Omessa diagnosi di malformazione fetale


1. Bussole di inquadramento

Il tema del risarcimento dei danni da «nascita indesiderata» pone un gran numero di problemi di ordine non soltanto giuridico, ma, indubbiamente, anche etico.

In generale, è ormai un ventennio (a partire da Cass. n. 6735/2002, ma si veda già Cass. n. 12195/1998) che la giurisprudenza riconosce, in favore dei genitori, in proprio, il risarcimento dei danni da «nascita indesiderata» (danni che possono essere sia patrimoniali che non), a fronte della violazione del diritto della donna all'autodeterminazione, quando la gestante perda la possibilità di interrompere la gravidanza in conseguenza dell'inadempimento del medico, il quale non abbia correttamente eseguito o interpretato esami volti a sondare lo stato di salute del feto, e l'insorgere di eventuali malformazioni, ovvero non abbia informato la paziente degli esiti dell'indagine svolta.

La legge sull'interruzione della gravidanza, tuttavia, se consente alla donna (maggiorenne) di decidere liberamente per l'aborto entro il 90° giorno, condiziona successivamente l'interruzione della gravidanza alla sussistenza di taluni presupposti e, in particolare, all'accertamento di processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6 l. 22 maggio 1978 n. 194).

In tale quadro la giurisprudenza ha individuato gli elementi che devono concorrere per ottenere il risarcimento del danno da nascita indesiderata: ossia, la negligente prestazione del medico (e cioè la lettura scorretta degli esami prenatali; la mancata prescrizione di esami appropriati rispetto alle condizioni della gestante, o, se del caso anche dell'altro genitore, che avrebbero permesso di rilevare le malformazioni; una consulenza genetica prenatale inadeguata); il nesso di causalità tra la condotta e la nascita; la presenza di danni risarcibili di ordine patrimoniale e non patrimoniale.

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
Come si arriva alla prova del grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna?

Gli orientamenti della Suprema Corte

Nel 2015, preso atto del contrasto giurisprudenziale concernente il riparto degli oneri probatori in caso di domanda di risarcimento dei danni da «nascita indesiderata», nonché di legittimazione attiva del nato malformato, la S.C. ha chiesto alle Sezioni Unite di fare chiarezza (Cass. n. 3569/2015).

Il caso il seguente. Nasce una bimba affetta da sindrome di Down. I genitori agiscono in giudizio, in proprio e quali genitori, nei confronti di due medici e della ASL presso la quale la madre, durante la gestazione, aveva eseguito un esame ematochimico (non cioè, un'amniocentesi, che possiede una maggiore efficacia diagnostica di talune malattie, quale in particolare la trisomia 21 o sindrome di Down), che ; secondo loro ; avrebbe fornito esiti non rassicuranti, ai quali non era però seguito, come sarebbe stato necessario, alcun ulteriore approfondimento diagnostico: chiedono dunque, nella duplice veste indicata, il risarcimento del danno da nascita indesiderata. I convenuti resistono ed il giudice rigetta la domanda. La decisione è confermata dalla sentenza di appello, che osserva: i) quanto alla domanda spiegata dai genitori in proprio, che, indipendentemente dallo scrutinio in ordine alla sussistenza di un qualche profilo di colpa dei sanitari, pure ad ammettere che, se avvertita della malattia del feto, la madre avrebbe scelto di accedere alla interruzione volontaria della gravidanza, non risultava provato che ne avesse diritto e che, cioè, sussistesse un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, secondo quanto previsto dalla legge sull'aborto, essendo decorso il 90° giorno dall'inizio della gestazione; ii) quanto alla domanda spiegata nella qualità di genitori esercenti la (allora) potestà sulla figlia minore, che l'ordinamento non riconosce un diritto a non nascere ovvero a non nascere se non sani.

Al riguardo la S.C. evidenzia i contrasti di giurisprudenza formatisi con riguardo all'una e all'altra questione poc'anzi menzionata, concludendo quindi per la trasmissione degli atti al Primo Presidente ai fini dell'assegnazione alle Sezioni Unite.

