Richiesta istruttoria (audizione di un collaboratore di giustizia) (art. 7, d.lgs. n. 159/2011)InquadramentoIl sindacato del Giudice della prevenzione in sede di valutazione delle prove incontra due limiti precisi: per un verso, il citato giudizio deve essere fondato su indizi (cioè su elementi certi, dai quali possa legittimamente farsi discendere l'affermazione dell'appartenenza alle categorie normativamente previste e, quindi, dell'esistenza della pericolosità, sulla base di un ragionamento immune da vizi logici) e, per altro verso, i detti indizi non devono essere necessariamente gravi, precisi e concordanti come invece nel processo penale. Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente escluso che gli indizi dai quali desumere la pericolosità sociale, presupposto indispensabile per l'applicazione di una misura di prevenzione personale, debbano avere i requisiti richiesti dall'art. 192, comma 2, c.p.p. Tra procedimento penale e procedimento di prevenzione sussistono, quindi, profonde differenze funzionali e strutturali, essendo il primo ricollegato all'accertamento di un determinato fatto-reato e il secondo al contrario riferito a una valutazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato. Da ciò discende anche l'affermazione secondo la quale è inapplicabile il principio del divieto di bis in idem tra procedimento penale e di prevenzione poiché il presupposto per l'applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, mentre il presupposto tipico per l'applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale. Come anticipato, da tale autonomia deriva che nel procedimento di prevenzione la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall'art. 192 c.p.p., mentre le chiamate in correità o in reità - le quali devono essere sorrette da riscontri esterni individualizzanti per giustificare la condanna - non devono essere necessariamente munite di tale carattere ai fini dell'accertamento della pericolosità. La novella intervenuta con l. n. 161/2017 segna, invece, un sempre maggiore allineamento del giudizio di prevenzione al processo penale dibattimentale. Infatti, oltre all'inserimento, nell'art. 7, comma 8, del d.lgs. n. 159/2011 dell'inciso che consente al tribunale di “sentire soggetti informati su fatti rilevanti per il procedimento”, molto importante appare l'introduzione del comma 4-bis nell'ambito dell'art. 7, a norma del quale “il tribunale, dopo l'accertamento della regolare costituzione delle parti, ammette le prove rilevanti, escludendo quelle vietate dalla legge o superflue”. FormulaAL SIG. PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI ... Richiesta di audizione di un testimone Il sottoscritto Avvocato ..., difensore di fiducia/di ufficio di ... nato a ..., proposto per l'applicazione di misure di prevenzione personali/patrimoniali in forza nell'ambito del proc. n. ... RGMP; rilevato che è stata fissata udienza per la trattazione della citata proposta e che l'avviso è stato comunicato all'istante in data ...; letto l'art. 7, d.lgs. n. 159/2011; CHIEDE alla S.V. di sentire come teste il Sig. ... nato a ... il ... e residente in ..., essendo autorizzato a citarlo per l'udienza del .... La sua audizione in contraddittorio si presenta come rilevante ai fini della decisione sulla proposta indicata in epigrafe per le seguenti ragioni in fatto e in diritto: .... Detta prova, pertanto, non è né superflua né tanto meno vietata dalla legge. Con osservanza. Luogo e data ... Firma ... CommentoI principi generali Si è costantemente affermato in giurisprudenza che nel corso del giudizio di prevenzione il Giudice di merito, per esprimere il proprio giudizio circa la pericolosità ai fini dell'adozione di misure di prevenzione, è legittimato a servirsi di elementi di prova e/o indiziari tratti da procedimenti penali, anche se non ancora conclusi e, nel caso di procedimenti definiti con sentenza irrevocabile, anche indipendentemente dalla natura delle statuizioni terminali in ordine all'accertamento della penale responsabilità dell'indagato. Tale potestà incontra, però, due limiti precisi: per un verso, il giudizio deve essere fondato su indizi (cioè su elementi certi, dai quali possa legittimamente farsi discendere l'affermazione dell'appartenenza alle categorie normativamente previste e, quindi, dell'esistenza della pericolosità, sulla base di un ragionamento immune da vizi logici) e, per un altro verso, i detti indizi non devono essere necessariamente gravi, precisi e concordanti (in tema di associazione mafiosa, così Cass. I, n. 212/1991, Piromalli). Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente escluso che gli indizi dai quali desumere la pericolosità sociale, presupposto indispensabile per l'applicazione di una misura di prevenzione personale, debbano avere i requisiti richiesti dall'art. 192, comma 2, c.p.p. (tra le tante, Cass. I, n. 20160/2011; nello stesso, in precedenza, Cass. I, n. 5786/1999). Tra procedimento penale e procedimento di prevenzione sussistono, dunque, rilevanti differenze funzionali e strutturali, essendo il primo ricollegato all'accertamento di un determinato fatto-reato e il secondo al contrario riferito a una valutazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato; sicché, la reciproca autonomia dei due processi spiega gli interventi del legislatore per regolare “i punti di possibile interferenza tra le due sedi, abbandonando originarie sovrapposizioni e regole atipiche di pregiudizialità, per pervenire, da ultimo, alla configurazione di ambiti di totale autonomia; salva l'opportuna disposizione di coordinamento e di economia investigativa contenuta nell'art. 23-bis, commi 1 e 2, della l. n. 646/1982” (Corte cost., n. 275/1996). Da ciò deriva anche la tesi secondo la quale è inapplicabile il principio del divieto di bis in idem tra procedimento penale e di prevenzione poiché il presupposto per l'applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, mentre il presupposto tipico per l'applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale (Cass. VI, n. 44608/2015). Tale autonomia comporta che nel procedimento di prevenzione la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall'art. 192 c.p.p., mentre le chiamate in correità o in reità - le quali devono essere sorrette da riscontri esterni individualizzanti per giustificare la condanna - non devono essere necessariamente munite di tale carattere ai fini dell'accertamento della pericolosità. La citata autonomia della struttura e della finalità del processo si traduce in indipendenza nell'apprezzamento del materiale indiziario, per cui - secondo un orientamento ermeneutico più risalente - deve escludersi che sussista per il Giudice della prevenzione, in difetto di qualsiasi rapporto di pregiudizialità, l'obbligo di indicare nella motivazione del decreto applicativo della misura le ragioni della diversità di valutazione dei medesimi fatti esaminati nel processo penale. Peraltro, occorre sottolineare che secondo un altro filone seguito dalla giurisprudenza di legittimità già anteriormente al Codice Antimafia non possono considerarsi certi ai fini dell'irrogazione di una misura di prevenzione indizi che siano già stati radicalmente smentiti in sede penale, poiché il Giudice della prevenzione non può prescindere dal considerare gli eventuali accertamenti emersi in sede penale, pur avendo il potere di valutare autonomamente la valenza di un indizio nel quadro ricostruttivo della pericolosità sociale (così Cass. I, n. 924/1995, Guzzino). Ne consegue che l'assoluzione in sede penale, pur se irrevocabile, non comporta l'automatica esclusione della pericolosità sociale del proposto, qualora la valutazione della pericolosità “sia stata effettuata in base ad elementi distinti, anche se desumibili dai medesimi fatti storici venuti in rilievo nella sentenza di assoluzione” con possibilità di desumere l'appartenenza a una delle categorie di legge sia “dagli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità di illiceità, penale” sia da altri fatti, “acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio di prevenzione” (così Cass. S.U., n. 18/1996, Simonelli). Più precisamente, si è osservato che è necessario che gli indizi posti a base del giudizio personologico di prevenzione, quali circostanze oggettive di fatto, non siano quelli già ontologicamente smentiti in sede penale, giacché il Giudice della prevenzione - pur potendo diversamente apprezzare ai fini della pericolosità sociale la valenza di un indizio - tuttavia non può prescindere dal considerare gli eventuali accertamenti (positivi o negativi) emersi in sede penale e comunque non può ignorare l'esito dell'accertamento giurisdizionale penale (Cass. VI, n. 924/1995, Guzzino, cit.). Inoltre, il Giudice della prevenzione può utilizzare circostanze di fatto emergenti da procedimenti penali e in tal sede valutate come insufficienti al fine di fondarvi un giudizio di responsabilità penale, così prescindendo dalle conclusioni alle quali il Giudice penale è pervenuto; purché, a tali fini e in ordine a tali elementi, il Giudice della prevenzione abbia effettuato un puntuale esame critico, al fine di affermare l'esistenza sul piano della realtà di siffatte circostanze fattuali e di individuarne la diretta incidenza sul giudizio di pericolosità sociale. In tale ottica si è ritenuto che - anche in caso di proscioglimento pronunciato ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p., ossia quando la prova è ritenuta insufficiente o contraddittoria - a nulla rileva tale esito del giudizio penale allorquando dalle sentenze di proscioglimento in esame possano essere desunti e utilizzati, secondo la grammatica della prova (art. 192, comma 1, c.p.p.), elementi concreti, autonomamente apprezzabili dal Giudice della