Richiesta di riabilitazione (art. 683)

Veronica Manca

Inquadramento

Ai sensi dell'art. 683, comma 1 c.p.p. si ribadisce la regola generale della competenza del tribunale di sorveglianza a decidere sulla richiesta di riabilitazione da condanna pronunciata sia dal giudice ordinario sia dal giudice militare.

Formula

AL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI.... [1]

RICHIESTA DI RIABILITAZIONE

***

Proc. n.....

Provvedimento/i n.....

Il sottoscritto Avv..... del Foro di...., con studio in...., difensore di fiducia, come da nomina e procura speciale allegate [2], del Sig....., nato il...., a....,

PREMESSO

– che il Sig....., in data è stato condannato con sentenza n..... emessa dal.... di...., nel procedimento penale n..... R.G.N.R.;

– che sono trascorsi.... anni dal giorni in cui la pena principale è stata eseguita (oppure è stata sospesa o eseguita per....);

– che in tale periodo il Sig..... ha dato prove effettive e costanti di buona condotta come risulta da.... (qui: motivare in ordine alla buona condotta, con documentazione utile al sostegno della richiesta);

– che il Sig..... ha pagato tutte le spese di giustizia a suo carico ed ha adempiuto altresì alle obbligazioni civili derivanti dal reato da lui commesso, come risulta dalla documentazione allegata (qui: motivare oppure sostenere l'argomentazione dell'impossibilità di adempiere poiché....);

Tanto premesso, pertanto, il sottoscritto difensore

CHIEDE

ai sensi degli artt. 179 c.p. e 683 c.p.p., che al Sig..... venga concessa la riabilitazione con ogni conseguenza di legge.

Allega:

– la nomina difensiva con procura speciale;

–.... (la documentazione utile a sostegno della richiesta).

Con la massima osservanza,

Luogo e data....

Il richiedente....

per autentica

Firma Avv.....

[1]Ai sensi dell'art. 683, comma 1 c.p.p. si ribadisce la regola generale della competenza del tribunale di sorveglianza a decidere sulla richiesta di riabilitazione da condanna pronunciata sia dal giudice ordinario sia dal giudice militare.

[2]Possono essere anche apposte in calce al medesimo atto.

Commento

Premessa. La competenza

Ai sensi dell'art. 683, comma 1 c.p.p. si ribadisce la regola generale della competenza del tribunale di sorveglianza a decidere sulla richiesta di riabilitazione da condanna pronunciata sia dal giudice ordinario sia dal giudice militare (così, Cons. St. V, n. 386/2017, per cui la riabilitazione costituisce un beneficio che può essere concesso solo a seguito di una pronuncia del tribunale di sorveglianza). L'espressione “quando la legge non dispone altrimenti” si riferisce, invece, alle ipotesi eccezionali di riabilitazione previste a favore dei condannati minorenni, ex art. 24 r.d.l. n. 1404/1934, conv. in l. n. 835/1935, il quale stabilisce la competenza funzionale del tribunale dei minorenni e, dei condannati militari, per i quali è competente il tribunale militare di sorveglianza (così, Cass. I, n. 720/1993).

Anche nel vigore del nuovo codice di procedura penale vale, quindi, il principio secondo cui il giudice militare (ora tribunale militare di sorveglianza) è competente a decidere soltanto sulla richiesta di riabilitazione militare, consistente nell'estinzione delle pene militari accessorie e degli altri effetti penali militari; richiesta proposta da chi abbia già ottenuto, per lo stesso reato militare, la riabilitazione ordinaria, per la quale resta competente il tribunale di sorveglianza, a norma dell'art. 683 c.p.p.

