Richiesta di attribuzione di un assegno alimentare al soggetto proposto (art. 40, d.lgs. n. 159/2011)InquadramentoGià l'originario comma 2 dell'art. 21, d.lgs. n. 159/2011 sanciva l'esistenza di un potere di sgombero espressamente previsto e attribuito in modo netto al tribunale, collegialmente inteso. La formulazione della norma, infatti, escludeva la possibilità di procedere in tal senso attraverso provvedimenti monocratici del Giudice delegato, limitandone peraltro l'operatività solo agli immobili e soltanto ai casi di occupazione degli stessi sine titulo, ovvero in base a titolo privo di data certa anteriore al sequestro. Era (ed è) autorizzato nello sgombero l'ausilio della forza pubblica e, in dottrina, si ritiene che il potere di sgombero sia utilizzabile anche nei casi in cui il titolo venga meno durante la procedura; l'osservazione va condivisa con la precisazione che, tuttavia, non può ritenersi che l'esercizio del potere possa autorizzare il tribunale anche a risolvere e superare temi incidentali controversi sul titolo. Ogni questione di merito sulla validità e l'efficacia dell'atto negoziale, infatti, potrebbe non competere al Giudice della prevenzione, ma a quello naturale, da individuare secondo le regole ordinarie di competenza. La materia è stata interessata da una modifica, rilevante sostanzialmente sotto il profilo della competenza, ad opera della l. n. 161/2017 di riforma del Codice Antimafia. Oggi infatti, il Giudice delegato alla procedura ai sensi dell'art. 35, comma 1, sentito l'amministratore giudiziario e valutate le circostanze, ordina lo sgombero degli immobili sequestrati occupati senza titolo, ovvero sulla scorta di titolo privo di data certa anteriore al sequestro, mediante l'ausilio della forza pubblica. La materia è disciplinata anche dall'art. 40 del Codice Antimafia, come modificato dalla l. n. 161/2017: la norma prevede che il Giudice delegato possa adottare, nei confronti della persona sottoposta alla procedura e della sua famiglia, i provvedimenti indicati nell'art. 47, comma 1, del r.d. n. 267/1942 (c.d. legge fallimentare), quando ricorrano le condizioni ivi previste. Inoltre, il tribunale, con decreto revocabile in ogni momento, può disporre su richiesta dell'interessato il differimento dell'esecuzione dello sgombero non oltre il decreto di confisca definitivo. Il beneficiario, pena la revoca del provvedimento, è tenuto a corrispondere l'indennità eventualmente determinata dal tribunale e a provvedere a sue cure alle spese e agli oneri inerenti all'unità immobiliare; è esclusa ogni azione di regresso. Se il tribunale, al contrario, rigetta la richiesta di differimento dello sgombero avanzata dal proposto, dispone la sua immediata esecuzione. FormulaN. ... R.G.M.P. Al Sig. Giudice Delegato Dott. ... . Il sottoscritto Avvocato ... del Foro di ... con studio in ... alla via ... , difensore di fiducia di ... nato a ... , nei cui confronti è stato emesso in data ... dal Tribunale di ... decreto con il quale è stato disposto il sequestro di prevenzione dei beni a lui intestati; PREMESSO che il sequestro è stato eseguito in data ... ; che tra i beni sequestrati vi è l'immobile sito in ... alla via ... in catasto ... ; che detto immobile è adibito da molti anni ad abitazione del proposto e del suo nucleo familiare; che il sequestro ha colpito tutti i beni e le aziende riconducibili al proposto, che si trova quindi a non poter contare più su nessuna fonte di reddito; che il coniuge e i figli conviventi non lavorano e non hanno nessuna risorsa personale; che, quindi, il nucleo familiare si trova in condizioni di estremo disagio economico, tanto da non poter più provvedere alle ordinarie necessità quotidiane; CHIEDE alla S.V., previa audizione dell'interessato, di disporre un sussidio a titolo di alimenti per il proposto e per la sua famiglia pari a Euro ... mensili, da porre a carico della procedura. Allega la seguente documentazione (es., certificato ISEE, visura catastale, dichiarazioni giurate, stato di famiglia, etc.) Con osservanza. Luogo e data ... Firma ... CommentoI provvedimenti di cui all'art. 47 della c . d. l. fall. I commi 2 e 2-bis dell'art. 40 del Codice Antimafia stabiliscono che il