Istanza di revoca della sentenza di condanna definitiva (art. 75, d.lgs. n. 159/2011)

Corinna Forte

Inquadramento

Ai sensi dell'art. 75, d.lgs. n. 159/2011, chi viola gli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l'arresto da tre mesi a un anno; se l'inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni ed è consentito l'arresto anche fuori dei casi di flagranza.

Nell'ipotesi da ultimo indicata gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possono procedere all'arresto anche fuori dei casi di flagranza.

Tra le prescrizioni che, ai sensi dell'art. 8, d.lgs. n. 159/2011, il tribunale può imporre con la sorveglianza speciale di P.S. vi era tradizionalmente anche quella di “vivere onestamente” e di “non dare adito a sospetti”; tali prescrizioni sono state dapprima colpite dalla sentenza 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia, della Corte EDU con la quale i giudici di Strasburgo hanno espresso un giudizio fortemente critico sulla “qualità” della l. n. 1423/1956 tacciando di eccessiva vaghezza e genericità il contenuto delle prescrizioni di “vivere onestamente e rispettare la legge”, nonché di “non dare adito a sospetti”.

La CEDU, oltre all'indeterminatezza della prescrizione di “vivere onestamente”, ha rilevato che il dovere di “rispettare le leggi”, come interpretato dalla Corte costituzionale, si risolve in un riferimento aperto all'intero sistema giuridico italiano, che non fornisce alcuna indicazione delle norme la cui violazione sarebbe indice della già accertata pericolosità.

Nel giudizio complessivamente critico che la sentenza de Tommaso ha dato alla disciplina delle misure di prevenzione personali, la Corte europea, riferendosi al contenuto del vivere onestamente nel rispetto delle leggi”, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall'interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all'art. 9, l. n. 1423/1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011).

Tenendo conto di tale importante dictum, la Corte di Cassazione si è pronunciata a Sezioni Unite sul tema, affermando che le norme penali sono norme precettive, in quanto funzionali ad influire sul comportamento dei destinatari, ma tale carattere difetta alle prescrizioni di "vivere onestamente e di rispettare le leggi", perché il loro contenuto, amplissimo e indefinito, non è in grado di orientare il comportamento sociale richiesto.

L'indeterminatezza delle due prescrizioni in esame è tale che impedisce la stessa conoscibilità del precetto in primo luogo da parte del destinatario e poi da parte del Giudice.

Si osserva poi che: “Il difetto di precettività insito nel generico obbligo di rispettare le leggi, che vale per ogni consociato, impedisce alla norma in questione di influire sul comportamento del destinatario, in quanto non sono individuate quelle condotte socialmente dannose, che devono essere evitate, e non sono prescritte quelle socialmente utili, che devono essere perseguite” (così testualmente Cass. S.U., n. 40076/2017).

La Corte addiviene, pertanto, a un'abrogazione “giurisprudenziale” della norma in esame, nella parte in cui impone al Giudice della prevenzione di stabilire, con il decreto applicativo della sorveglianza speciale, le indicate prescrizioni.

Pertanto, le sentenze di condanna irrevocabili per il reato di cui all'art. 75, connesse alla violazione delle citate prescrizioni, sono passibili di revoca mediante lo strumento dell'incidente di esecuzione (artt. 666 e ss. c.p.p.) con la formula “perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato”.

L'esclusione dal sistema delle norme in esame è stata completata dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 25/2019, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui punisce come delitto l'inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” da parte del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, nonché dell'art. 75, comma 1, Codice Antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno, ove consistente nell'obbligo di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.

Il tema è stato affrontato di recente dalla Suprema Corte, che ha chiarito che in caso di condanna definitiva per il reato di cui all'art. 75 (segnatamente per la violazione dell'obbligo di permanenza in casa in ore notturne) la domanda di revoca ai sensi dell'art. 673 c.p.p. non può trovare accoglimento – in riferimento alle ricadute operative della sentenza Cass. n. 291/2013 che ha imposto il riesame della pericolosità all'esito di un periodo detentivo durato almeno due anni – in tutte le ipotesi in cui la sottoposizione a misura di prevenzione rimasta sospesa, senza previa verifica di ufficio della persistenza della pericolosità, sia avvenuta prima della pubblicazione della sentenza medesima (così Cass. I, n. 31214/2020).