La competenza a decidere sull'istanza di riabilitazione per i minorenni appartiene, invece, al tribunale di sorveglianza e non al tribunale dei minorenni, allorché il richiedente abbia superato, all'atto della domanda, il venticinquesimo anno di età, in quanto l'art. 3 d.P.R. n. 448/1988 rappresenta una norma di chiusura, non suscettibile di deroghe ed interpretazione analogica. Rimane ferma la competenza del tribunale di sorveglianza a provvedere sull'istanza di riabilitazione anche nel caso in cui sia stata pronunciata sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, essendo la pronuncia ex art. 444 c.p.p. equiparata a una sentenza di condanna (Cass. I, n. 31940/2008); contra: in tema di riabilitazione da sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti è competente il giudice dell'esecuzione e non il tribunale di sorveglianza, la cui competenza è stabilita dall'art. 683 c.p.p. solo con riguardo alla riabilitazione da precedenti “condanne”, mentre l'applicazione della pena su richiesta delle parti costituisce una pronuncia sui generis, che non può contenere dichiarazione di colpevolezza, né di condanna (Cass. I, n. 10028/2004). La competenza territoriale risulta determinata alla stregua della previsione di cui all'art. 677, comma 2 c.p.p., per cui si applica il principio di più agevole individuazione del “luogo di residenza o di domicilio” dell'interessato all'inizio del procedimento, idoneo a garantire una soluzione univoca anche in relazione ad ipotesi di riabilitazione totale e parziale.

Presupposti applicativi

Ai fini della decorrenza del termine di cui all'art. 179 c.p., occorre considerare il momento in cui risulta eseguita o si è in altro modo estinta la pena principale irrogata con la pronuncia per cui il beneficio è stato richiesto.

L'art. 179 c.p. richiede infatti due condizioni positive: il decorso di un determinato periodo di tempo dal giorno dell'esecuzione della pena principale ovvero dell'estinzione della stessa e l'aver dato prova effettiva e costante di buona condotta (v. Cons. St. V, n. 386/2017, per cui il beneficio della riabilitazione può essere richiesto solo a seguito di una pronuncia del tribunale di sorveglianza con cui si sia riscontrato che sia decorso il termine fissato dalla legge dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta). Sono due condizioni ontologicamente diverse ed indipendenti, avendo l'una natura temporale, l'altra natura comportamentale, sicché il comportamento sintomatico che il giudice deve prendere in considerazione a tali fini non ha limiti di tempo, salvo quello iniziale dato dalla esecuzione o estinzione della pena per cui si chiede la riabilitazione. Il termine di ammissibilità della domanda di riabilitazione, imposto ai recidivi ex art. 179, comma 2 c.p., non è applicabile se la recidiva non è stata dichiarata nella sentenza di condanna (v. Cass. I, n. 5643/1995).

In caso di condanna a pena condizionalmente sospesa, occorre fare riferimento al passaggio in giudicato della sentenza di condanna pronunciata ex art. 444 c.p.p. e non, invece, al termine stabilito per l'estinzione del reato; in caso di affidamento in prova al servizio sociale, il cui esito sia stato valutato positivamente dal tribunale di sorveglianza, si valuta il momento in cui la prova si è conclusa (e non il momento, successivo, in cui sia intervenuta la decisione del giudice. Allorché sia stata condonata la pena inflitta con la sentenza in relazione alla quale il condannato chiede di essere riabilitato, il termine ex art. 179, comma 2 c.p. decorre dall'entrata in vigore del decreto di clemenza; nel caso di condanna a pena detentiva congiunta a pena pecuniaria, il termine de quo decorre non solo dalla data di espiazione della pena detentiva, ma anche da quello di pagamento della pena pecuniaria, mentre, nel caso di condannato all'ergastolo, sottoposto a libertà vigilata in seguito a liberazione condizionale, dal giorno del provvedimento di concessione della liberazione condizionale (Cass. I, n. 4367/1996). Nel caso di soggetto sottoposto a misura di sicurezza, agli effetti della riabilitazione, il termine per la proposizione della domanda decorre dalla data della revoca della misura di sicurezza soltanto quando si tratti di internamento di delinquenti abituali, professionali o per tendenza in colonia agricola o casa di cura, mentre in tutti gli altri casi va considerato, quale dies a quo, la data di espiazione o estinzione della pena o delle pene principali (Cass. II, ord. n. 3109/1971).