Giudice delegato può adottare, nei confronti della persona sottoposta alla procedura e della sua famiglia, i provvedimenti indicati nell'art. 47, comma 1, del r.d. n. 267/1942, e successive modificazioni. Trattasi, in particolare, dell'ipotesi in cui al fallito (ovvero al proposto, in questo caso) vengano a mancare i mezzi di sussistenza, caso in cui il Giudice delegato può concedere un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la sua famiglia; il comma 2 del citato art. 47 stabilisce invece che “La casa di proprietà del fallito, nei limiti in cui è necessaria all'abitazione di lui e della sua famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla liquidazione delle attività”. Ne consegue che il Giudice delegato della prevenzione potrà sia concedere un sussidio alimentare al proposto (e ai suoi familiari), sia consentirgli di continuare a occupare la casa d'abitazione di sua proprietà, oggetto di sequestro, dietro pagamento di un'indennità e comunque non oltre la confisca definitiva del bene stesso. La giurisprudenza di legittimità (Cass. VI, n. 38264/2019) ha sul punto precisato che “l'adozione dei provvedimenti riguardanti i diritti personali del sottoposto alla procedura e della sua famiglia, previsti dagli artt. 40, comma 2, d.lgs. n. 159/2011 e 47 l. fall., rientra nella competenza funzionale del Giudice delegato, sicchè tali provvedimenti non possono essere adottati dal tribunale collegiale se non nell'ambito del procedimento di opposizione mediante incidente di esecuzione”; è stata quindi annullata, con rinvio al Giudice delegato, l'ordinanza con la quale il tribunale collegiale aveva rigettato la richiesta del sottoposto alla misura di prevenzione di trasferirsi assieme al proprio nucleo familiare presso un immobile sequestrato con il richiamo ai provvedimenti di favore della procedura fallimentare, secondo l'interpretazione che ne ha dato la giurisprudenza di legittimità, il legislatore della prevenzione ha inteso creare un'analogia tra la figura del proposto e quella del fallito in ragione del comune denominatore costituito, per entrambe le figure, dal riconoscimento del diritto di abitazione (Cass. II, n. 9908/2011; Cass. I, n. 51458/2013; Cass. VI, n. 25289/2015). Pur essendo le due situazioni giuridiche caratterizzate da una accentuata diversità di presupposti e finalità, in primis per i più evidenti aspetti relativi alla natura e alla provenienza dei beni che vengono a formare la massa patrimoniale attinta dalle due procedure, costituita, nel caso del proposto, da beni di provenienza sicuramente illecita. Quanto al rilievo giuridico da attribuire a tale analogia, la Suprema Corte (sentenza Cass. n. 51458/2013, citata) ha fornito una lettura convincente e condivisibile affermando che “Se è vero, da un lato, che l'esplicito raccordo voluto dal legislatore tra la norma di prevenzione e quella fallimentare sottende una indubbia relazione analogica tra la posizione del ‘Proposto' e quella del ‘fallito', è altrettanto vero, dall'altro, che detta relazione appare pienamente giustificata solo nel caso in cui al primo, con il sequestro di prevenzione, vengano sottratti tutti i beni, cosicché la sua situazione si trovi realmente a coincidere con quella del ‘fallito' espropriato del suo patrimonio. Non può dimenticarsi, infatti, a giustificare l'esclusione di una automatica e rigida analogia (si potrebbe parlare di analogia "temperata") tra le due figure, che, a differenza del fallito, il proposto viene privato solo di quei beni che siano riconducibili ad una provenienza illecita e che, quindi, può, in ipotesi, conservare nel suo possesso tutti i beni per i quali tale provenienza non sia stata dimostrata. A escludere, sotto altro profilo, la piena sovrapponibilità tra le due posizioni soccorrono ragioni di carattere sistematico che implicano l'inserimento della l. n. 575/1965, art. 2-sexies, comma 4, (oggi d.lgs. n. 159/2011, art. 40, comma 2) in un corpo normativo, quello che disciplina le misure di prevenzione di carattere patrimoniale, il cui obiettivo finale è la restituzione alla collettività, attraverso la loro destinazione a scopi di utilità sociale, dei beni di provenienza delittuosa confiscati (obiettivo