In effetti, la prima questione (quale prova deve dare la donna in ordine alla duplice circostanza del grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, e della sua concreta determinazione ad abortire) richiedeva senz'altro un intervento chiarificatore.

In linea di principio, non è seriamente dubitabile che debba essere la donna a provare che, ove informata delle malformazioni del feto, avrebbe scelto di abortire, evidente essendo, d'altronde, che, in mancanza di una simile volontà, nessun danno potrebbe essere configurato. Né può dubitarsi che, decorsi i 90 giorni di cui si è detto, il profilarsi di un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna vada anch'esso a collocarsi dal versante del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria spiegata, e che, di conseguenza, la prova sul punto debba essere offerta dalla donna, mentre costituisce circostanza impeditiva dall'esercizio del diritto di interrompere la gravidanza (la cui prova incombe perciò sul medico) l'attitudine del feto alla vita autonoma, ai sensi dell'art. 7 della l. n. 194 del 1978 (Cass. n. 6735/2002).

E, però, le circostanze da provare sono entrambe liquide, sfuggenti: si tratta infatti di dimostrare circostanze che non sono accadute, ma che avrebbero potuto verificarsi se un'altra circostanza di segno negativo (l'omessa diagnosi di malformazione), che ha invece avuto luogo, non fosse venuta ad esistenza. Vi è dunque una doppia incognita da sciogliere, per di più particolarmente ostica, giacché non sembra normale che una donna in gravidanza, ignara delle malformazioni del feto, palesi la propria volontà di abortire per l'ipotesi che dette malformazioni possano ipoteticamente manifestarsi.

In tale contesto, secondo una parte della giurisprudenza, sarebbe «corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto» (capostipite di questa soluzione è ancora una volta Cass. n. 6735/2002, seguita da Cass. n. 14488/2004; Cass. n. 13/2010; Cass. n. 15386/2011). Ecco perché, nella medesima ottica, è stato detto che, ove la donna abbia allegato che, se informata, avrebbe scelto di abortire (ovviamente di fronte ad una malformazione molto grave: nella mia esperienza giudiziaria mi è capitato di imbattermi in una domanda risarcitoria proposta da una donna la quale lamentava di non essere stata informata di una malattia in conseguenza della quale, in fin dei conti, il figlio era stato colpito da una lieve balbuzie...), deve ritenersi in ciò implicito un «pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all'acquisizione della notizia», e cioè che sarebbe insorto un grave stato depressivo (Cass. n. 22837/2010).

In senso opposto, in seguito, dopo aver affermato che «è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, [la donna: n.d.r.] avrebbe interrotto la gravidanza», la S.C. ha aggiunto che «tale prova non può essere desunta dal solo fatto che la gestante abbia chiesto di sottoporsi ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto, poiché tale richiesta è solo un indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità» (Cass. n. 7269/2013; v. pure Cass. n. 27528/2013; Cass. n. 12264/2014).

Sulla questione dell'onere della prova nelle azioni risarcitorie per il danno da nascita indesiderata e sul complesso tema della legittimazione ad agire per cd. wrongful life sono dunque intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 25767/2015).

Sul problema dell'onere della prova le Sezioni Unite hanno affermato che, in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza ; ricorrendone le condizioni di legge ; ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale; quest'onere può essere assolto tramite praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale;

Nell'affermare il primo principio, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto sull'onere probatorio del genitore che agisce per il risarcimento da nascita indesiderata, contrasto nel quale si opponevano, come si è detto, un indirizzo favorevole all'attore, assistito da una presunzione iuris tantum nel senso dell'opzione abortiva della gestante (Cass. n. 22837/2010), e un indirizzo favorevole al convenuto, che dell'opzione abortiva esigeva la piena dimostrazione controfattuale ad onere dell'attore (Cass. n. 7269/2013).