Per quanto concerne il presupposto della “buona condotta”, il giudice deve valutare solamente gli elementi e le circostanze che abbiano un significato univoco di recupero del condannato e un corretto, anche se non esemplare, stile di vita, non potendosi per contro attribuire ad un singolo episodio di inottemperanza – che non sia espressivo di generale condotta di vita – un valore sintomatico di non completamento dell'ammenda (in applicazione di tale principio, la Suprema Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la decisione con la quale il tribunale di sorveglianza aveva respinto l'istanza di riabilitazione, avendo espresso una valutazione negativa sull'unico episodio di ingiurie, senza valutare il contesto dello stesso e il generale modello di vita seguito dall'istante. La semplice esistenza di una o più denunce o la sola pendenza di un procedimento penale a carico dell'istante non è idoneo ad integrare il diniego della misura. È necessario, invece, che il giudice di merito conduca una approfondita indagine sui fatti che ne sono posti a fondamento, esplicitando adeguatamente, nell'ipotesi di reiezione dell'istanza, gli specifici elementi da cui è tratto il giudizio, il quale deve essere basato su un ragionamento esaustivo ed immune da fratture circa l'assenza del ravvedimento del riabilitando. Si esclude, inoltre, che il giudice possa rigettare l'istanza unicamente in base alle “informazioni di polizia”, senza indicarne il contenuto e omettendo ogni vaglio critico delle medesime, sia in merito alla loro attendibilità, sia in rapporto al loro valore sintomatico ai fini della negazione del requisito della buona condotta.

In relazione all'adempimento delle “obbligazioni civili” nascenti dal reato, si ritiene che tale condizione debba essere valutata, non soltanto alla stregua della sola disciplina civilistica, ma anche come dato significativo del ravvedimento del reo. Nell'ambito delle obbligazioni civili derivanti dal reato rientra il pagamento delle spese di giustizia, il cui inadempimento è sintomatico – salvo sia stata ottenuta la remissione del debito – dell'assenza del requisito della buona condotta (v. Cass. I, n. 3372/2000).

Per potersi valutare il mancato risarcimento dei danni a favore della parte offesa occorre accertare se il debito sia liquido ed esigibile, se vi sia stata quantificazione di esso da parte del creditore, se, in sintesi, l'inadempimento sia stato volontario o non già, per qualsiasi ragione, necessitato (dalla constatata povertà del debitore, dalla inesistenza di richieste risarcitorie da parte del creditore, dalla impossibilità di quantificare il danno nel silenzio della sentenza o da altri elementi capaci di incidere sulla volontarietà dell'inadempimento in questione; così, Cass. I, n. 80/1992), ovvero giustificato dall'eventuale espressa rinuncia del creditore (Cass. I, n. 2477/1993), non potendo valere la mera inattività della persona offesa (Cass. I, n. 23343/2015).

L'impossibilità di adempiere le obbligazioni civili derivanti dal reato, la cui prova grava sul condannato, non costituisce ostacolo alla concessione della riabilitazione medesima non solo in ipotesi di impossidenza economica, ma anche in presenza di situazioni di fatto che impediscano l'adempimento (Cass. I, n. 4089/2010).

Si ritiene, quindi, che l'impossibilità di adempiere non debba essere intesa in senso restrittivo, ma debba essere esaminata anche con riguardo a situazioni quali la “rinuncia” del danneggiato, oppure l'irreperibilità del medesimo o l'impossibilità di accertarne l'identità.

Con recente pronuncia, la Cassazione ha ribadito il principio secondo cui la concessione della riabilitazione è subordinata alla dimostrazione del ravvedimento del richiedente, desumibile dai comportamenti regolari tenuti nel periodo minimo previsto dalla legge e sino alla data della decisione sull'istanza, e dalla sua attivazione per l'eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli, derivate dalla condotta criminosa, condizione pretesa dalla norma di cui all'art. 179 c.p., anche nei casi in cui nel procedimento di cognizione sia mancata la costituzione di parte civile e quindi non sia stata resa alcuna statuizione sulle obbligazioni civili, scaturenti dall'illecito penale. Mentre il totale silenzio sulla condotta risulta insufficiente a fornire prove effettive e costanti di buona condotta, qualsiasi nota negativa di comportamento costituisce prova esattamente contraria a quella richiesta dal legislatore per concedere una patente di buona condotta atta, addirittura, a cancellare gli effetti penali di precedenti condanne (Cass. I, n. 13665/2022).