tutt'affatto diverso, all'evidenza, dalla tutela delle ragioni dei creditori che caratterizza la procedura fallimentare). Inoltre, in attesa del provvedimento di confisca, la sistematica antimafia prevede il ricorso allo strumento provvisorio del sequestro che, per un verso, assicura l'immissione in possesso e l'apprensione dei beni da parte dello Stato (anche attraverso lo sgombero forzato previsto, per i beni immobili, dall'art. 21), e, per altro verso, demanda allo Stato medesimo, attraverso la collaborazione del Giudice delegato con l'amministratore giudiziario, di provvedere alla custodia, alla conservazione e all'amministrazione dei beni sequestrati ... (anche) al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi (art. 35, comma 5, che riproduce la l. n. 575/1965, previgente art. 2-sexies, comma 8). È stato, inoltre, affermato che “...poiché come si è sopra evidenziato non sussiste un rapporto analogico pieno tra la figura del proposto e quella del fallito e poiché la massima coincidenza tra le due figure si verifica solamente nel caso in cui al proposto per una misura di prevenzione (o al terzo intestatario per conto del proposto) vengano sottratti con il sequestro tutti i beni, così come accade al fallito alla data di dichiarazione di fallimento, è solo in questo caso, in cui la situazione del proposto è sovrapponibile a quella del fallito e la relazione analogica è completa, che il Giudice delegato alla procedura di prevenzione, in base al combinato disposto di cui al d.lgs. n. 159/2011, art. 40, comma 2, e l. fall., art. 47, potrà valutare l'applicabilità, sino alla definizione del procedimento, di uno dei provvedimenti di favore previsti dall'art. 47, citato, autorizzando il proposto o il terzo intestatario del bene ad abitare l'immobile in sequestro, senza corrispondere alcun corrispettivo all'Amministratore Giudiziario, una volta preso atto dell'indisponibilità, da parte del soggetto interessato, di altri immobili di proprietà da destinare ad abitazione o di risorse economico-finanziarie adeguate a risolvere il problema abitativo, (requisito della "necessità" abitativa previsto dall'art. 47, comma 2, cit.)”. Viceversa, nel caso in cui il proposto/terzo intestatario non si trovi in condizioni di emergenza abitativa, in quanto disponga di redditi adeguati o di altri immobili di proprietà, la Suprema Corte (Cass. V, n. 9495/2016) ha affermato la necessità di escludere l'assimilabilità della sua situazione a quella del fallito e, dunque, l'applicabilità dei provvedimenti di cui alla l. fall., art. 47, con la conseguente legittima possibilità - giustificata dal fine normativamente previsto di incrementare la redditività dei beni in sequestro (d.lgs. n. 159/2011, art. 35, comma 5) - di imporre nei suoi confronti, per continuare ad abitare nel bene in sequestro, un canone di locazione ovvero, se tale soluzione si ritenga inopportuna per la incompatibilità della qualità del proposto con quella di un ordinario fruitore del bene, una congrua indennità di occupazione, che abbia la funzione di compensare medio tempore per la durata della indisponibilità del bene il pregiudizio derivante dal suo mancato godimento sull'indennità di occupazione (vedi Cass. civ. I, n. 13060/2008). Come visto, parte della giurisprudenza formatasi sotto la vigenza del Codice del 2011 riteneva, peraltro, non legittima la richiesta di un canone di locazione o di occupazione del bene immobile da parte del proposto a fronte del provvedimento di cui all'art. 47, comma 2, in esame; si escludeva, infatti, tale possibilità definendo illegittima la richiesta rivolta dall'amministratore giudiziario dei beni in sequestro di prevenzione al proposto di pagamento, previa stipula di un contratto di locazione, di un canone per l'immobile detenuto da quest'ultimo in custodia e adibito ad uso di abitazione per sé e per la famiglia, perché la casa di abitazione resta a disposizione del proposto fino alla confisca e non può dirsi che sia da questi posseduta sine titulo come se fosse divenuta di proprietà dell'amministrazione dei beni (cfr. Cass. II, n. 9908/2011). Di contrario avviso l'orientamento che ha, invece, affermato che risulta funzionale all'ottica di incremento