La soluzione adottata può definirsi mediana, in quanto rifiuta la costruzione di una presunzione legale, seppur relativa, ma consente l'adempimento dell'onere tramite presunzioni semplici.

Domanda
Quale è l'evoluzione della giurisprudenza successiva? 

Gli orientamenti successivi

Una decisione recente della S.C. ha apportato una rilevante novità nella materia del risarcimento del danno da nascita indesiderata, formulando l'interpretazione del dato normativo tale da ampliarne la portata.

In particolare è stato affermato che l'art. 6, lett. b) della l. n. 194/1978, che enumera i casi nei quali l'interruzione della gravidanza può essere praticata oltre i primi novanta giorni di gestazione, deve essere interpretato comprensivo del rischio di «rilevanti anomalie o malformazioni del feto», non ancora accertabili clinicamente (Cass. n. 653/2021).

Il passaggio saliente è il seguente: «letta a prescindere dall'inciso concernente le anomalie o malformazioni del nascituro, la norma della l. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), prevede che l'interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata “quando siano accertati processi patologici (...) che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”; l'inciso compreso tra le due virgole (“tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto”) vale a specificare che tra i processi patologici da considerare sono compresi anche quelli attinenti a rilevanti anomalie o malformazioni del feto; il legislatore ha dunque posto l'accento sull'esistenza di un “processo patologico” (che può anche non essere attinente ad anomalie o malformazioni fetali) e sul fatto che lo stesso possa cagionare un grave pericolo per la salute della donna; a ciò deve aggiungersi la considerazione che l'aggettivo “relativi” (riferito a processi patologici e collegato a “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”) esprime, di per sé, un generico rapporto di inerenza fra la patologia e la malformazione che non postula necessariamente l'attualità della seconda e che consente di riconoscere rilevanza anche alla sola probabilità che il processo patologico determini il danno fetale; deve pertanto ritenersi che, laddove si riferisce a processi patologici “relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto”, la l. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), non richieda che la anomalia o la menomazione si sia già concretizzata in modo da essere strumentalmente o clinicamente accertabile, ma dia rilievo alla circostanza che il processo patologico possa sviluppare una relazione causale con una menomazione fetale».

Legittimazione del disabile ad agire per il risarcimento da nascita indesiderata

L'altra questione, senz'altro più impegnativa, concernente la legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno dal medico e/o dalla struttura sanitaria che abbia privato la gestante della possibilità di abortire, è stata per lungo tempo risolta in senso negativo dalla S.C.

Successivamente si sono mostrate di diversa opinione Cass. n. 9700/2011, sul diritto al risarcimento del danno in favore del feto, poi nato, per la perdita del padre, perito in un incidente stradale, e, soprattutto, Cass. n. 16754/2012, secondo cui, nel caso in cui il medico ometta di segnalare alla gestante l'esistenza di più efficaci test diagnostici prenatali rispetto a quello prescelto, impedendole così di accertare l'esistenza d'una una malformazione del concepito, quest'ultimo, ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza ha diritto ad essere risarcito del danno rappresentato dell'interesse ad alleviare la propria condizione di vita, impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità.

Nel risolvere il contrasto le Sezioni Unite hanno affermato che, in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell'interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l'ordinamento non conosce il «diritto a non nascere se non sano», né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico.

Nell'affermare il secondo principio, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto sulla legittimazione del disabile ad agire per il risarcimento da nascita indesiderata, contrasto nel quale si opponevano un indirizzo negativo di tale legittimazione, intesa quale riflesso di un inesistente «diritto a non nascere se non sano» (Cass. n. 14488/2004), e un indirizzo positivo, in vista dell'interesse del nato ad alleviare una condizione impeditiva della libera estrinsecazione della persona (Cass. n. 16754/2012). La Sezioni Unite hanno in questa occasione ha adottato una soluzione assai netta, perché la quale esclude in modo chiaro e fermo la legittimazione del disabile, negando che egli sia portatore di un danno-conseguenza dell'inadempimento del medico.