Profili processuali

Il provvedimento di riabilitazione può essere adottato solo su espressa istanza dell'interessato, alla cui esistenza è subordinata anche l'attivazione istruttoria ex officio, previste dal comma 2 della norma in commento. Si esclude la legittimazione attiva dell'erede del condannato. È configurabile invece l'interesse ad ottenere la riabilitazione da parte del condannato in relazione a pena oggetto di patteggiamento anche se applicata per reato del quale sia stata dichiarata l'estinzione a norma dell'art. 445, comma 2 c.p.p.; così anche in caso di istanza presentata in relazione ad una pena irrogata con decreto penale di condanna per reato per il quale sia stata dichiarata l'estinzione a norma dell'art. 460, comma 5 c.p.p. (Cass. I, n. 253182/2002); contra: la riabilitazione non opera quando la pena sia stata applicata a seguito di sentenza di patteggiamento perché l'eliminazione di ogni effetto penale, che ad essa consegue, è in tutto equivalente a quella conseguente all'estinzione del reato nel termine di legge in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti.

È altresì ammissibile l'istanza di riabilitazione limitata ad alcune sentenze di condanna per le quali sia già maturato il termine previsto dall'art. 179 c.p., mentre la presenza di ulteriori condanne per fatti posteriori va esaminata dal giudice competente solo ai fini della valutazione di merito del requisito della buona condotta (Cass. I, n. 21348/2005). In questo caso, per determinare la decorrenza del termine di cui all'art. 179 c.p., occorre fare riferimento al momento in cui risulti eseguita o si sia in altro modo estinta la pena principale portata dalla sentenza per cui la riabilitazione è stata chiesta (Cass. V, n. 316/1997).

Nel caso in cui intervenga una abolitio criminis – nella specie depenalizzazione – deve essere applicata la disposizione dell'art. 673 c.p.p. (revoca della sentenza per abolizione del reato) e non la riabilitazione (così, Cass. III, n. 441/1995). Nel diverso caso di semplice “dequalificazione” dell'illecito penale ad ipotesi contravvenzionale, rimane ferma la sentenza di condanna pronunciata nel vigore della precedente disciplina e persiste, di conseguenza, anche l'interesse del condannato ad ottenere la riabilitazione (Cass. I, n. 4721/1995).

Sul piano formale, il provvedimento che dispone la riabilitazione è costituito da un'ordinanza (e non da una sentenza), in ragione del disposto di cui all'art. 666 c.p.p. che regola il procedimento ordinario per la giurisdizione esecutiva. In senso contrario, si esprime la dottrina per cui tale conclusione sarebbe contrastante con il diverso principio di cui all'art. 180 c.p., il quale, nel dettare le condizioni di revoca del beneficio, indica esplicitamente la “sentenza” come atto giurisdizionale richiesto.

L'ordinanza che concede la riabilitazione ha carattere costitutivo ed opera ex nunc. Il rimedio esperibile è l'opposizione al tribunale di sorveglianza che ha emesso la decisione, sia in caso di declaratoria di inammissibilità (v. Cass. I, n. 13342/2015), sia in caso di rigetto nel merito della domanda (Cass. I, n. 7884/2015). Se la richiesta viene rigettata per mancanza del requisito della buona condotta è stabilito (al comma 3) un termine di due anni, decorrente dal giorno in cui è divenuto irrevocabile il provvedimento, per la proposizione di una nuova richiesta. È inammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso un'ordinanza della Suprema Corte che abbia dichiarato l'inammissibilità di un ricorso proposto contro un provvedimento di rigetto di istanza di riabilitazione, atteso che la disposizione di cui all'art. 625-bis c.p.p. che ha carattere tassativo e non è suscettibile di interpretazione analogica, circoscrive l'esperibilità del gravame.

Circa la motivazione del provvedimento concessivo, si ritiene “meramente apparente” quella rappresentata dall'impiego, in un modulo a stampa, della locuzione “risulta che il condannato ha dato prova effettiva e costante di buona condotta”, senza alcuna specificazione in ordine alla natura e al contenuto dei comportamenti tenuti dall'istante e senza alcuna integrazione e personalizzazione. Del pari risulta viziata la decisione che abbia rigettato la domanda di riabilitazione, ritenendo insussistente il ravvedimento dell'interessato sulla base dell'omesso adempimento dell'ordine di demolizione contenuto nella sentenza di condanna e del mancato conseguimento della sanatoria dell'opera abusiva, considerati alla luce della pendenza di un procedimento penale, ove il giudice non abbia concretamente valutato quegli elementi in vista della qualificazione del comportamento dell'istante e dell'accertamento della prova di buona condotta.