della redditività dei beni l'imposizione di un canone di locazione o di un'indennità di occupazione nei confronti del proposto o del terzo intestatario formale dell'immobile soggetto a sequestro di prevenzione (così Cass. II, n. 27809/2015). Si è precisato che tra i poteri del Giudice delegato vi è quello di imporre il pagamento di un canone, ovvero di una congrua indennità di occupazione nei confronti del proposto, per consentirgli di continuare ad abitare in un immobile sottoposto a sequestro. Il che, peraltro, non implica - si è precisato - la stipula di un contratto di natura civilistica, in quanto la gestione del bene sotto il controllo del tribunale che ha emesso il sequestro e la confisca di prevenzione (e per esso del Giudice delegato) risponde pur sempre a esigenze di natura pubblicistica, tanto che il pagamento delle somme non è rimesso alla libera contrattazione, ma è determinato unilateralmente dall' ufficio in sede di autorizzazione all'occupazione dell'immobile, rappresentando la condizione per consentirne, temporaneamente, l'utilizzo; ciò consente anche al Giudice delegato di revocare l'autorizzazione a tale utilizzo quando la condizione imposta (pagamento del canone o dell'indennità) venga meno. La novella del 2017 ha chiarito ogni dubbio sul punto, stabilendo che il mancato pagamento dell'indennità di occupazione chiesta al proposto è causa di revoca del provvedimento di assegnazione temporanea; trattasi di una modifica senza dubbio condivisibile, che contempera le esigenze del proposto con quelle correlate all'incremento di redditività dei beni sequestrati, finalità che la legge, come si è detto, si propone testualmente. Il comma 2-bis è stato introdotto dalla l. n. 161/2017, che ha riscritto in maniera più dettagliata il subprocedimento con il quale al proposto e ai suoi familiari può venire consentito di continuare a occupare gli immobili in sequestro; la norma va letta in raccordo con quanto stabilito dal novellato art. 21 in tema di sgombero dei beni immobili sottoposti a vincolo. È, infatti, peculiare il regime nell'evenienza in cui i soggetti occupanti siano il proposto e i suoi familiari conviventi, ovvero i terzi formali intestatari dell'immobile: qui, infatti, il procedimento tratteggiato dall'art. 21, comma 2, va analizzato unitamente al possibile esercizio della facoltà attribuita dall'art. 47, comma 2, della l. fall. (richiamato dal nuovo art. 40, comma 2-bis) di assegnazione della “casa” e, comunque, con l'esigenza di salvaguardare l'integrità del bene. Il Tribunale può disporre il differimento dello sgombero se sia presentata l'istanza di assegnazione, caso nel quale l'ufficio, valutando il fumus dell'istanza, dispone - con decreto revocabile in ogni momento - il differimento dell'esecuzione dello sgombero, che comunque non può protrarsi oltre la definitività del decreto di confisca. In giurisprudenza (Cass. VI, n. 20566/2020) si è affermato che “il proposto che versi in stato di bisogno può essere autorizzato, ai sensi dell'art. 40, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, ad abitare l'immobile sequestrato, a condizione che lo stesso fosse già destinato ad abitazione familiare allorquando è stata disposta la misura, non assumendo rilevanza eventuali esigenze abitative sopravvenute”: in motivazione, la Corte ha precisato che è manifestamente infondata la questione di costituzionalità per violazione del diritto di abitazione, in quanto la salvaguardia eccezionalmente prevista per il proposto che occupi l'abitazione sequestrata e versi in stato di bisogno assicura al predetto la mera protrazione del godimento del bene e non il diritto di abitarvi. Qualora, invece, l'istanza sia rigettata viene disposta l'esecuzione dello sgombero, se precedentemente differito (art. 40, comma 2-bis ultima parte). Il beneficiario, pena la revoca del provvedimento, è tenuto a corrispondere l'indennità eventualmente determinata dal Tribunale e a provvedere a sue cure alle spese e agli oneri inerenti all'unità immobiliare; è esclusa ogni azione di regresso. Ancora, lo sgombero è eseguito immediatamente, qualora a ciò non si fosse già provveduto, allorché l'amministratore, previa autorizzazione scritta del Giudice