Ciò in quanto la revoca della sentenza di condanna definitiva si giustifica o in rapporto all'intervenuta abolitio criminis legislativa o per l'emissione di una sentenza dichiarativa dell'illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, con la sola eccezione particolare nel caso in cui il fenomeno abolitivo – a carattere generale. Intervenuto prima della condanna sia stato ignorato dal Giudice della cognizione (Cass. S.U., n. 26259/2015 secondo la quale il Giudice dell'esecuzione può revocare una sentenza di condanna pronunciata dopo l'entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice allorché tale evenienza sia stata ignorata dal Giudice della cognizione).

Formula

N. ... RGNR

TRIBUNALE DI ...

... Sezione Penale

Istanza di revoca della sentenza di condanna

***

Il sottoscritto Avv. ..., difensore di fiducia/di ufficio del Sig. ...

nato a ..., residente in ..., sottoposto in data ... alla misura della sorveglianza speciale di P.S. con obbligo di soggiorno nel comune di residenza in forza di decreto emesso in data ... dal Tribunale di ...;

PREMESSO

che egli è stato condannato alla pena di ... con sentenza emessa dal Giudice in composizione monocratica del Tribunale di ... per il reato di cui all'art. 75, d.lgs. n. 159/2011, per aver violato la prescrizione di “vivere onestamente”;

che detta sentenza è divenuta irrevocabile in data ...;

che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 40076/2017, Paternò, sono addivenute all'abrogazione “giurisprudenziale” di tale figura di reato, di talché s'impone la revoca delle sentenze di condanna emesse in applicazione della norma citata;

letto l'art. 673 c.p.p.,

CHIEDE

che la S.V., in funzione di Giudice dell'esecuzione, voglia disporre della sentenza indicata in epigrafe perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato.

Allega i seguenti documenti, a riprova di quanto rappresentato: (es. sentenza con attestazione di giudicato, decreto applicativo della sorveglianza speciale) ....

Con osservanza.

Luogo e data ...

Firma ...

Commento

Come anticipato, l'art. 8 del Codice Antimafia indica un intero catalogo di obblighi e di prescrizioni che il tribunale impone ogni qualvolta applichi la misura della sorveglianza speciale; accanto alle prescrizioni contenute nel comma 3, che vengono imposte ai soggetti indiziati di “vivere con il provento di reati”, con cui si invita il destinatario della misura a ricercare un lavoro, a fissare la propria dimora, a darne comunicazione all'autorità di pubblica sicurezza e a non allontanarsene senza previo avviso alla medesima autorità, è prevista, nel successivo comma 4, una teoria di prescrizioni che il tribunale deve “in ogni caso” disporre nei confronti del sorvegliato speciale.

Da segnalare che la l. n. 132/2018 ha modificato il menzionato art. 8, relativo alle misure di prevenzione di applicazione giurisdizionale, per il quale si è prevista tra le prescrizioni c.d. obbligatorie anche quella di ordinare al sottoposto, con il decreto applicativo della sorveglianza speciale di P.S. con o senza obbligo di soggiorno nel comune di residenza, di non accedere agli esercizi pubblici e ai locali di pubblico trattenimento, anche in determinate fasce orarie.

Tale norma richiama senza dubbio alla mente le prescrizioni elencate nell'art. 5 della (ormai abrogata) l. n. 1423/1956, il cui comma 3 riproduceva esattamente il testo del vecchio art. 172, r.d. n. 773/1931 - T.u.l.p.s. in tema di ammonizione, dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 11/1956, articolo che così recitava: “La commissione prescrive, inoltre, all'ammonito, di non associarsi a persone pregiudicate o sospette, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora, di non portare armi, di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione e di non partecipare a pubbliche riunioni”.

