Escavazioni nel sottosuolo dell'edificio da parte del singolo condomino1. Bussole di inquadramentoSuolo e sottosuolo dell'edificio Il suolo indicato dall'art. 1117 c.c. corrisponde alla superficie, in estensione e profondità, su cui poggia l'edificio in condominio e ne è interessata dalle sollecitazioni dei relativi carichi. In particolare, il suolo su cui sorge l'edificio è unicamente quello occupato e circondato dalle fondamenta e dai muri perimetrali del fabbricato stesso, ossia, in contrapposto al “sottosuolo”, l'area, delimitata nelle sue dimensioni di lunghezza e larghezza, sulla quale poggia il pavimento del pianterreno ed insiste, sviluppandosi in altezza, la parte fuori terra dell'edificio. Secondo i giudici, negli edifici in condominio, per “suolo su cui sorge l'edificio”, deve intendersi la porzione di terreno su cui viene ad insistere l'intero fabbricato e, immediatamente, la parte inferiore di esso, conseguendone che i condomini sono comproprietari – non della superficie al livello di campagna che, a causa dello sbancamento e della costruzione del fabbricato, più non esiste, bensì – della superficie del terreno sulla quale posano le fondamenta (Cass. II, n. 8346/1998). L'esatta identificazione del suolo porta con sé anche l'individuazione del sottosuolo, il quale è sottoposto alla medesima disciplina del primo. In particolare, tale individuazione trova il suo compimento nella disciplina di cui all'art. 840 c.c., dove si rinvengono le seguenti regole: la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino; il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle. In base a tale impostazione, da un punto di vista più concreto, può affermarsi che la porzione di terreno posta al di sotto del piano dove poggiano le fondamenta deve (allo stesso modo) presumersi appartenente in comproprietà a tutti i condomini e non, invece, in proprietà esclusiva del titolare del locale ad essa direttamente sovrastante. In tale prospettiva, si afferma che, per il combinato disposto degli artt. 840 e 1117 c.c., lo spazio sottostante al suolo su cui sorge un edificio in condominio, in mancanza di titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, deve considerarsi di proprietà comune, indipendentemente dalla sua destinazione (Cass. II, n. 2295/1996). In sintesi, per suolo si intende superficie su cui insiste immediatamente la parte infima dello stabile, ossia l'area, delimitata orizzontalmente dalle proiezioni delle mura perimetrali, sulla quale poggia il pavimento del piano più basso; per sottosuolo, invece, occorre fare riferimento alle fondamenta, che sono gli spazi sottostanti il suolo di proprietà condominiale, salvo specifici locali, come ad esempio le cantine o le taverne che possono essere di individuale proprietà. Il sottosuolo ha la destinazione di essere il sostegno del palazzo, onde consentirne o migliorarne la stabilità. Le innovazioni vietate L'attuale comma 4 dell'art. 1120 c.c. specifica, in materia di condominio, che sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano taluni parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino. Il Legislatore, in tal modo, ha posto dei limiti ben precisi alle decisioni dell'assemblea, anche se adottate con i quorum elevati di cui al comma 5 dell'art. 1136 c.c., intendendo così salvaguardare i diritti della collettività e dei singoli partecipanti del condominio da eventuali abusi della maggioranza. Il primo dei tre limiti richiamati dal comma 4 dell'art. 1120 c.c., ossia il pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza, assume carattere assoluto, nel senso che non può essere derogato nemmeno con il consenso della totalità dei condomini. In questa ipotesi, infatti, non si tratta tanto di tutelare l'aspetto estetico del fabbricato (decoro architettonico), né di garantire ad ogni condomino il diritto di utilizzare le parti comuni dell'edificio (inservibilità all'uso o al godimento), quanto piuttosto di salvaguardare l'esistenza stessa dello stabile, con valutazione da effettuarsi ex ante – se le innovazioni “possano” arrecare pregiudizio – non avendo rilevanza gli eventuali danni