prevenzione e si dia conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. Quanto al tema del rilievo dimostrativo, nel contesto del procedimento di prevenzione, della chiamata di correo, va osservato che gli elementi che sostengono il convincimento del Giudice circa l'appartenenza di un soggetto a una delle categorie soggettive di cui agli artt. 1 e 4 possono essere costituiti da un complesso di acquisizioni probatorie le quali, ancorché inidonee a dar luogo a un giudizio di certezza ovvero di elevata probabilità dei fatti, consentano tuttavia di giustificare in termini di normale probabilità l'appartenenza suddetta. Pertanto, ove gli indizi derivino da una chiamata in correità, non è necessario che questa possegga i requisiti indicati dall'art. 192 c.p.p. in quanto, ove non sia ictu oculi inattendibile o smentita da elementi contrari, costituisce di per sé un elemento che, se pur incapace di fornire la prova della responsabilità penale del chiamato, è tuttavia idoneo a dimostrare in termini di probabilità il fatto a lui attribuito in sede di prevenzione. In giurisprudenza vi è chi valorizza i profili di separazione tra giudizio penale e prevenzionale, ammettendo applicazioni della misura di prevenzione personale/patrimoniale anche in ipotesi di assoluzione nel giudizio penale, e chi al contrario mira a ricondurre a coerenza il sistema e a dettare le condizioni affinché si debba escludere la misura di prevenzione innanzi a un verdetto assolutorio penale. In una prima direzione si segnala la decisione (Cass. VI, n. 8720/2013) che ha ribadito il principio per cui anche un rigetto della proposta della misura di prevenzione della confisca, ex art. 2-ter, l. n. 575/1965, per mancanza del requisito della pericolosità sociale del prevenuto non preclude l'applicabilità, nei confronti del medesimo bene e a seguito di un procedimento penale, della confisca ex art. 12-sexies, d.l. n. 306/1992 (si legge, comunque, in motivazione che la preclusione sussiste quando la decisione, emessa a seguito del processo di prevenzione, abbia escluso la disponibilità sostanziale del bene in luogo della formale intestazione e/o la sproporzione fra il patrimonio e le disponibilità finanziarie del proposto). In senso contrario si è, invece, osservato che è ammissibile l'affermazione della regola di autonomia, che si spinga a mantenere o applicare la misura di prevenzione nonostante l'assoluzione, purché si dia espressamente conto dei motivi che inducono a ritenere il soggetto socialmente pericoloso e pur a fronte della decisione penale che lo assolve dal delitto che ne qualifica il ruolo (cfr. Cass. VI, n. 6588/2013). Si è colà affermato: “in tema di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose, è illegittimo, per essere la motivazione meramente apparente, il decreto con cui il Giudice di appello confermi la misura della sorveglianza speciale nei confronti del proposto sulla scia di una sentenza di condanna di primo grado per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., senza tenere in conto alcuno la sentenza di assoluzione intervenuta in appello”. Particolarmente rilevante sul piano delle ricadute concrete l'affermazione della Suprema Corte secondo la quale allorché vi sia stata una condanna nel procedimento penale il Giudice della prevenzione potrà riferirsi a essa come a un “fatto” solo se passata in giudicato mentre, qualora non sia definitiva, egli non potrà limitarsi a richiamare la sentenza dovendo confrontarsi autonomamente con gli elementi probatori per verificare la sussistenza dei presupposti che legittimano l'applicazione della misura (Cass. V, n. 1831/2015). In un interessante arresto la suprema Corte ha evidenziato che il delineato principio di autonomia è ricollegabile alla diversa tipologia del giudizio espresso in sede di prevenzione (attualità della pericolosità soggettiva derivante dall'inquadramento del proposto in una delle categorie criminologiche previste dalla legge) rispetto al giudizio penale classico (accertamento della colpevolezza su una specifica contestazione di fatto costituente reato) per cui, in assenza di pregiudizialità (come ribadito dall'attuale art. 29, d.lgs. n. 159/2011), è consentito al Giudice della prevenzione utilizzare gli elementi di fatto accertati nell'ambito di un giudizio penale o anche discostarsi dall'esito di tale giudizio, lì dove i fatti emersi (e sottoposti ad autonoma valutazione) consentano in ogni caso l'inquadramento della persona in una delle categorie normative di riferimento (attualmente descritte dall'art. 1 e dall'art. 4 del d.lgs. n. 159/2011) tra cui, nel caso in esame, rileva la previsione che facoltizza l'applicazione della misura nei confronti dei soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di cui all'art. 416-bis c.p. La conseguenza di tale principio è che una valutazione effettiva dei fatti emersi nell'ambito del procedimento