È interessante evidenziare come il Codice Antimafia nel 2011 avesse riformulato la prescrizione che prima imponeva al sorvegliato di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione (in talune edizioni della legge le parole o in case di prostituzione erano state poste, peraltro, tra parentesi, per evidente ossequio agli artt. 1 e 2, l. n. 75/1958, che ne hanno disposta la chiusura).

La legge aveva eliminato del tutto l'inciso, circoscrivendo il contenuto della prescrizione solo al divieto di partecipare a pubbliche riunioni, la cui portata era stata, peraltro, delimitata dalla Corte costituzionale con sentenze n. 27/1959 e n. 126/1983 nel senso che esso non può riguardare la possibilità di libera manifestazione del pensiero o la facoltà di partecipare alla vita democratica, alle manifestazioni di culto e a quelle sportive.

Peraltro, la recente sentenza Cass. n. 31322/2018 della Suprema Corte ha chiarito che la violazione del menzionato divieto di partecipare a pubbliche riunioni non è idonea a integrare il reato di cui all'art. 75 del Codice, a causa del deficit di determinatezza a tassatività che connota la citata prescrizione.

Più recentemente si è precisato che la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico e che il Giudice, chiamato a valutare la sussistenza del reato connesso alla violazione di tale prescrizione, è comunque tenuto a valutare se la partecipazione alla pubblica riunione – in base alle allegazioni dell'interessato e a quanto risultante dagli atti – sia stata giustificata da validi motivi (Cass. S.U., n. 46595/2019).

La legge in analisi, insomma, pare reintrodurre in una forma “raffinata” il divieto di frequentare “bettole e osterie”, parlando adesso più genericamente di esercizi pubblici e locali di pubblico trattenimento; comunque, il non aver imposto al Giudice di individuare in modo specifico a quali categorie di esercizi pubblici debba riferirsi il divieto ben potrebbe determinare, in futuro, ulteriori pronunce della Suprema Corte in punto di deficit di tassatività e determinatezza della fattispecie, con conseguente impossibilità di configurare il reato di cui all'art. 75, Codice Antimafia in caso di violazione della nuova prescrizione.

Come si è visto, si tratta di una tipologia assai varia di prescrizioni e di obblighi, che la legge reputa funzionali per l'effettività della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, sia semplice che qualificata, fermo restando che la qualità soggettiva dell'agente costituisce il discrimine in caso di inosservanza, in quanto il sorvegliato “semplice” viene punito con la contravvenzione prevista dall'art. 75, comma 1, mentre la condotta del sorvegliato “qualificato”, che violi una di queste prescrizioni, è sanzionata con il delitto di cui al comma 2 del medesimo articolo.

Tra le prescrizioni, vi è quella di non “associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza” (art. 8, comma 4); essa – come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità – implica però un'abitualità o serialità di comportamenti essendo, conseguentemente, configurabile il reato di cui all'art. 75 in riferimento alla violazione di tale prescrizione soltanto in caso di plurimi e stabili contatti e frequentazioni con pregiudicati (nel caso di specie la Corte ha confermato la sentenza di condanna che aveva dedotto il carattere non occasionale dei plurimi contatti del condannato con pregiudicati, considerando – oltre al numero degli incontri – il tempo relativamente concentrato della frequentazione, le modalità attuative, evocative di una precedente programmazione, e la caratura criminale dei soggetti frequentati; Cass. I, n. 14149/2020).

Va a questo punto analizzato l'interessante dibattito che ha interessato la giurisprudenza italiana ai massimi livelli, in uno con la Corte europea di Strasburgo, in ordine alla rispondenza di talune di queste prescrizioni ai necessari canoni di tassatività e determinatezza delle norme penali.

Tra le condotte inottemperanti punite dal comma 2 dell'art. 75 sembrerebbero, infatti, ricomprese, per effetto del richiamo ob relationem, anche le prescrizioni di genere relative al vivere onestamente e al rispettare le leggi, che si distinguono dalle prescrizioni specifiche, riferibili a un facere direttamente indicato dalla norma - come ad esempio nel caso del divieto di allontanarsi dalla dimora, di detenere e di portare armi, di associarsi a determinate persone o all'obbligo di permanenza in casa - proprio per la mancanza di determinatezza della condotta imposta.

