per la verità, la decisione sembra essere scarsamente convincente in fatto. Il medico, in effetti, aveva autorizzato la paziente ad uscire, accompagnata, per andare a prendere un gelato. Dopodiché l'accompagnatrice le aveva invece consentito di andare a casa, dove ella si era gettata dalla finestra del bagno. Dunque, nella vicenda si era innestato un fattore non ragionevolmente prevedibile dallo psichiatra e da solo idoneo a porre le premesse per l'evento dannoso. Il che, secondo le regole generali, dovrebbe comportare l'interruzione del nesso di causalità. Ma, al di là dell'errore di fatto che sembra poter essere riscontrato, non sembra condivisibile ritenere negligente la scelta di autorizzare l'uscita della paziente accompagnata, dal momento quella uscita si inseriva in un protocollo terapeutico deliberatamente scelto dallo psichiatra.

Merita ancora ricordare la vicenda in un primo tempo esaminata da una corte di merito (App. Perugia 9 novembre 1984, in Foro it., 1988, II, 108) secondo cui doveva rispondere di omicidio colposo lo psichiatra responsabile di un servizio psichiatrico che aveva omesso il TSO e si era astenuto dall'adottare idonee misure terapeutiche nei confronti di una persona affetta da schizofrenia, sicché quest'ultima due giorni dopo aveva ucciso la madre e ferito gravemente il padre: in tal caso, infatti, la Cassazione (Cass. pen. 5 maggio 1987, in Foro it., 1988, II, 107) ha annullato senza rinvio la condanna della corte d'appello.

Ed analogamente può rammentarsi un'altra decisione secondo cui non rispondono di omicidio colposo i due medici responsabili di una struttura psichiatrica per aver concesso il permesso di uscire da solo a un giovane ricoverato affetto da gravi disturbi depressivo-psicotici, il quale attuava il suicidio all'esterno, essendo nel caso di specie da escludere sia la colpa dei medici per omessa sorveglianza stante che il rischio di suicidio era insito e tollerabile nel tipo di trattamento non custodialistico adottato, sia il nesso causale con l'evento, posto che, anche ipotizzando la sospensione del permesso di uscire, il giovane avrebbe potuto comunque togliersi la vita con modalità diverse (Trib. Ravenna 29 settembre 2003, in Foro it., 2004, II, 566; v. pure App. Cagliari 9 aprile 1991, in Riv. giur. sarda, 1992, 158, in riforma di Trib. Cagliari 21 novembre 1989, Riv. giur. sarda, 1992, 158; difficilmente condivisibile, invece, l'affermazione che non fa capo al medico, sia esso uno specialista psichiatra o meno, l'obbligo, e neppure il diritto, di impedire al paziente di assumere la deliberazione di uccidersi in quanto questi compie, anche se in forma estrema, un gesto di libertà: così Pret. Busto Arsizio (sez. dist. di Saronno), ud. 27 maggio 1999, Sent. n. 164/99, in un caso in cui, riguardo ad un paziente che aveva ingerito una quantità incongrua di farmaci nel tentativo di suicidarsi, era stato disposto il ricovero in una stanza situata al quarto piano della struttura ospedaliera senza predisporre alcuna forma di sorveglianza specifica o trattamento farmacologico, sicché il paziente stesso, nel corso della nottata, si era gettato dalla finestra dell'ospedale decedendo sul colpo).