penale, sia pure presi in considerazione a fine parzialmente diverso, vi debba necessariamente essere; infatti, anche il giudizio di prevenzione, lungi dal consistere in una mera valutazione di pericolosità soggettiva (c.d. parte prognostica del giudizio) si alimenta in primis dall'apprezzamento di fatti storicamente apprezzabili e costituenti a loro volta indicatori della possibilità di iscrivere il soggetto proposto in una delle categorie criminologiche previste dalla legge (c.d. parte constatativa del giudizio). Il soggetto coinvolto in un procedimento di prevenzione, in altre parole, non viene ritenuto colpevole o non colpevole in ordine alla realizzazione di un fatto specifico, ma viene ritenuto pericoloso o non pericoloso in rapporto al suo precedente agire (per come ricostruito attraverso le diverse fonti di conoscenza) elevato a indice rivelatore della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell'ordine sociale costituzionale o dell'ordine economico e ciò in rapporto all'esistenza di precise disposizioni di legge che qualificano le categorie di pericolosità (sul punto, Cass. I, n. 7585/2014). Ciò deriva - secondo la Corte – “dalla fisionomia costituzionale assunta da tale versante della giurisdizione a seguito di numerose decisioni della Corte cost., tra cui va ricordata la sentenza n. 177/1980, con cui proprio in ragione della difficoltà dimostrativa dei generici presupposti di fatto venne cancellata la categoria criminologica dei “soggetti proclivi a delinquere: invero, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l'accertamento dei presupposti di fatto per la sua applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l'altro di serietà probatoria, non si può dubitare che anche nel processo di prevenzione la prognosi di pericolosità (demandata al Giudice e nella cui formulazione sono certamente presenti elementi di discrezionalità) non può che poggiare su presupposti di fatto previsti dalla legge e, perciò, passibili di accertamento giudiziale”. Viene, altresì, richiamata la fondamentale sentenza n. 23/1964, con cui la Corte cost. ebbe a dichiarare infondate le numerose questioni all'epoca sollevate dai giudici di merito sul testo della l. n. 1423/1956, sottolineando che: “...non è esatto che dette misure ... possano essere adottate sul fondamento di semplici sospetti; l'applicazione di quelle norme, invece, richiede una oggettiva valutazione di fatti, da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona... ”. Ora, se valutazione dei fatti deve necessariamente essere operata, è evidente che la stessa non possa essere integralmente demandata alla considerazione dell'esito di un procedimento penale, avendo il Giudice della prevenzione il preciso dovere di verificare il motivo del proscioglimento e le sue eventuali “ricadute” in tema di tenuta di un apparato argomentativo tale da sorreggere la parte constatativa del proprio giudizio. In altre parole, la “spia” rappresentata dall'intervenuto giudicato favorevole in sede penale e la circostanza che gli elementi fattuali ivi considerati siano stati richiamati quali presupposto in fatto del giudizio di pericolosità esigono, da parte del Giudice della misura di prevenzione, una motivazione rafforzata e realmente autonoma dei dati dimostrativi singolarmente intesi che avevano in precedenza sostenuto l'affermazione di penale responsabilità. Più di recente (Cass. VI, n. 921/2014) la Suprema Corte ha chiarito che, nel procedimento di applicazione delle misure di prevenzione personale nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, il Giudice può utilizzare le sentenze pronunciate nei confronti del proposto che sia stato assolto con la formula dell'insufficienza o contraddittorietà della prova, ma in tal caso la verifica dell'effettiva consistenza e sintomaticità degli indizi di appartenenza al sodalizio mafioso deve essere condotta sulle risultanze probatorie acquisite nel giudizio penale e sulle reali ragioni del convincimento di non colpevolezza espresso dai giudici di merito. Più recentemente (Cass. VI, n. 40552/2017) si è precisato che “in tema di procedimento di prevenzione, non è necessaria l'assunzione delle prove dichiarative in contraddittorio tra le parti, essendo sufficiente che al proposto sia consentito, mediante l'esame degli atti, la possibilità di piena conoscenza del loro contenuto ed il diritto di controdedurre”. (Fattispecie in cui la misura di prevenzione patrimoniale era stata adottata anche sulla base di sommarie informazioni, oltre che su prove dichiarative assunte nel corso del parallelo giudizio penale) (aggiornamento dell'11 gennaio 2023). Sul punto si è osservato che il legislatore del 2011 ha deliberatamente eluso ogni riferimento al termine “prova” o “indizio”, proprio per escludere - anche sul piano meramente lessicale - qualsivoglia aggancio ai canoni valutativi imposti per il procedimento