3. Azioni processuali

Ulteriori azioni processuali

Per la fattispecie in esame è, in alternativa, esperibile il Ricorso ex art. 281-undecies c.p.c. (Procedimento semplificato di cognizione).

Aspetti preliminari: mediazione e accertamento tecnico preventivo

Mediazione

Le cause di risarcimento del danno da responsabilità medico-sanitaria rientrano tra quelle elencate dall'art. 5, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, che prevede come obbligatoria condizione di procedibilità il preventivo espletamento del procedimento di mediazione, solo dopo il fallimento del quale può essere adito il giudice. L'ampia dizione impiegata dal legislatore non lascia alcun dubbio che il previo accesso al procedimento di mediazione riguarda qualunque causa di risarcimento del danno cagionato nell'esercizio dell'attività medica, indipendentemente dalla circostanza che la domanda venga proposta nei confronti del medico, o di altro personale sanitario, o della struttura sanitaria, ed altresì indipendentemente dalla natura del pregiudizio lamentato, sia che esso concerna l'integrità psicofisica del paziente, sia che abbia ad oggetto il suo diritto di autodeterminazione nelle scelte attinenti alla sfera sanitaria, come accade nell'ipotesi di intervento operato in mancanza del necessario consenso informato: il caso dell'azione risarcitoria dei danni cagionati da omessa diagnosi di malformazione fetale costituisce ipotesi ricorrente di responsabilità medica, senz'altro ricompresa nell'ambito di applicazione della disciplina della mediazione.

Accertamento tecnico preventivo diretto alla conciliazione della lite

Con la legge Gelli-Bianco è stato inoltre previsto un diverso congegno volto alla definizione conciliativa della lite ed alternativo alla mediazione, ossia l'accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, previsto dall'art. 696-bis c.p.c., al quale rinvia l'art. 8 l. 8 marzo 2017, n. 24, che fa «salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell'art. 5, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28», cui si è poc'anzi fatto cenno. Spetta dunque all'attore la scelta se avvalersi dell'una o dell'altra procedura conciliativa. In caso di domanda risarcitoria dei danni da omessa diagnosi di malformazione fetale, la posta in gioco è generalmente molto elevata, ed è difficile immaginare che la controparte possa addivenire ad un accordo conciliativo indipendentemente dall'espletamento di un accertamento tecnico, che, dunque, in ogni caso dovrà essere effettuato: sembra dunque da credere che, in un caso come quello considerato, la scelta dell'accertamento tecnico preventivo diretto alla conciliazione della lite sia senz'altro preferibile, quale alternativa al procedimento di mediazione, orientativamente destinato a rivelarsi inutile.

Il ricorso per accertamento tecnico preventivo ai fini della conciliazione della lite deve contenere gli elementi previsti dall'art. 125 c.p.c., che menziona l'ufficio giudiziario, le parti, l'oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni o l'istanza. Non è tuttavia indispensabile indicare l'oggetto della futura domanda di merito, dal momento che il procedimento non riveste natura cautelare anticipatoria, ma appunto conciliativa.

Quando la domanda giudiziale sia stata proposta senza farla precedere dalla consulenza tecnica preventiva o dalla mediazione obbligatoria, il giudice, su eccezione del convenuto o a seguito di rilievo d'ufficio non oltre la prima udienza, dispone che si dia ingresso, o se del caso si prosegua, il procedimento di consulenza conciliativa.

L'alternativa tra mediazione e consulenza tecnica preventiva

Sia la consulenza tecnica preventiva che la mediazione perseguono lo stesso scopo, ossia la definizione conciliativa della lite, con conseguente effetto deflattivo sul contenzioso civile. L'efficacia della conciliazione raggiunta in sede di mediazione è sostanzialmente sovrapponibile a quella dell'accordo raggiunto sulla base della consulenza tecnica preventiva: entrambi gli accordi sono riconducibili sul terreno negoziale alla disciplina dell'art. 1372 c.c., e su quello esecutivo, esecutivo alla previsione dell'art. 474, comma 2, n. 1, e comma 3, c.p.c.