In ragione dell'art. 1, comma 1, lett. b) e c), del d.l. n. 146 del 2013, conv., con modif., in l. n. 10 del 2014, in modifica dell'art. 678 c.p.p., i procedimenti in materia di riabilitazione sono trattati con la procedura camerale semplificata di cui all'art. 667, comma 4 c.p.p., a recepimento di alcune prassi acceleratorie già invalse in alcuni tribunali di sorveglianza, orientate alla definizione de plano di tali procedimenti.

Sul piano degli effetti, la cancellazione della condanna per la quale è intervenuta la riabilitazione comporta importanti ricadute sul piano pratico: impedisce che il giudice tenga conto, ai fini dell'aggravamento di pena per la recidiva, della condanna oggetto della riabilitazione (Cass. V, n. 544/1970); determina la non menzione di una eventuale nuova condanna nel certificato del casellario giudiziale (Cass. I, n. 7552/2000), ma non consente, invece, di ottenere la cancellazione dell'iscrizione della sentenza dal casellario giudiziale (Cass. III, n. 35078/2003). L'intervenuta riabilitazione opera unicamente con riferimento al titolo per il quale è stata concessa (v. Cass., VI, n. 9116/1998). L'estinzione del reato per effetto della sopravvenuta riabilitazione non comporta in sede esecutiva la revoca della confisca disposta dal giudice della cognizione con la sentenza definitiva che fa stato nei confronti dei soggetti che hanno partecipato al processo, essendo riservata solo ai terzi la legittimazione a rivolgersi al giudice dell'esecuzione per far valere i diritti vantati sul bene confiscato attraverso l'istituto della revoca (v. Cass. I, n. 18222/2007). Non rientra tra le ipotesi di revoca ex art. 180 c.p. quella di pena dell'entità indicata inflitta per un reato continuato, perché la continuazione determina una unificazione ai soli fini della pena, mantenendo i singoli reati la propria individualità. Occorre, quindi, per la revoca della riabilitazione, che, almeno per un delitto non colposo sia inflitta una pena pari o superiore a tre anni.

Il relativo procedimento, attivabile anche di ufficio, è di competenza del tribunale di sorveglianza, individuato in base alle regole stabilite dall'art. 677 c.p.p., che è investito in via sussidiaria, qualora la revoca non sia stata disposta con la sentenza di condanna.

A differenza del provvedimento di riabilitazione, avente carattere costitutivo in quanto ricollega la pronunzia all'osservanza di alcune condizioni indicate dalla legge e richiede una valutazione discrezionale del giudice, ed opera di conseguenza ex nunc con la produzione dei propri effetti dal momento in cui il provvedimento diviene irrevocabile, il provvedimento col quale viene disposta la revoca della sentenza di riabilitazione ha invece natura dichiarativa e produce in conseguenza i propri effetti ex tunc in quanto retroagisce al momento in cui le predette condizioni si sono verificate.

Recente modifica sul piano sostanziale ad opera della legge n. 3/2019 (cd. “Spazza-corrotti”).

Per effetto della legge n. 3/2019, entrata in vigore il 31 gennaio 2019, si modifica la disciplina sostanziale della riabilitazione, precisando come la stessa non ha efficacia sulle pene accessorie (v., art. 179 c.p.: La riabilitazione concessa a norma dei commi precedenti non produce effetti sulle pene accessorie perpetue. Decorso un termine non inferiore a sette anni dalla riabilitazione, la pena accessoria perpetua è dichiarata estinta, quando il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta”. Anche se la riforma riguarda nello specifico i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, l'inciso fa pensare ad una valenza generale della normativa di sfavore. Si attribuisce inoltre la competenza a provvedere la declaratoria di estinzione al tribunale di sorveglianza (v. art. 179, comma 7 c.p.); stessa dinamica anche per la revoca della riabilitazione.

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