ordinario, essendo sufficiente che l'elemento gnoseologico disponga dell'attitudine dimostrativa della sussistenza delle condizioni necessarie per l'apertura del procedimento di prevenzione. Ne consegue che lo spazio riservato alle parti risulta effettivamente piuttosto limitato, mentre quello assegnato al Giudice nella raccolta degli elementi istruttori si prospetta come indefinito, stante il tenore di espressioni come “il Giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno” (art. 666, comma 5, c.p.p.) e “ove necessario, (il tribunale) può procedere a ulteriori indagini” (art. 19, comma 5, decreto n. 159/2011), che legittima l'A.G. non tanto ad esercitare un potere suppletivo come potrebbe essere quello di cui all'art. 507 c.p.p., bensì gli attribuisce poteri e funzioni assolutamente penetranti in tema di ricerca della prova. Il tribunale ha certamente autonomi poteri istruttori: essi non sono tanto stabiliti dall'art. 7 del Codice Antimafia (ex art. 4 della l. del 1956) che fa riferimento soltanto all'interrogatorio dell'interessato, addirittura prevedendone l'accompagnamento, quanto dall'art. 666 del codice, che stabilisce al comma 5 che il Giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno e può assumere prove con il rispetto del contraddittorio. Anzi, sul punto si è efficacemente osservato che nel giudizio in esame la regola di cui all'art. 190 c.p.p. (secondo cui “le prove sono ammesse a richiesta di parte”) diventa l'eccezione, dato questo che finisce con l'investire il Giudice del ruolo di “arbitro della prova”. Qualora si tratti di prove testimoniali sembra logico ritenere che la procedura più corretta sia quella stabilita dall'art. 506, comma 2, del codice; altra dottrina fa riferimento invece all'applicazione della regola secondo cui l'esame della persona informata sui fatti è condotto dal Giudice, per il tramite del quale P.M. e difensore possono avanzare domande. Il Giudice della prevenzione, secondo il richiamato art. 666, comma 5, c.p.p., può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno; se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio, ma senza particolari formalità. Nel giudizio in esame particolare rilievo acquistano, quindi, i poteri officiosi del Giudice sul punto, che prescindono da una specifica sollecitazione della parte, alla quale è comunque attribuita la possibilità di provvedere anche a un'autonoma produzione documentale, che può essere depositata senza sbarramenti temporali, considerato che il termine di cinque giorni concerne solamente il deposito di memorie. Stante l'espresso disposto dell'art. 7, comma 3, del Codice in ordine al termine per il deposito di eventuali memorie, deve ritenersi superata l'opinione di quella dottrina che riteneva non esservi alcun termine di decadenza per il deposito delle memorie difensive, di talché detta facoltà poteva essere esercitata fino al momento della chiusura dell'udienza camerale. L'elencazione contenuta nell'art. 666 (acquisizione di documenti, di informazioni, citazione ed esame di testimoni, espletamento di perizia) non è, chiaramente, esaustiva ma meramente indicativa, pure considerando che l'art. 185 delle disposizioni di attuazione è preceduto da un “anche” che lascia supporre la praticabilità anche di altri mezzi istruttori. In concreto, saranno utilizzabili per la decisione i rapporti di polizia, le informazioni acquisite, gli accertamenti compiuti dalla P.G., nonché le informazioni acquisite da tutti gli organi di P.S. A tal proposito, giova ricordare che la Suprema Corte ha ritenuto non utilizzabili, a fini probatori, i dati e le informazioni conservati negli archivi automatizzati del Centro Elaborazione Dati del Ministero dell'Interno riguarda solo le elaborazioni automatiche di informazioni che forniscano un profilo della personalità dell'interessato e non pure quegli elementi oggettivi, classificati nel citato CED e formati dalle FFOO per motivi di ordine pubblico, prevenzione e repressione della criminalità, come accade di solito per le relazioni della P.G. riguardanti i precedenti penali e le frequentazioni del proposto con persone pregiudicate (così Cass. I, n. 8937/2001, Procopio). Nel procedimento di prevenzione sono invece utilizzabili, con i limiti di compatibilità di cui all'art. 270 c.p.p., i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte nel giudizio penale di cognizione, senza che vi sia alcun dovere del Giudice della prevenzione di acquisirne i relativi decreti autorizzativi essendo, invece, la loro allegazione un onere della parte che intenda provarne l'inutilizzabilità (così Cass. I, n. 33330/2021) (aggiornamento dell'11 gennaio 2023). Sull'istruttoria di natura officiosa disposta anteriormente all'udienza, le parti possono incidere in maniera limitata e solo con la produzione di memorie, ai sensi dell'art. 666, comma 3, c.p.p., e con il deposito dei risultati delle