verificatisi ex post a causa della cattiva esecuzione dei lavori, né l'eventuale difformità dalla concessione edilizia. Per il concetto di “stabilità”, si richiamano le caratteristiche statiche dell'edificio ogni qual volta la modifica profili un attuale, serio o probabile pericolo di indebolimento delle strutture portanti o, addirittura, di crollo di tutto o parte del fabbricato (si tratta soprattutto di valutazioni di natura tecnica, da rapportarsi anche alle condizioni dello stabile in cui l'opera è eseguita), nonché un rischio per l'incolumità degli abitanti e dei terzi estranei (si pensi ai lavori di escavazione nel sottosuolo che interessino le fondamenta o i muri maestri, salva l'adozione di idonei accorgimenti tecnici, oppure alla trasformazione di terrazzi in locali chiusi). Il secondo dei limiti imposti alla realizzazione delle innovazioni nell'àmbito condominiale dal comma 4 dell'art. 1120 c.c., ossia il divieto di alterazione del decoro architettonico, il Legislatore ha inteso salvaguardare un bene comune, privo di consistenza materiale, ma pur sempre economicamente quantificabile, se si pensa al correlativo deprezzamento del valore commerciale delle proprietà sia comuni che individuali. Infine, l'ultimo limite contemplato dal comma 4 dell'art. 1120 c.c., riguarda quelle innovazioni che possano portare all'inservibilità anche di un solo condomino: in tal senso, l'assemblea non può disporre dei diritti dei condomini, determinare la sostituzione nella titolarità, il trasferimento o l'estinzione dei diritti, o deliberare le nuove opere che comportano l'impedimento nell'esercizio, nel senso di sottrazione della res o di impossibilità assoluta di utilizzo delle cose comuni. 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
Le escavazioni nel sottosuolo da parte del singolo condomino, senza autorizzazione condominiale, costituiscono innovazione vietata e concretano uno spoglio tutelabile?
Il sottosuolo condominiale nella relazione tra gli artt. 1117 c.c. e 840 c.c. In tema di condominio, per beni comuni, ai sensi dell'art. 1117 c.c., si intendono gli spazi ad uso comune facenti parte di un edificio in condominio, tra cui il lastrico solare, il tetto, il suolo, le scale, i portoni, gli androni, i muri perimetrali, i cortili ed in generale tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune. Per sottrarre tali beni alla comproprietà dei condomini e dimostrarne l'appartenenza esclusiva al titolare di una porzione esclusiva, è necessario un titolo contrario, contenuto non già nella compravendita o nella donazione delle singole unità immobiliari, bensì nell'atto costitutivo del condominio. Titolo idoneo a vincere la presunzione di condominialità ex art. 1117 c.c., infatti, è non l'atto di acquisto del singolo appartamento condominiale, quanto il negozio posto in essere da colui o da coloro che hanno costituito il condominio dell'edificio, in quanto tale negozio, rappresentando la fonte comune dei diritti dei condomini, ne determina l'estensione e le limitazioni reciproche (Trib. Palermo 6 agosto 2021). Premesso ciò, l'art. 1117 c.c. ricomprende fra le parti comuni del condominio il suolo su cui sorge l'edificio. Oggetto di proprietà comune, agli effetti del citato art. 1117 c.c., è, quindi, non solo la superficie a livello del piano di campagna, bensì tutta quella porzione del terreno su cui viene a poggiare l'intero fabbricato e dunque immediatamente pure la parte sottostante di esso. Il termine “suolo”, adoperato dal menzionato articolo, assume, invero, un significato diverso e più ampio di quello supposto dall'art. 840 c.c., dove esso indica soltanto la superficie esposta all'aria. Invero, l'art. 1117 c.c., letto sistematicamente con l'art. 840 c.c., implica che il sottosuolo, costituito dalla zona esistente in profondità al di sotto dell'area superficiaria che è alla base dell'edificio, va considerato di proprietà condominiale, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini (App. Genova 31 maggio 2021). Il singolo condomino non può procedere, senza il consenso degli altri condomini, all'escavazione in profondità nel sottosuolo