delegato, conceda in comodato i beni immobili ai soggetti di cui all'art. 48 comma 3, lett. c) (enti locali territoriali, comunità, enti o associazioni maggiormente rappresentative, associazioni di volontariato, comunità terapeutiche, cooperative sociali, etc.), con cessazione al momento della definitività della confisca. In tali ipotesi si procede, se necessario, alla revoca dei provvedimenti di cui al comma 2-bis (assegnazione della casa ai sensi della normativa fallimentare).Quanto ai presupposti dei provvedimenti di cui all'art. 40, commi 2 e 2-bis, giova osservare che la giurisprudenza di legittimità è nel senso di subordinare la concessione del sussidio alimentare e dell'autorizzazione ad abitare la casa di proprietà, oltre che ad un provvedimento di natura discrezionale, al ricorso delle condizioni e nei limiti ben precisi, individuati dalla legge (Cass. I, n. 51458/2013). Tali condizioni e limiti, salvo adattamento alla specificità della procedura di prevenzione, devono essere - com'è ovvio, atteso il richiamo normativo espresso - tenuti presenti dal Giudice delegato chiamato ad adottare nei confronti del proposto i provvedimenti in esame; in specie, il Giudice delegato dovrà verificare le condizioni economiche e di vita dell'intestatario e della famiglia, nonché l'eventuale sussistenza di possibili sistemazioni abitative diverse, in beni non attinti da misura di prevenzione. In un interessante arresto di legittimità (Cass. I, n. 8868/2021) si è precisato che la domanda di erogazione del sussidio alimentare di cui all'art. 40, comma 2, d.lgs. n. 159/2011 può essere presentata dai soggetti, anche diversi dal proposto, che si trovino a subire una limitazione dei propri diritti patrimoniali a seguito dell'emissione del provvedimento di prevenzione (Fattispecie in cui l'istanza era stata proposta dal figlio del soggetto portatore di pericolosità, ritenuto intestatario formale di beni oggetto di sequestro). In motivazione si legge che la disposizione di cui all'art. 40, comma 2, d.lgs. n. 159/2011 compie riferimento, quanto al soggetto titolare della facoltà di operare la richiesta del sussidio alimentare alla «persona sottoposta alla procedura e alla sua famiglia»; il riferimento è da intendersi, ad avviso del Collegio, a tutti i soggetti che si trovino a subire una limitazione dei propri diritti patrimoniali in forza della emissione di un provvedimento di prevenzione e non riguarda - pertanto - il solo soggetto proposto per l'applicazione della misura (in tal senso, spunti in Cass. I, n. 51458/2013); l'espressione, ampia, di «sottoposizione alla procedura» utilizzata dal legislatore nel testo dell'art. 40, comma 2 cit., identifica come condizione legittimante, pertanto, l'avvenuta emissione - nei confronti del soggetto - di un provvedimento emesso nell'ambito della procedura tale da comportare limitazione di un diritto anche soltanto a contenuto patrimoniale. Il ricorso è stato, tuttavia, respinto per difetto delle condizioni di legge: la disposizione di cui all'art. 40, comma 2, d.lgs. n. 159/2011 rinvia, come è noto, al testo dell'art. 47, comma 1, r.d. n. 267/1942, quanto alla descrizione delle «condizioni» la cui integrazione rende possibile l'erogazione del sussidio, disegnando un fenomeno di reciproca integrazione tra la disciplina legale delle misure di prevenzione e quella del fallimento, nel settore specifico degli effetti del fallimento per il fallito. Da ciò deriva che la condizione di fatto presa in esame, al fine della erogazione del sussidio a titolo di alimenti è quella della «mancanza dei mezzi di sussistenza» vista - essenzialmente - come effetto del procedimento in cui è venuta in essere la limitazione di diritti o facoltà del soggetto in questione (fallimento/sequestro di prevenzione), in ragione di una esigenza di sostegno di carattere solidaristico (non si tratta di un diritto soggettivo, come ritenuto in sede di interpretazione dello stesso art. 47, I. fall., v. Cass. civ. I, n. 2755/2002), affidata alla discrezionalità del Giudice. L'«integrazione normativa» prima descritta rende rilevanti, in sede di applicazione dell'art. 40, d.lgs. n. 159/2011, aspetti relativi alla procedura di prevenzione (vista