Un paziente, affetto da schizofrenia paranoide e ricoverato in una struttura sanitaria, cade da una finestra e subisce gravi ferite a seguito delle quali muore. Il direttore sanitario della casa di cura è condannato per omicidio colposo, per avere omesso, quale garante, di adottare misure atte ad impedire il suicidio del paziente. Entrambi i giudici di merito attribuiscono infatti la caduta ad un gesto autolesivo. Ciò senza però poter escludere con certezza altre ipotesi, quali una caduta accidentale o tentativo di fuga. La Cassazione annulla senza rinvio per intervenuta prescrizione, vagliando però la sussistenza dei presupposti per pronunciare l'assoluzione nel merito, assoluzione che viene esclusa (Cass. n. 4391/2012). Più di recente si è affermato che il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia che comprende un obbligo di controllo e di protezione del paziente, diretto a prevenire il pericolo di commissione di atti lesivi ai danni di terzi e di comportamenti pregiudizievoli per se stesso (Cass. pen., n. 43476/2017, che ha ritenuto immune da censure l'affermazione di responsabilità per il reato di omicidio colposo di un medico del reparto di psichiatria di un ospedale pubblico per il suicidio di una paziente affetta da schizofrenia paranoide cronica, avvenuto qualche ora dopo che la paziente, presentatasi in ospedale dopo avere ingerito un intero flacone di Serenase, era stata dimessa dal medico, senza attivare alcuna terapia e alcun meccanismo di controllo). Insomma, il medico psichiatra deve ritenersi titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente (anche là dove quest'ultimo non sia sottoposto a ricovero coatto), con la conseguenza che lo stesso, quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidarie, è tenuto ad apprestare specifiche cautele (Cass. pen., n. 33609/2016; Cass. pen., n. 35814/2015). Nell'ipotesi di suicidio di un paziente affetto da turbe mentali, viceversa, è da escludere la sussistenza di un'omissione penalmente rilevante a carico dello psichiatra che lo aveva in cura se ed in quanto risulti che il medico, nella specifica valutazione clinica del caso, si sia attenuto al dovere oggettivo di diligenza ricavato dalla regola cautelare, applicando la terapia più aderente alle condizioni del malato e alle regole dell'arte psichiatrica (Cass. pen., n. 24138/2022; nello stesso senso Cass. pen., n. 14766/2016).

In tema di contenzione psichiatrica, peraltro, anche l'infermiere professionale è titolare, ai sensi dell'art. 1 l. 10 agosto 2000, n. 251, e del codice deontologico degli infermieri, di una posizione di garanzia che si sostanzia di specifici obblighi giuridici, autonomi rispetto a quelli del medico, in ragione dei quali egli è tenuto a verificare la legittimità del trattamento e a segnalare all'autorità competente eventuali abusi, avuto riguardo alla natura di mero presidio cautelare e non terapeutico della contenzione, che deve essere circoscritta ad un uso straordinario, motivato ed annotato nella documentazione clinico-assistenziale (Cass. pen., n. 35591/2021).

Domanda
E nel caso di danni arrecati dal paziente a terzi? 

Anche qui può ricorrere responsabilità dello psichiatra

Poniamo, ora, che il rifiuto di ricorrere a strumenti costrittivi faccia sì che il paziente arrechi danni a terzi. Anche qui è il caso di ricordare due vicende giudiziarie pervenute a soluzioni (almeno interlocutorie) di segno contrapposto.

La prima delle due vicende riguarda il caso di un pluriomicida, il quale aveva altresì violentato la figlia ed intrattenuto con essa un rapporto incestuoso. Cessato l'internamento viene affidato al servizio psichiatrico della Usl di Trieste. Ad un dato momento riprende i rapporti incestuosi con la figlia che infine uccide con 90 coltellate. Il tribunale di Trieste (Trib.Trieste 23 novembre 1990, in Nuova giur. civ. comm., 1993, 986) stabilisce – ma la decisione è poi capovolta – che la Usl fosse tenuta, nei confronti degli eredi, al risarcimento dei danni patrimoniali e morali, avendo omesso di svolgere una seria e meditata azione preventiva di cura e sorveglianza nei confronti di un infermo psichico per evitare il compimento di un illecito da parte di un soggetto la cui pericolosità era ampiamente dimostrata.

L'altra vicenda riguarda il caso di un giovane affetto dai gravi turbe psichiche, per questo stabilmente affidato alle cure della Usl di Reggio Emilia. Egli, essendosi macchiato di precedenti gesti di violenza, si introduce in una casa, rapisce una bambina di tre anni che viene rinvenuta annegata nel Po. I genitori della bambina, in questo caso, agiscono senza successo del risarcimento del danno nei confronti della Usl. In tal caso il Tribunale (Trib. Reggio Emilia 18 novembre 1989, in Nuova giur. civ. comm., 1990, 549) ritiene che essa non avesse alcun obbligo di sorvegliare continuativamente il giovane, che non era né minore, né interdetto.