Si è detto che il contenuto generale di tali prescrizioni, anche di alcune di quelle considerate specifiche, è stato sottoposto in passato all'esame della Corte costituzionale per contrasto con il principio di determinatezza, contrasto che è stato sempre escluso.

Su un piano analogo si è mossa anche la Corte di Cassazione che, escludendo ogni ipotesi di deficit di determinatezza della norma, ha costantemente affermato che il delitto di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011 - così come prima quello previsto dall'art. 9, l. n. 1423/1956 - è integrato da qualsiasi violazione degli obblighi e delle prescrizioni imposte con la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno. Secondo questa giurisprudenza il riferimento sia agli obblighi che alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale qualificata renderebbe manifesta la volontà del legislatore di sottoporre a un trattamento sanzionatorio più rigoroso tutte le infrazioni commesse da colui al quale, in ragione della sua maggiore pericolosità, sia stata applicata la misura di prevenzione più grave (così Cass. I, n. 47766/2008; Cass. I, n. 8412/2009; Cass. VII, n. 11217/2014).

Nella maggior parte dei casi, la prescrizione di “vivere onestamente” viene considerata congiuntamente a quella di “rispettare le leggi”, quasi si trattasse di due facce della stessa medaglia (ex plurimis: Cass. I, n. 2933/2013; Cass. VI, n. 13427/2016; Cass. I, n. 1086/2016).

Infatti, non si registrano decisioni che abbiano fatto riferimento esclusivo alla violazione della prescrizione dell'honeste vivere.

Rispetto a una giurisprudenza di legittimità così monolitica, deve segnalarsi la presenza di alcune decisioni, minoritarie e risalenti, formatesi in un contesto normativo diverso, prima delle modifiche del 1992 in materia di contrasto alla criminalità mafiosa, che hanno tentato di individuare le differenze tra i diversi obblighi e le prescrizioni, sostenendo, tra l'altro, che non tutte le violazioni delle prescrizioni generiche integrano le condotte punibili dal reato di cui all'art. 9, l. n. 1423/1956, ma solo quelle che si risolvono nella “vanificazione sostanziale” della misura di prevenzione (in questo senso, Cass. I, n. 793/1985; inoltre, cfr. Cass. II, n. 279/1969, che ha escluso l'integrazione del reato a seguito di violazioni delle prescrizioni generiche).

Peraltro, questa linea interpretativa è stata ripresa e sviluppata recentemente dalle Sezioni Unite che - chiamate a risolvere la questione se la mancata esibizione, a richiesta dell'autorità di pubblica sicurezza, della carta precettiva che il sorvegliato speciale deve portare con sé integri la contravvenzione o il delitto contemplati nell'art. 9, l. n. 1423/1956 (ora art. 75, commi 1 e 2, d.lgs. 159/2011) oppure la contravvenzione prevista dall'art. 650 c.p. - si sono sforzate di individuare la specificità caratterizzante gli obblighi e le prescrizioni la cui violazione può configurare il reato in esame (Cass. S.U., n. 40076/2017).

Si è così affermato che con l'obbligo si impone al destinatario un aliquid facere o non facere, mentre con la prescrizione si prevede un quomodo facere, nel senso che presuppone un obbligo, precisandone le modalità di adempimento (Cass. S.U., n. 32923/2014, Sinigaglia).

Tale distinzione, seppure riferita a violazioni che il legislatore ha equiparato quoad poenam, ha consentito alle Sezioni Unite di poter affermare, che non tutte le violazioni delle prescrizioni generiche previste dall'art. 5, l. n. 1423/1956 sono idonee ad integrare la condotta punibile ai sensi dell'art. 9 della stessa legge, ma solo quelle che si risolvono “nella vanificazione sostanziale della misura imposta”, ricollegandosi così a quel filone giurisprudenziale cui si è fatto prima riferimento.

Perché le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni siano rilevanti è necessario, quindi, che si tratti di “condotte eloquenti in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all'obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle (significative) misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano e connotano”.