indagini difensive di cui agli artt. 391-bis e ss. c.p.p. Più in generale, inoltre, sul proposto non incombe certo un onere probatorio in senso stretto, tanto meno invertito nel senso della necessità di provare l'insussistenza degli elementi posti a base della proposta, ma solo un onere di allegazione, vale a dire di indicare al Giudice quegli elementi che lui ritenga necessari o utili ai fini della decisione (Cass. V, n. 4692/2000, Sciuto). In un'interessante pronuncia (Cass. II, n. 3883/2019) la Suprema Corte ha specificato che in questa materia “spetta alla pubblica accusa la prova della sproporzione tra il valore dei beni di cui il proposto abbia la titolarità o la disponibilità e il suo reddito o l'attività economica espletata, mentre è onere del proposto, che deduca eccezioni o argomenti difensivi, giustificare, sulla base di concreti e oggettivi elementi fattuali, la legittima provenienza dei beni, perché è il proposto che, in considerazione del principio della c.d. "vicinanza della prova", può acquisire o quantomeno fornire, tramite l'allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva”. Strettamente correlata con il citato onere è la facoltà di produrre memorie, attività già prevista in generale dall'art. 121 c.p.p. e dall'art. 127 c.p.p. per l'udienza in camera di consiglio; i documenti possono essere prodotti e le istanze istruttorie formulate anche nel corso dell'udienza, non operando sul punto il termine di cui all'art. 7, comma 3, che riguarda unicamente il deposito di memorie. Alle parti è riconosciuto il diritto di ottenere la prova a discarico, sia pure entro i limitati confini tracciati dalla Suprema Corte all'istituto nell'ambito di un giudizio che non abbia, come questo, carattere squisitamente di cognizione: in sostanza, hanno chiarito i giudici, l'art. 495 c.p.p., previsto per il dibattimento, non opera nei procedimenti camerali (come quello in esame), ma il diritto alla prova contraria è comunque ricavabile dal combinato disposto degli artt. 666 c.p.p. e 185 disp. att. (così Cass. I, n. 3605/1993, Pezzoni). Si è posto il tema dell'applicabilità al procedimento di prevenzione dell'obbligo di rinnovazione istruttoria previsto in sede di giudizio penale alla stregua dell'art. 603 c.p., comma 3-bis, allorquando si verta in tema di impugnazione del P.M. avverso una sentenza di proscioglimento per ragioni attinenti alla valutazione di una prova dichiarativa. La Suprema Corte, con la sentenza della VI Sezione, n. 45111/2017 ha affermato, sul punto, che “nel procedimento di prevenzione, il Giudice d'appello che intenda riformare "in peius" la decisione di rigetto della proposta adottata in primo grado non è tenuto a procedere alla rinnovazione dell'istruttoria, ai sensi dell'art. 603 c.p.p., né ad una motivazione rafforzata del decreto di appello”. In motivazione, si è precisato che non sono applicabili nel giudizio di prevenzione i noti principi di diritto enuncianti, in riferimento al primo, nelle sentenze "Dasgupta" e "Patalano" delle Sezioni Unite (rispettivamente, Cass. S.U., n. 27620/2016 e Cass. S.U., n. 18620/2017) a mente delle quali il Giudice di Appello, sia nel giudizio ordinario che in quello abbreviato, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza aver proceduto anche di ufficio a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio: invero, già una mera ricognizione letterale del testo delle massime delle Sezioni Unite sopra richiamate rende evidente che il principio della necessaria rinnovazione del dibattimento di appello in caso di assoluzione in primo grado e di affermazione di responsabilità nel grado successivo non è regola cogente di carattere generale ma deve intendersi riferita solo alle prove dichiarative (principalmente le dichiarazioni orali del testimone "puro", del testimone assistito e quelle del coimputato nello stesso procedimento o in procedimento connesso) e solo a quelle, tra queste, ritenute decisive per la pronuncia di assoluzione di primo grado; nel procedimento di prevenzione, ordinariamente caratterizzato da prove di natura documentale costituite da provvedimenti giurisdizionali e da esiti di indagini di Polizia giudiziaria o ancora da conclusioni di accertamenti di natura contabile - peritale svolti nel corso del procedimento, una regola come quella sopra enunciata non ha evidentemente alcuno spazio di materiale applicazione dato che non vi sono appunto prove dichiarative che possano costituire oggetto di nuova, obbligatoria assunzione. Si è sottolineata, per negare la fondatezza della tesi di un'analogia processuale tra il giudizio di cognizione e quello di prevenzione, la diversa natura e struttura dei giudizi stessi, caratterizzato il primo dall'accertamento di fatti costituenti o meno reato e il secondo dalla formulazione di un giudizio di pericolosità della persona proposta per la misura di prevenzione, giudizio che, per la