come antecedente causale della prospettata indigenza), con particolare riferimento a dati fattuali idonei a rappresentare l'esistenza di fonti di reddito occulte, tali da rendere insussistente la condizione di indigenza prospettata; non si tratta, pertanto, di valorizzare aspetti non conferenti, quanto - piuttosto - di calare la disposizione di cui all'art .47, I. fall. nel contesto specifico della procedura di prevenzione, basata essenzialmente sulla interpretazione di evidenze probatorie idonee a rappresentare il ricorso a fonti non dichiarate di sostentamento. L'impugnabilità dei provvedimenti di cui all'art. 40 Con riferimento al tema dell'impugnabilità dei provvedimenti del Giudice delegato convivono, nella giurisprudenza di legittimità, diversi orientamenti: il più restrittivo — espresso, tra le altre; da Cass. V, n. 57130/2018, e Cass. I, n. 19460/2018 — muove dal presupposto che il principio di tassatività delle impugnazioni osta in radice, in materia di misure di prevenzione, all'impugnabilità, in difetto di un'espressa previsione al riguardo, dei provvedimenti del Giudice delegato. Vi si afferma che i provvedimenti adottati dal Giudice delegato non sono autonomamente impugnabili, in considerazione del principio di tassatività delle impugnazioni di cui all'art. 568 c.p.p., né avverso gli stessi è ammissibile opposizione nelle forme dell'incidente di esecuzione, eccezion fatta per quelli che, ai sensi dell'art. 40, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, il Giudice delegato può adottare nei confronti del proposto e dei componenti della sua famiglia quanto alla corresponsione di un assegno alimentare e all'autorizzazione ad abitare nella casa di proprietà, con riferimento ai quali soltanto ricorre la necessità di assicurare parità di trattamento rispetto agli omologhi provvedimenti assunti dal Giudice delegato in sede fallimentare. Tale indirizzo si incentra, in specie, sull'inquadramento sistematico che contrappone il regime delle direttive impartite dal Giudice delegato all'amministratore giudiziario ai sensi dell'art. 40, comma 1, d.lgs. n. 159/2011, da ritenersi inoppugnabili, ai provvedimenti indicati nell'art. 47, comma 1, r.d. n. 267/1942, assunti dal Giudice delegato, ai sensi dell'art. 40, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, impugnabili con atto di opposizione al tribunale in composizione collegiale nelle forme dell'incidente di esecuzione, e colloca in posizione autonoma gli atti dell'amministratore giudiziario compiuti in assenza di autorizzazione scritta del Giudice delegato, davanti al quale sono impugnabili. Di opposto tenore sono le indicazioni che si traggono da altro filone interpretativo che ha ritenuto piuttosto come, unitamente all'esigenza di garantire l'uguaglianza fra settori ordinamentali diversi, occorra comunque riconoscere la possibilità di impugnazione dei provvedimenti del Giudice delegato che incidano su interessi meritevoli di tutela, anche al di fuori del perimetro dell'art. 40, comma 2, in modo da garantire una forma di controllo sull'attività del Giudice delegato che incida proprio su tali situazioni giuridiche; in proposito è stato, in alcune decisioni, stabilito che gli atti gestori del Giudice delegato e del tribunale che sono destinati a divenire definitivi e ad incidere su diritti soggettivi, assumono, in concreto, natura di sentenza, sì da rendere ammissibile la proposizione, avverso di essi, di ricorso straordinario per cassazione ai sensi degli artt. 111 cost. e 568, comma 2, c.p.p. (così, tra le altre, Cass. I, n. 35536/2019). Parzialmente diversa è la ricostruzione privilegiata da altre pronunzie (Cass. V, n. 11426/2015; Cass. V, n. 24663/2018; Cass. V, n. 50279/2015) che ritengono la sussistenza di un principio di ordine generale, nel senso della possibilità. di presentare opposizione al Tribunale della prevenzione contro i provvedimenti del Giudice delegato incidenti su posizioni giuridiche qualificate. In un recente precedente (Cass. I, n. 21121/2021) la Corte ha affermato che quest'ultima opzione meglio risponda alle esigenze di salvaguardia dei soggetti coinvolti, in quanto — a differenza di quanto accade ammettendo la proposizione del solo ricorso per cassazione exartt. 