A tali conclusioni la sentenza Sinigaglia perviene richiamando espressamente i principi di offensività e di proporzionalità, in base ai quali esclude la possibilità di “equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a un soggetto qualitativamente pericoloso”.

Tuttavia, la predetta pronuncia riconosce che nei confronti di categorie di persone ritenute pericolose vi possa essere un surplus di controllo e una maggiore severità repressiva, finendo così per ammettere che la violazione dei precetti del vivere onestamente e di rispettare le leggi possa, in astratto, costituire un “comportamento sintomatico della persistenza di un animus pravus e, quindi, di una prevedibile, futura condotta delittuosa”.

In ogni caso, questa sentenza supera la giurisprudenza di legittimità, formatasi soprattutto dopo le modifiche del 2005 apportate alla l. n. 1423, per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e richiede di verificare se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di vanificazione della misura cui si riferisce. Pertanto, non tutte le inottemperanze del sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità.

Così, con riferimento alle prescrizioni c.d. specifiche, la sentenza Sinigaglia chiarisce che non ogni violazione delle prescrizioni configura il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, ma solo quelle inosservanze significative, che cioè determinano un annullamento di fatto della misura.

L'impostazione evolutiva seguita dalla sentenza de qua tende, insomma, a circoscrivere l'applicazione dell'art. 75, d.lgs. n. 159/2011 solo in presenza di condotte che danno luogo a reati o a gravi illeciti amministrativi, quali azioni sintomatiche della volontà di eludere la misura di prevenzione.

Ma si tratta di una soluzione che non risolve il problema principale, vale a dire quello del deficit di determinatezza del reato di cui all'art. 75 in relazione alle violazioni delle prescrizioni generiche dell'honeste vivere e del rispettare la legge, problema posto in termini netti dalla sentenza 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia della Corte EDU.

Con la citata decisione i giudici di Strasburgo, investiti della questione relativa alla conformità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno agli artt. 5,6 e 13 CEDU, nonché all'art. 2 Prot. 4CEDU, hanno espresso un giudizio fortemente critico sulla “qualità” della l. n. 1423/1956, giudizio che, necessariamente, si estende al d.lgs. n. 159/2011 nella misura in cui questo recepisce i contenuti fondamentali della disciplina originaria.

La Corte europea ha, infatti, riconosciuto l'estrema vaghezza e genericità del contenuto delle prescrizioni di “vivere onestamente e rispettare la legge”, nonché di “non dare adito a sospetti”, riferimento quest'ultimo che, come si è visto, è peraltro venuto meno nella nuova formulazione dell'art. 8 in commento.

I giudici di Strasburgo, oltre all'indeterminatezza della prescrizione di “vivere onestamente”, hanno rilevato che il dovere di “rispettare le leggi”, come interpretato dalla Corte costituzionale, si risolve in un riferimento aperto all'intero sistema giuridico italiano, che non fornisce alcuna indicazione delle norme la cui violazione sarebbe indice della già accertata pericolosità.

Nell'offrire un giudizio complessivamente negativo sulla l. n. 1423/1956, la Corte EDU ha insistito particolarmente sul concetto di legalità europea, ribadendo la propria giurisprudenza secondo cui il presupposto della conformità alla legge non deve essere inteso come riferito solo al fondamento legale della misura, ma piuttosto alla qualità della legge, che deve essere accessibile alle persone interessate e prevedibile quanto ai suoi effetti. Infatti, i giudici escludono che le restrizioni alla libertà di movimento abbiano una base legale, in quanto né i destinatari (art. 1) né il contenuto delle misure di prevenzione (artt. 3 e 5) sono stati definiti con sufficiente precisione e chiarezza, concludendo che la legge del 1956 non rispetta il requisito di prevedibilità.

Sul menzionato presupposto la giurisprudenza della Corte europea ritiene che la qualificazione di una norma come legge necessita di una formulazione connotata da sufficiente precisione, in modo da consentire ai cittadini di regolare la propria condotta e di prevedere - se necessario con appropriata consulenza e a un livello che sia ragionevole in concreto - le conseguenze che possono derivare da una determinata condotta, pur riconoscendo che non può pretendersi una eccessiva rigidità nella formulazione delle norme, in considerazione del fatto che la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutamento delle circostanze (Corte EDU, GC, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia).