sua stessa natura, è caratterizzato da precarietà e da idoneità ad essere mutato, in peggio o in meglio, nel corso del tempo; si tratta cioè di un giudizio strutturalmente precario e destinato ad essere rapportato costantemente alla situazione di fatto che lo ha determinato (c.d. "giudizio rebus sic stantibus"), con revoca o modifica, in peggio o in meglio, della statuizione di pericolosità sulla base di nuovi elementi, contemporanei o successivi all'accertamento della stessa; conseguenza diretta di quanto ora affermato e del conseguente principio del costante adeguamento della situazione di diritto (affermazione o meno dello status di persona pericolosa) a quella di fatto (elementi sulla base dei quali il giudizio di pericolosità è stato affermato o negato) è che il Giudice della prevenzione può sempre, in appello, esaminare di ufficio elementi sopravvenuti e non valutati in primo grado o, con affermazione logicamente deducibile da quanto fino ad ora argomentato, che quest'ultimo può sempre sottoporre a nuovo esame gli stessi elementi già diversamente valutati in primo grado (in questo senso, Cass. S.U., n. 18/1996, Simonelli, Rv. 205260 circa l'operatività "rebus sic stantibus" del giudicato in materia di prevenzione e poi, da ultimo, Cass. I, n. 19995/2013, Masotina, Rv. 256159 per l'affermazione del principio, direttamente conseguente a quello enunciato dalle Sezioni Unite, per cui non è precluso al Giudice di appello l'esame di ufficio di elementi, sopravvenuti alla decisione di primo grado, che inducano a ritenere una attenuazione della pericolosità del proposto ovvero un suo aggravamento). In definitiva, quindi, una pluralità di argomenti interpretativi, di natura letterale e poi ancora sistematica, rende evidente che in tema di procedimento di prevenzione, a differenza di quanto avviene nel procedimento ordinario, non trova applicazione la regola della necessaria rinnovazione in appello del dibattimento ex art. 603 c.p.p. per la valutazione per la prima volta di elementi non presi in considerazione nel giudizio di primo grado o per la nuova valutazione degli stessi elementi in termini sfavorevoli al proposto e non trovano perciò nemmeno applicazione i principi di diritto formulati nelle sentenze delle Sezioni Unite "Dasgupta" e "Patalano" sopra richiamati. Nella medesima sentenza si affronta un altro tema interessante, ovvero la necessità o meno di una motivazione "rinforzata" del decreto di appello che abbia riformato "in peius" una decreto favorevole di primo grado: si evidenzia che il principio di diritto relativo alla necessaria, maggiore persuasività della sentenza di appello che abbia riformato quella di assoluzione pronunciata in primo grado è stato sempre strettamente connesso, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, al principio di cui all'art. 533, comma 1, c.p.p. e cioè alla necessità che l'imputato risulti colpevole del reato contestatogli, "al di là di ogni ragionevole dubbio" (si veda sul punto da ultimo, tra le tante di analogo tenore, Cass. III, - dep. 2015 - n. 6817/2014, Rv. 262524). Anche in questo caso, valgono gli argomenti interpretativi di natura letterale e sistematica che sono stati sopra richiamati sul tema specifico della sostanziale differenza strutturale tra il processo ordinario che ha ad oggetto l'accertamento di un fatto e quello di prevenzione che riguarda invece l'affermazione di uno "status" personale; il testo infatti dell'art. 533, comma 1, c.p.p. riferisce espressamente il principio dell'accertamento ad di là di ogni ragionevole dubbio alla sentenza di condanna e al reato così accertato mentre la natura stessa del giudizio di pericolosità, caratterizzato dalla ineliminabile fluidità e precarietà sopra accennata dipendente essenzialmente dalla possibilità del suo mutamento, in meglio o in peggio, sia nel corso del processo di prevenzione che dopo la sua conclusione, è strutturalmente incompatibile con quella pretesa di assoluta certezza che caratterizza il principio di cui si sta qui discutendo. Le prove orali In merito all'esame testimoniale, sotto la previgente normativa, parte della dottrina riteneva non esperibile l'esame diretto del teste nel giudizio di prevenzione; oggi detta impostazione è certamente superata anche grazie al disposto testuale della legge, che consentendo l'esame dei testimoni in videoconferenza senza dubbio presuppone la generale esplicabilità del mezzo di prova. Infatti, va osservato che il testo del comma 8 dell'art. risalente al 2011 prevedeva che l'esame a distanza dei testimoni potesse essere condotto dal presidente nei casi e nei modi di cui all'art. 147-bis, comma 2, disp. att. c.p.p. (esame a distanza dei collaboratori di giustizia e degli imputati in procedimento connesso). La disposizione era stata modificata dalla l. n. 103/2017 a decorrere da un anno dopo la pubblicazione del testo nella Gazzetta Ufficiale (vale