La zona esistente in profondità al di sotto dell'area superficiaria che è alla base dell'edificio, in mancanza di un titolo che ne attribuisca ad alcuno di essi la proprietà esclusiva, rientra per presunzione in quella comune tra i condomini. Nessuno di costoro, pertanto, può, senza il consenso degli altri, procedere all'escavazione del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell'orbita della sua disponibilità esclusiva, limiterebbe l'altrui uso e godimento ad essa pertinenti (Cass. VI, n. 29925/2019; Cass. II, n. 11667/2015; Trib. Roma 19 giugno 2012). Pertanto, il singolo condomino non può procedere, senza il consenso degli altri condomini, all'escavazione in profondità nel sottosuolo, atteso che detta opera costituisce “innovazione lesiva del diritto di comproprietà”, in quanto priva i condomini medesimi dell'uso e del godimento di una parte comune dell'edificio (Cass. II, n. 4965/2010: nella fattispecie, il condominio aveva fatto ricorso contro una condomina società di leasing e la sua utilizzatrice finanziaria che avevano eseguito un'escavazione nel sottosuolo dell'edificio, ricavando così un cospicuo ampliamento del locale scantinato; il Tribunale aveva condannato la condomina società di leasing e la sua utilizzatrice finanziaria a risarcire i danni al condominio, ma la Corte d'Appello aveva riformato la sentenza di primo grado; la Cassazione, confermando il provvedimento di primo grado, ha sostenuto che non era stata correttamente applicata dai giudici di secondo grado la normativa civilistica in tema di innovazioni dettata dall'art. 1120 c.c.). Dunque, ricorre l'ipotesi di innovazione lesiva del diritto degli altri condomini nell'escavazione da parte di uno o più di essi nel sottosuolo comune, allorché vengano realizzate opere che ne limitino l'uso ed il godimento da parte degli altri condomini (Cass. II, n. 2805/1981). Divieto di attrazione del bene comune nella disponibilità di un condomino Le limitazioni poste dall'art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento all'effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione, essendo, in ogni caso, vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell'orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini (Cass. II, n. n. 4372/2015). Quindi, in assenza di autorizzazione degli altri condomini, non si può procedere a scavi del sottosuolo al fine di ricavare nuovi locali o ingrandire quelli esistenti, dal momento che ciò comporta l'attrazione della cosa comune nella sfera della sua esclusiva disponibilità (Cass. II, n. 14807/2008). Legittimazione dell'amministratore di condominio a tutela delle parti comuni In tale circostanza, l'amministratore di condominio è legittimato ad agire, senza necessità di autorizzazione dell'assemblea, per conservare l'uso di un bene comune in conformità alla sua funzione e all'originaria destinazione, come nel caso di azione avverso l'escavazione del sottosuolo che, in assenza di titolo attributivo della proprietà esclusiva, è un bene comune in quanto ha la funzione di sostegno dell'edificio condominiale (Cass. II, n. 13761/2003; Cass. II, n. 13102/1997). L'escavazione nel sottosuolo legittima l'azione di reintegrazione dell'amministratore La condotta del condomino che, senza il consenso degli altri partecipanti, proceda a scavi in profondità del sottosuolo, acquisendone la proprietà – in particolare – finirebbe con l'attrarre la cosa comune nella sua disponibilità esclusiva ed è, quindi, configurabile, in una tale evenienza, uno spoglio denunciabile con azione di reintegrazione dall'amministratore condominiale, al fine di conseguire il recupero del godimento della cosa, illecitamente sottratto (Cass. II, n. 6154/2016). 