D'altra parte, la Corte costituzionale, anticipando il concetto di “prevedibilità” della legge espresso dalla giurisprudenza europea, ha chiarito che la sufficiente determinazione della fattispecie penale è funzionale tanto al principio di separazione dei poteri, quanto a quello di riserva di legge in materia penale (poiché evita che il Giudice assuma un ruolo creativo nell'individuare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è) assicurando, al contempo, la libera determinazione dell'individuo, cui consente di conoscere le conseguenze giuridico-penali del proprio agire (Corte cost., n. 364/1988).

In sostanza il principio di determinatezza, implicitamente ricavabile dall'art. 25, comma 2, Cost., è in funzione della “riconoscibilità ed intelligibilità del precetto penale in difetto dei quali la libertà e sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate” (Corte cost., n. 185/1992).

Nel giudizio complessivamente critico che la sentenza de Tommaso ha dato alla disciplina delle misure di prevenzione personali, la Corte europea, riferendosi al contenuto del vivere onestamente nel rispetto delle leggi”, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall'interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all'art. 9, l. n. 1423/1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011).

La sentenza in questione non ha determinato (e non poteva determinare) il significato della legge nazionale in quanto, come ha chiarito la Corte costituzionale, spetta al Giudice comune l'interpretazione del diritto interno, tenendo conto della giurisprudenza europea.

Le citate prescrizioni, con particolare riguardo alla rilevanza penale delle condotte che si configurino come violative delle stesse, sono state interessate di recente da un importante arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a una rilettura del diritto interno che fosse aderente alla CEDU e subordinata “al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme” (Corte cost., n. 349/2007 e Corte cost., n. 348/2007).

La Corte ha osservato che è dubbio che le menzionate prescrizioni “possano considerarsi vere e proprie prescrizioni, al pari di quelle menzionate nella stessa disposizione di cui all'art. 8, d.lgs. n. 159/2011, dal momento che non impongono comportamenti specifici, ma contengono un mero ammonimento "morale", la cui genericità e indeterminatezza dimostra l'assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice”.

Del resto, per quanto riguarda la prescrizione di vivere onestamente, si è visto che già la Corte costituzionale ne ha riconosciuto l'inidoneità a essere considerata come un obbligo specifico penalmente sanzionato, sebbene tale affermazione è stata riferita alla prescrizione valutata isolatamente.

D'altra parte – proseguono le S.U. - l'obbligo di rispettare le leggi si propone in termini talmente vaghi da presentare un deficit di determinatezza e di precisione che lo rende privo di contenuto precettivo; si tratta, insomma, di una prescrizione generale, che non indica alcun comportamento specifico da osservare nella misura in cui opera un riferimento indistinto a tutte le leggi dello Stato.

Essa non ha la struttura né la funzione di un'autentica fattispecie incriminatrice, dal momento che, da un lato, non consente di individuare la condotta o le condotte dal cui accertamento, nel caso concreto, derivi una responsabilità penale e, dall'altro, attribuisce uno spazio di incontrollabile discrezionalità al Giudice.

In realtà, quanto al primo profilo, ciò che difetta è soprattutto la conoscibilità da parte del destinatario delle specifiche condotte la cui inosservanza può determinare la responsabilità penale; non è un caso che, infatti, la Corte EDU abbia stigmatizzato proprio l'imprevedibilità causata dal generico riferimento al rispetto di tutte le leggi e delle disposizioni la cui inosservanza sarebbe sintomatico indizio del pericolo per la società (sentenza De Tommaso c. Italia).

Sotto l'altro profilo, anche l'interpretazione diretta a restringere la portata della norma alle sole violazioni delle norme penali e degli illeciti amministrativi di maggiore gravità non è in grado di ridimensionare la vasta discrezionalità che verrebbe riconosciuta al Giudice nel “comporre” il contenuto della norma incriminatrice, dal momento che potrebbe farvisi rientrare l'inosservanza di condotte colpose, pur di rilievo penale, ovvero operarsi scelte arbitrarie sugli illeciti amministrativi da prendere in considerazione.