a dire dal 4 luglio 2018) nel senso che per l'esame dei testimoni di applicassero sia l'art. 147-bis che l'art. 146-bis delle disposizioni di attuazione (partecipazione al dibattimento a distanza). Prima della sua effettiva entrata in vigore, la norma è stata ulteriormente cambiata per effetto della l. n. 161/2017, in virtù della quale “qualora il tribunale debba sentire soggetti informati su fatti rilevanti per il procedimento, il presidente del collegio può disporre l'esame a distanza nei casi e nei modi indicati all'art. 147-bis, comma 2, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al d.lgs. n. 271/1989”. Si è assistito, quindi, all'eliminazione dal corpo dell'art. 7, comma 8, del riferimento all'art. 146-bis che, effettivamente, concerne la posizione dell'imputato nel processo penale che si trovi in stato di detenzione per taluni delitti individuati dalla legge. Invero, considerato che la norma concerne la fase di assunzione delle prove nel giudizio di prevenzione e, quindi, appare destinata a regolamentare non già la partecipazione a esso del soggetto proposto (alla cui disciplina è preposto il comma 4 del medesimo articolo) bensì delle persone in possesso di conoscenze ritenute utili ai fini della decisione, risulta lineare e ragionevole aver conservato unicamente il richiamo all'art. 147-bis, disciplinante com'è noto l'esame testimoniale a distanza. Del resto, va osservato che l'art. 146-bis è infatti richiamato proprio al comma 4, relativo alla partecipazione dell'interessato al procedimento. Giova, peraltro, evidenziare che di recente si sono registrate, presso la Suprema Corte, due tendenze opposte in ordine all'ampiezza della nozione di “prova” veicolabile nel procedimento di prevenzione. Parte della giurisprudenza (ad es. Cass. I, n. 2714/20167) ha sostenuto che le particolari finalità del giudizio de quo e la sua disciplina positiva comportano che non può estendersi in maniera generalizzata alle indagini del P.M. e della polizia giudiziaria, finalizzate alla formulazione della proposta, la stessa regolamentazione e gli stessi limiti previsti per le indagini preliminari nel processo penale, con la conseguenza che al titolare della proposta di prevenzione è conferita ampia autonomia e libertà di forma nella raccolta dei dati informativi, compresa la facoltà di escutere fonti dichiarative, e con l'unico limite del rispetto dei principi del codice di rito ex art. 191 c.p.p. Va nella direzione opposta altra tesi (Cass. I, n. 49180/2016) che afferma che nel procedimento di prevenzione “né la sua natura speciale rispetto al processo penale, né esigenze di speditezza nella trattazione e di più agevole consultazione degli atti consentono di ritenere vietate le prove dichiarative... e neppure è consentito subordinarne l'ingresso nel processo di prevenzione secondo una sorta di gerarchia delle prove, che orienta le scelte decisionali all'ammissione degli atti già costituiti e solo in via residuale anche delle testimonianze o di altre prove diverse, a condizione che i primi vi offrano almeno un parziale riscontro”. La novella del 2017 pare, invero, seguire questa seconda impostazione, che segna un sempre maggiore allineamento del giudizio di prevenzione al processo penale dibattimentale. Infatti, oltre all'inserimento, nell'art. 7, comma 8, al fatto che il tribunale possa “sentire soggetti informati su fatti rilevanti per il procedimento”, molto importante appare l'introduzione del comma 4-bis dell'art. 7, a norma del quale “il tribunale, dopo l'accertamento della regolare costituzione delle parti, ammette le prove rilevanti, escludendo quelle vietate dalla legge o superflue”. È indiscutibile il richiamo al rito dibattimentale, disegnato dagli artt. 484 (costituzione delle parti) e 493-495 c.p.p. (richieste di prova e provvedimenti del Giudice in ordine alla prova); la norma in esame riecheggia, inoltre, chiaramente l'art. 190 c.p.p. laddove prevede che il Giudice ammetta le prove escludendo quelle “vietate dalla legge”, ovvero “manifestamente... superflue o irrilevanti”. Peraltro, il minore formalismo proprio del giudizio di prevenzione permane - giustamente - nonostante la riforma, atteso che non sono stati richiamati i parametri del menzionato art. 190 in ordine alle modalità di ammissione delle prove (ovvero che il Giudice provveda “senza ritardo” e “con ordinanza”); più semplicemente, si stabilisce che il collegio, con un atto anche informale, ammetta ovvero escluda le prove richieste dalle parti. Trattasi, comunque, di una vera e propria rivoluzione copernicana nell'ambito del giudizio di prevenzione, che passa da una grammatica probatoria assai semplificata e prevalentemente cartolare a prospettive istruttorie sempre più affini a quelle proprie del processo penale, volte a privilegiare la formazione della prova in contraddittorio tra le parti e il rispetto del principio dell'oralità. |