3. Azioni processualiTutela stragiudiziale L'amministratore di condominio rende edotto il condomino, il quale sta eseguendo uno scavo abusivo nel sottosuolo, che quest'ultimo è un bene comune e che, laddove non provvederà a ripristinare lo status quo ante nel più breve tempo possibile, previa comunicazione ai condomini in sede assembleare, procederà con il loro consenso ad instaurare un giudizio per la reintegrazione nel possesso a seguito della condotta illecita perpetrata in danno di tutti i condomini, con possibile aggravio di costi e sanzioni in caso di ritardo nell'esecuzione del richiesto ordine giudiziale. Funzione e natura del giudizio L'azione di reintegrazione nel possesso ha la finalità di fare conseguire la disponibilità del bene nelle medesime condizioni in cui era esercitato il possesso prima dello spoglio, ragione per cui il risarcimento del danno subìto per effetto della privazione del possesso non può limitarsi ai pregiudizi derivanti dallo spoglio, dovendo essere considerata anche la lesione patrimoniale consistita nei costi sopportati per ripristinare il bene che, per effetto degli interventi compiuti nel frattempo dallo spogliatore, sia in condizioni tali da non consentire di godere del possesso secondo le modalità esercitate prima dello spoglio. Aspetti preliminari Mediazione La mediazione obbligatoria di cui all'art. 5, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 28/2010 non si applica nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all'art. 703, comma 3, c.p.c. Competenza Il Tribunale, ai sensi dell'art. 9 c.p.c., è il giudice competente per tutte le cause che non sono di competenza di altro giudice, e, in generale, per quelle di valore indeterminabile. Legittimazione L'amministratore del condominio è legittimato a proporre l'azione per la reintegrazione nel possesso del sottosuolo condominiale nei confronti del condomino autore dello spoglio. Profili di merito Onere della prova L'amministratore deve provare che il condomino, nei cui confronti è proposta l'azione per la reintegrazione nel possesso del bene condominiale, è l'autore dello spoglio, e che non è decorso un anno dal suo verificarsi, salvo che trattasi di spoglio clandestino nella cui eventualità, il medesimo termine decorre dalla sua scoperta. Contenuto del ricorso La domanda cautelare proposta per la reintegrazione del possesso assume la forma del ricorso, il quale, oltre a contenere le indicazioni di cui all'art. 125 c.p.c., deve altresì indicare il giudice dinanzi al quale l'azione è proposta; il nome, cognome, residenza e codice fiscale della parte ricorrente e del difensore, il quale deve anche indicare il numero di fax e l'indirizzo pec presso il quale intende ricevere le comunicazioni di cancelleria; il nome, cognome, codice fiscale, residenza, o domicilio o dimora della parte resistente; l'esposizione dettagliata dei fatti, al fine di fare comprendere al giudice l'esatta tipologia di spoglio ricorrente nella fattispecie, in relazione alla quale si agisce per la reintegrazione nel possesso, anche al fine di evitare l'insorgenza di danni gravi ed irreparabili alle strutture e fondamenta dell'edificio, quali pilastri e muri perimetrali. In particolare, nel ricorso, da un lato, vanno allegati i fatti oggetto d'indagine da parte del giudice, in forma chiara e circostanziata come peraltro esige la recente riforma del processo civile, e, dall'altro, va specificato in cosa consiste l'attività riguardante il dedotto spoglio, e se attuato in modo violento o clandestino, a tale fine, indicandone le relative circostanze sulla cui scorta verosimilmente il giudice adìto è chiamato ad ordinare la reintegrazione nel possesso del bene comune, nella fattispecie, costituito dal sottosuolo avente funzione e natura condominiale. Il ricorso, unitamente alla procura alla lite, va sottoscritto dalla parte ricorrente e dal proprio difensore, quest'ultimo anche per autentica della sottoscrizione del suo cliente. Richieste istruttorie L'amministratore di condominio, unitamente alla produzione di materiale fotografico, può chiedere l'assunzione di informatori in persona dei condomini dello stabile condominiale al fine di provare il fatto costituente l'attività di spoglio – riguardante anche le specifiche modalità in forza delle quali è intervenuto – compiuta dal condomino evocato in giudizio e, con esso, l'animus spoliandi, che giustificano l'accoglimento della richiesta giudiziale dell'ordine di reintegrazione nel possesso nei confronti del medesimo autore dello spoglio, atteso che spoliatus ante omnia restituendus. Lo stesso ricorrente deve allegare la natura condominiale dell'area interessata dall'azione di reintegrazione nel possesso producendo la relativa documentazione sulla cui scorta potere constatare de plano anche l'effettivo esercizio, con carattere di attualità, della signoria di fatto sul sottosuolo comune che si assume sovvertita dall'altrui comportamento di spoglio violento od occulto. 