111 cost. e 568, comma 2, c.p.p. — garantisce il riesame, nel merito, della decisione impugnata e non riduce lo spettro dei vizi deducibili in sede di legittimità alla sola violazione di legge. L'opposizione attraverso promozione di incidente di esecuzione ai sensi dell'art. 666 c.p.p. assicura, invero, il doppio grado di giurisdizione di merito, che bene si coniuga con l'incidenza di provvedimenti di natura dispositiva su interessi giuridicamente rilevanti e la conseguente necessità di un pieno dispiegamento della tutela giurisdizionale. Per contro, l'esclusione del ricorso all'incidente di esecuzione si tradurrebbe nella sottrazione ai soggetti legittimati — difficilmente giustificabile sul piano sistematico soprattutto nelle fattispecie, quale quella qui in esame, nelle quali l'atto della cui impugnabilità si discute è stato emesso da un Giudice monocratico ed al di fuori del contraddittorio — della possibilità di fruire di un grado di merito, ove poter dibattere con ampie facoltà deduttive e nella pienezza del contraddittorio, senza dover, invece, incontrare le limitazioni del giudizio di legittimità in materia di misure di prevenzione patrimoniale. L'individuazione del rimedio nell'incidente di esecuzione si palesa, d'altro canto, coerente con il carattere residuale e «di chiusura» del ricorso per cassazione ex art. 111 cost., volto ad assicurare protezione a situazioni giuridiche che non abbiano trovato aliunde riconoscimento. La soluzione prospettata trova, invero, fondamento nel rango delle situazioni giuridiche coinvolte dal provvedimento dell'organo della procedura di prevenzione patrimoniale: ineludibile appare, pertanto, l'individuazione di un percorso ermeneutico volto a circoscrivere con sufficiente precisione l'ambito di quelle che, in quanto coinvolte dal provvedimento del Giudice delegato, consentono la proposizione dell'incidente di esecuzione, cioè ad assegnare maggiore concretezza all'espressione, a più riprese evocata dalle pronunzie richiamate, di «interesse meritevole di tutela». Tale inciso, invero — lungi dal ricomprendere, in senso lato, qualsiasi interesse, purché lecito — va riferito, secondo la ricostruzione che si intende qui accreditare, alle situazioni giuridiche di diritto soggettivo suscettibili di patire un pregiudizio diretto e definitivo per effetto di provvedimenti del Giudice delegato alla gestione della fase esecutiva delle misure di prevenzione patrimoniale che, per tale ragione, devono essere assoggettati ad impugnazione. Segnatamente, guardando al contenuto dei provvedimenti emessi dal Giudice delegato, occorre distinguere fra atti di gestione in senso stretto ed atti di natura dispositiva: gli atti di pura gestione — e, di conseguenza, le spese di gestione ad essi collegate — sono quelli che consentono la fisiologica prosecuzione dell'attività imprenditoriale e che risultano funzionali al perseguimento dello scopo di lucro e di massimizzazione dell'utile d'impresa. Rientrano in tale categoria, ad esempio, la scelta dell'amministratore giudiziario di attivare le procure di licenziamento di uno o più dipendenti, la decisione di dismettere beni aziendali, la nomina di un legale che curi gli interessi dell'impresa in un determinato contenzioso; tali atti, pur riverberando i propri effetti sulla sfera patrimoniale dell'imprenditore preposto, non determinano un pregiudizio diretto e definitivo, sicché non emerge, rispetto ad essi, la necessità di apprestare un efficace strumento di controllo giurisdizionale. Natura propriamente dispositiva deve essere, invece, attribuita a quegli atti che incidano in modo decisorio e definitivo su situazioni giuridiche soggettive, per identificare i quali, ferma la sopra prospettata distinzione di carattere definitorio, è possibile avvalersi degli esiti, cristallizzati in apposita pronunzia del massimo organo nomofilattico (Cass. S.U., n. 27073/2016, Rv. 641811), della riflessione avviata, in sede civilistica, al fine di circoscrivere il novero dei provvedimenti suscettibili di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 cost.; qui il Giudice di legittimità, nella sua più autorevole composizione, ha chiarito, infatti, come siano