Non mancano però rilevanti diversità tra i due istituti relative, non solo in ragione non sovrapponibilità dell'attività svolta dal mediatore e dal consulente tecnico, ma soprattutto in considerazione del rilievo istruttorio che detta attività assume, dal momento che la relazione tecnica redatta dal consulente nominato dal giudice va fisiologicamente a far parte del corredo istruttorio della causa di merito, mentre le risultanze dell'attività svolta nel procedimento di mediazione può al più costituire prova atipica rimessa al prudente apprezzamento del giudice (Trib. Roma 17 marzo 2014). In tale prospettiva non sembra possano negarsi, in generale, i vantaggi del procedimento di consulenza tecnica preventiva volta alla composizione della lite, rispetto alla mediazione, che ha invece il suo punto forte nella garanzia di riservatezza, oltreché nell'approccio compositivo che è proprio dell'attività di mediazione: conclusione che, come si è detto poc'anzi, sembra particolarmente fondata con riguardo all'ipotesi dell'omessa diagnosi di malformazione fetale.

Competenza per territorio

La legge Gelli Bianco ha inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nell'ambito della responsabilità contrattuale, il che va considerato ai fini dell'individuazione del giudice presso cui si radica la competenza territoriale per le cause in materia di responsabilità medica. Si rinvia alle considerazioni svolte nel caso: «La responsabilità della struttura sanitaria» (Parte I ; La responsabilità medica in generale).

Competenza per valore

È impensabile che la causa volta al risarcimento dei danni da omessa diagnosi di malformazione fetale possa essere ricompresa entro i limiti della competenza del giudice di pace.

Competente è senz'altro il tribunale quale giudice di primo grado.

Rito applicabile

La domanda di risarcimento del danno per responsabilità medica può essere proposta con atto di citazione, nelle forme del procedimento ordinario di cognizione, ovvero con ricorso nelle forme del procedimento semplificato di cognizione, previsto dagli artt. 281- decies ss., introdotti dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149.

La scelta è libera, però, solo se si avvia la mediazione e questa non conduce alla soluzione della lite. L'esperimento del procedimento di mediazione non è dunque idoneo a sottrarre dette cause dall'ambito di applicabilità del procedimento ordinario di cognizione: il giudizio di merito potrà perciò essere introdotto, senza limiti temporali, nelle forme di cui agli artt. 163 ss. c.p.c.

Viceversa, se il danneggiato sceglie la strada della consulenza tecnica preventiva diretta alla composizione della lite, l'eventuale successivo giudizio risarcitorio deve essere necessariamente introdotto nelle forme del rito semplificato di cognizione.

Difatti, l'art. 8, comma 3, della legge Gelli-Bianco stabilisce che: «Ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all'articolo 281-undecies del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa l'udienza di comparizione delle parti; e procede con le forme del rito semplificato di cognizione a norma degli articoli 281-decies e seguenti».

Attesa l'abrogazione del procedimento sommario di cognizione e la sua sostituzione con il sovrapponibile procedimento semplificato di cognizione, è ad esso che oggi occorre fare riferimento.

Il giudice è dunque il medesimo che ha trattato il procedimento di consulenza tecnica preventiva, che deve fissare l'udienza di comparizione delle parti. La proposizione della domanda giudiziale deve avvenire entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi stabilito per la durata del procedimento. Solo in tal caso, secondo l'art. 8, citato, rimangono salvi gli effetti della domanda, e così anzitutto l'interruzione della prescrizione. Se l'instaurazione del giudizio di merito ha luogo in maniera errata, e cioè con citazione anziché con ricorso, gli effetti detti si producono con il deposito della citazione notificata, sempre che questo abbia luogo entro il termine previsto.

Una volta instaurato il processo, «ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito» (art. 696-bis, comma 5, c.p.c.).