4. ConclusioniIl sottosuolo rientra nei beni comuni disciplinati dall'art. 1117 c.c. – che, elencandoli tassativamente, indica espressamente il suolo su cui sorge l'edificio, o quella porzione di terreno su cui insiste l'edificio, comprensiva, dunque, della parte sottostante comunemente definita come sottosuolo – ragione per cui, in assenza di consenso unanime dei condomini, non può darsi luogo all'esecuzione di scavi nel sottosuolo al fine di creare nuovi locali o di aumentare la cubatura quelli già esistenti, poiché tale operazione – attraendo la res comune nella disponibilità del singolo condomino – finirebbe per ledere il diritto di tutti gli altri comproprietari su una parte comune dell'edificio. Al riguardo, il termine “suolo”, adoperato dall'art. 1117 c.c., assume dunque un significato diverso e più ampio di quello supposto dall'art. 840 c.c., dove esso indica soltanto la superficie esposta all'aria. Conseguentemente, l'azione di reintegrazione del possesso persegue lo scopo di restituire il possesso della cosa a chi ne sia stato spogliato – nel contempo evitando con il ripristino dello status quo ante l'insorgenza di danni gravi ed irreparabili alle strutture e fondamenta comuni dell'edificio – e deve essere proposta a pena di decadenza – non soggetto alle cause di interruzione e sospensione – entro un anno dal compimento dello spoglio. È questo è il caso in cui il condomino senza il consenso degli altri partecipanti, proceda a scavi in profondità del sottosuolo, perché in questo modo acquisendone la proprietà, finisce con l'attrarre la cosa comune nell'ambito della sua disponibilità esclusiva, con la correlata lesione del diritto di proprietà degli altri partecipanti su una parte comune dell'edificio, privandoli dell'uso e del godimento ad essa pertinenti (Cass. VI, n. 29925/2019). In tale ottica, l'amministratore del condominio che agisce per la reintegra deve allora allegare il possesso giuridicamente tutelabile esercitato sulla res, l'avvenuto spoglio da parte del condomino evocato in giudizio e con esso l'animus spoliandi in capo a quest'ultimo. Ad colorandam possessionem, l'animus spoliandi può ritenersi insito nel fatto stesso di privare del godimento della cosa il possessore contro la sua volontà, indipendentemente dalla convinzione dell'agente di operare secondo diritto, atteso che la volontà contraria allo spoglio da parte del possessore può escludersi unicamente per effetto di circostanze incompatibili, l'onere della cui prova grava sul soggetto autore dello spoglio medesimo. Infine, va opportunamente precisato che, qualora il condomino, convenuto dall'amministratore per il rilascio di uno spazio di proprietà comune occupato sine titulo, agisca in via riconvenzionale per ottenere l'accertamento della proprietà esclusiva su tale bene, soltanto in questa ipotesi il contraddittorio va necessariamente esteso a tutti i condomini, incidendo la contro domanda sull'estensione dei diritti dei singoli. Pertanto, sempre con riferimento a tale ultima ipotesi, ove ciò non avvenga e la domanda riconvenzionale sia decisa solo nei confronti dell'amministratore, l'invalida costituzione del contraddittorio può, in difetto di giudicato espresso od implicito sul punto, essere eccepita per la prima volta o rilevata d'ufficio anche in sede di legittimità, con la conseguente rimessione degli atti al primo giudice, atteso che esula dai limiti della legittimazione passiva dell'amministratore una domanda volta ad ottenere l'accertamento, in capo ad un singolo, della proprietà esclusiva su di un bene altrimenti comune ex art. 1117 c.c., giacché tale domanda impone il litisconsorzio necessario di tutti i condomini (Cass. II, n. 22935/2020). |