sempre impugnabili «i provvedimenti che, pur avendo forma diversa dalla sentenza, presentino tuttavia i requisiti della decisorietà e della definitività. [ ... ]. La decisorietà, dunque, consiste nell'attitudine del provvedimento del Giudice non solo ad incidere su diritti soggettivi delle parti, ma ad incidervi con la particolare efficacia del giudicato (nel che risiede appunto la differenza tra il semplice "incidere" e il "decidere": cfr., per tutte, Cass. I, n. 10254/1994), il quale, a sua volta, è effetto tipico della giurisdizione contenziosa, di quella, cioè, che si esprime su una controversia, anche solo potenziale, fra parti contrapposte, chiamate perciò a confrontarsi in contraddittorio nel processo. Affinché, peraltro, un provvedimento non avente veste di sentenza sia impugnabile in cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, cost. non è sufficiente che abbia carattere decisorio, occorre anche che non sia soggetto a un diverso mezzo d'impugnazione, dovendosi altrimenti esperire anzitutto tale mezzo — appello, reclamo o quant'altro — sicché il ricorso per cassazione riguarderà il successivo provvedimento emesso all'esito. In ciò consiste il requisito della definitività». La natura dell'atto si riflette, dunque, sul regime di impugnazione onde deve, logicamente, inferirsi che gli atti di pura gestione, non vulnerando in via definitiva e decisoria i diritti soggettivi del soggetto interessato, restano inoppugnabili, mentre quelli a contenuto dispositivo sono soggetti a riesame da svolgersi, in forza del meccanismo sopra enucleato, attraverso l'opposizione nella forma dell'incidente di esecuzione. In applicazione di tale principio si è ad esempio stabilito (Cass. V, n. 36343/2022) che il provvedimento con cui il tribunale competente approvi il programma di gestione dell'azienda sequestrata ovvero disponga la messa in liquidazione dell'impresa ex art. 41 del d.lgs. n. 159/2011 e succ. mod. non è autonomamente impugnabile, avendo natura interlocutoria o a vocazione essenzialmente gestoria. In conclusione, per quanto attiene ai provvedimenti in tema di assegno alimentare e abitazione della casa familiare, presi dal Giudice delegato ai sensi dell'art. 40, la Suprema Corte, pur ribadita l'inoppugnabilità di tali atti, ha, tuttavia, individuato nell'incidente di esecuzione innanzi al tribunale un possibile modello di tutela ed ha affermato che chi intenda dolersi del contenuto del provvedimento può contestarlo mediante opposizione al tribunale della prevenzione, appunto nelle forme dell'incidente di esecuzione; diverso è, invece, come visto il regime degli altri provvedimenti adottati dal g.d. e aventi natura squisitamente gestoria. La decisione resa all'esito di tale procedura è soggetta a ricorso per cassazione, con il limite posto dall'art. 3-ter, l. n. 575/1965 (oggi art. 27 del Codice Antimafia). Il d.l. 48/2025 Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’11 aprile 2025, il decreto legge n. 48 è entrato in vigore il 12 aprile 2025 portando con sé alcune rilevanti riforme in materia di misure di prevenzione: tra queste si segnala la modifica degli 36,40 e 41 del Codice antimafia. Il nuovo articolo 36 prevede, infatti, l’obbligo per l’amministratore giudiziario di indicare nella relazione in modo dettagliato le caratteristiche tecnico-urbanistiche del bene sequestrato segnalando l’esistenza di eventuali abusi e i possibili utilizzi del bene (articolo 36 comma 2 bis); la previsione normativa introdotta impone l’interlocuzione con i Comuni, che devono riscontrare le richieste entro 45 giorni. La disposizione si inserisce nell’alveo della crescente esigenza di valorizzare in concreto i beni confiscati, talvolta resa difficile dalle problematiche urbanistiche ed edilizie esistenti; essa è funzionale alla futura destinazione del bene ai sensi dell’articolo 48. Si introduce poi una rilevante novità all’articolo 40 stabilendo che qualora su beni siano riscontrati abusi edilizi non sanabili il giudice delegato ordina la demolizione (comma 1 bis) in modo da impedire l’ingresso nel patrimonio dello Stato dei beni di fatto non utilizzabili e vincolando l’area di sedime al patrimonio indisponibile dell’ente locale. |