Resta da dire che la previsione del rito semplificato di cognizione, ove il paziente abbia optato per la consulenza tecnica preventiva, non esclude l'applicazione del complesso delle regole che disciplinano tale rito: il che vuol dire, in altre parole, che nulla esclude la trasformazione del rito semplificato di cognizione in rito ordinario qualora il giudice lo ritenga ai sensi dell'art. 281-duodecies, comma 1, c.p.c.

Se si condivide quanto detto in precedenza, in ordine alla scelta tra mediazione e consulenza conciliativa, e si opta per quest'ultimo procedimento conciliativo, non resta dunque che la strada del ricorso al procedimento semplificato, fermo restando il potere del giudice, ove ritenga sussistenti i relativi presupposti, di disporre la trasformazione del rito semplificato in rito ordinario di cognizione.

Legittimazione attiva e passiva

Il paziente che si assume danneggiato, ovvero i suoi congiunti in caso di morte, può agire in via risarcitoria:

; nei confronti della struttura sanitaria che, «nell'adempimento della propria obbligazione», si sia avvalsa «dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa», la quale «risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte dolose o colpose» (art. 7, comma 1, legge Gelli-Bianco); ciò anche in caso di «prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina» (art. 7, comma 2, legge Gelli-Bianco);

; nei confronti dell'«esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2», il quale «risponde del proprio operato ai sensi dell'art. 2043 del codice civile» (art. 7, comma 3, legge Gelli-Bianco);

; nei confronti dello stesso esercente nell'ipotesi in cui «abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente» (art. 7, comma 3, legge Gelli-Bianco);

; nei confronti dell'impresa di assicurazione della struttura ovvero dell'esercente, «entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione» (art. 12, comma 1, legge Gelli-Bianco).

Nel giudizio così introdotto possono innestarsi:

; il giudizio di rivalsa dell'impresa di assicurazione contro l'esercente la professione sanitaria in caso di dolo o colpa grave (art. 9, comma 1, legge Gelli-Bianco);

; il giudizio di responsabilità amministrativa, per dolo o colpa grave, nei confronti dell'esercente la professione sanitaria, da parte del pubblico ministero presso la Corte dei conti in caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica (art. 9, comma 5, legge Gelli-Bianco);

; il giudizio di regresso promosso dal Fondo di garanzia nei confronti del responsabile (art. 14, legge Gelli-Bianco).

Nel caso «Chi sono i soggetti protetti dal contratto», si è esaminato il tema della legittimazione attiva, accanto alla gestante-puerpera, del padre e del neonato: è proprio questo il caso in cui detta speciale legittimazione può ricorrere, potendo determinati soggetti agire in giudizio per il risarcimento del danno ad essi cagionato dall'omessa diagnosi di malformazione fetale.

Contenuto dell'atto introduttivo

La collocazione della responsabilità della struttura sanitaria dal versante contrattuale sposta il fuoco degli oneri gravanti sull'attore dal campo probatorio a quello assertivo. L'attore deve provare l'esistenza del contratto, il che è agevole, giacché il contratto si perfeziona per fatti concludenti per il fatto stesso dell'ingresso del paziente nella struttura sanitaria, e deve dedurre l'inadempimento. Sì avuto modo di ripetere che la giurisprudenza richiede la deduzione di una «inadempimento qualificato», si è sottolineata l'importanza di tale prescrizione, la quale va con particolare attenzione osservata anche nel caso in esame, in cui, in genere, le problematiche concernenti l'apprezzamento dell'inadempimento risultano alquanto complesse.

4. Conclusioni

La giurisprudenza concernente l'omessa diagnosi di malformazione fetale ha ormai raggiunto un assetto ben delineato, a seguito di una pronuncia delle Sezioni Unite del 2015, la quale ha precisato, per un verso, che il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza, e per altro verso escluso la legittimazione del disabile ad agire in conseguenza dell'errata diagnosi, negando che egli sia portatore di un danno-conseguenza dell'inadempimento del medico.

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