La responsabilità del medico psichiatra a titolo di concorso colposo nel delitto doloso commesso dal paziente psichiatrico è un'ipotesi configurabile in astratto nel nostro ordinamento, che va in concreto vagliata alla luce delle raccomandazioni contenute nelle linee guida che consentono di determinare il perimetro del rischio consentito, nonché sulla base di una valutazione ex ante dell'adeguatezza delle scelte terapeutiche poste in essere (Cass. pen., n. 28187/2017). Così, il medico psichiatra che, avendo in cura un soggetto affetto da malattia mentale (nella specie, schizofrenia), il quale abbia poche ore prima dato luogo a manifestazioni di pericolosità, decida di disporre il suo trasferimento ad altra struttura meglio attrezzata, da effettuarsi mediante autoambulanza, è penalmente responsabile, a titolo di colpa, delle lesioni riportate dal personale della medesima autoambulanza a seguito di un incidente stradale cagionato dalla perdita di controllo del veicolo da parte del conducente, a sua volta dovuta ad improvvise manifestazioni di aggressività da parte del malato, a fronte della cui prevedibilità il medico non aveva disposto o suggerito alcuna adeguata misura precauzionale (Cass. pen., n. 6380/2017).

3. Azioni processuali

Ulteriori azioni processuali

Per la fattispecie in esame è, in alternativa, esperibile il Ricorso ex art. 281-undecies c.p.c. (Procedimento semplificato di cognizione).

Aspetti preliminari: mediazione e accertamento tecnico preventivo

Mediazione

Le cause di risarcimento del danno da responsabilità medico-sanitaria rientrano tra quelle elencate dall'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Accertamento tecnico preventivo diretto alla conciliazione della lite

Con la legge Gelli-Bianco è stato inoltre previsto un diverso congegno volto alla definizione conciliativa della lite ed alternativo alla mediazione, ossia l'accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, previsto dall'art. 696-bis c.p.c. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

L'alternativa tra mediazione e consulenza tecnica preventiva

Sia la consulenza tecnica preventiva che la mediazione perseguono lo stesso scopo, ossia la definizione conciliativa della lite, con conseguente effetto deflattivo sul contenzioso civile. Tra i due strumenti sussistono similitudini e diversità, che possono rendere preferibile l'uno o l'altro. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Competenza per territorio

La legge Gelli Bianco ha inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nell'ambito della responsabilità contrattuale, il che va considerato ai fini dell'individuazione del giudice presso cui si radica la competenza territoriale per le cause in materia di responsabilità medica. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Competenza per valore

La competenza per valore del giudice di pace si determina in base ai criteri indicati dall'art. 7, comma 1, c.p.c.. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Rito applicabile

La domanda di risarcimento del danno per responsabilità medica può essere proposta con atto di citazione, nelle forme del procedimento ordinario di cognizione, ovvero con ricorso nelle forme del procedimento semplificato di cognizione. La scelta è libera, però, solo se si avvia la mediazione e questa non conduce alla soluzione della lite. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Legittimazione attiva e passiva

Il paziente che si assume danneggiato, ovvero i suoi congiunti in caso di morte (ovvero gli ulteriori legittimati, unitamente al paziente), può agire in via risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria, nei confronti dell'«esercente la professione sanitaria, nei confronti dell'impresa di assicurazione della struttura ovvero dell'esercente. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

Contenuto dell'atto introduttivo

Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I – La responsabilità medica in generale).

4. Conclusioni

Tra le diverse discipline mediche, quella della psichiatria pone problematiche specifiche, in ragione della difficoltà di fissazione di leggi di copertura scientifica, tali da consentire di governare agevolmente i problemi sia della colpa e del nesso di causalità. Lo psichiatra, in particolare, si trova astretto tra il dovere di intervenire e il divieto di utilizzare strumenti contenitivi non strettamente indispensabili. In tale frangente sempre più frequenti e numerosi sono gli addebiti di responsabilità rivolti agli psichiatri sia per il suicidio del paziente, sia per i danni che i pazienti abbiano arrecato a terzi.

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