Le norme penali sono norme precettive, in quanto funzionali ad influire sul comportamento dei destinatari, ma tale carattere difetta alle prescrizioni di "vivere onestamente e di rispettare le leggi", perché il loro contenuto, amplissimo e indefinito, non è in grado di orientare il comportamento sociale richiesto.

L'indeterminatezza delle due prescrizioni in esame è tale che impedisce la stessa conoscibilità del precetto in primo luogo da parte del destinatario e poi da parte del Giudice. Si osserva poi che: “il difetto di precettività insito nel generico obbligo di rispettare le leggi, che vale per ogni consociato, impedisce alla norma in questione di influire sul comportamento del destinatario, in quanto non sono individuate quelle condotte socialmente dannose, che devono essere evitate, e non sono prescritte quelle socialmente utili, che devono essere” (così testualmente Cass. S.U., n. 40076/2017).

In questa situazione di incertezza il sorvegliato speciale non è in condizione di conoscere e prevedere le conseguenze della violazione di una prescrizione che si presenta in termini così generali.

Ne consegue che il delitto in esame è integrato solo ed esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche, che hanno un autonomo contenuto precettivo.

Peraltro - e si tratta dell'ultimo snodo ermeneutico delle S.U. - se le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell'eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nell'ambito di un giudizio di prevenzione che deve affermare se un soggetto è pericoloso alla luce della sua precedente condotta, confrontata con i nuovi elementi acquisiti a giustificazione dell'aggravamento richiesto (Cass. I, n. 18224/2015; Cass. I, n. 23641/2014).

Le S.U. hanno, quindi, determinato una sorta di “abrogazione giurisprudenziale” della fattispecie di reato.

In conclusione, giova evidenziare che a poco più di un mese dal deposito della ricordata sentenza Paternò la Seconda sezione della Cassazione, dichiarandosi apertamente non soddisfatta della soluzione colà fornita, ha sollecitato l'intervento della Corte costituzionale perché dichiari l'illegittimità della disposizione penale in questione nella parte in cui sanziona la violazione dei due precetti in parola, considerati incompatibili con gli artt. 25 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU e all'art. 2 prot. 4CEDU, “interpretati alla luce della ratio decidendi espressa dalla sentenza della Corte EDU, Grande camera, De Tommaso c. Italia, del 23 febbraio 2017” (trattasi dell'ordinanza n. 49194/2017, Pres. De Crescienzo, Est. Recchione, Imp. Sorresso).

Il contrasto non concerne, dunque, il merito della questione, considerato che sia tanto le Sezioni Unite che la Seconda sezione concordano, in espressa adesione alle argomentazioni sviluppate dalla Corte europea nella ricordata sentenza De Tommaso, sulla incompatibilità con la Convenzione e con la stessa Costituzione italiana di un reato fondato su precetti tanto vaghi. 

Le differenze si concentrano, piuttosto, sul mezzo con cui pervenire al risultato di eliminare dal nostro ordinamento la norma incriminatrice in questione, o meglio la parte della norma incriminatrice che sanziona quelle due prescrizioni: tale compito non spetterebbe, a detta dei giudici della Seconda Sezione, al Giudice comune, bensì alla Consulta.

Ciò in quanto la ricordata “abrogazione giurisprudenziale” non consentirebbe l'incisione del giudicato, formatosi in seguito alla pronuncia di condanna del Giudice di merito.

L'“abrogazione interpretativa effettuata dalle Sezioni Unite altro non è” - secondo il collegio - “che la validazione di un evento abolitivo che trova la sua matrice nel diritto convenzionale”, e segnatamente nella sentenza De Tommaso. Tale considerazione impone al Giudice comune di seguire la strada segnata dalle sentenze “gemelle” Corte cost., n. 348/2007 e Corte cost., n. 349/2007, per l'eliminazione delle antinomie tra leggi ordinarie e diritto convenzionale: quella, cioè, della formulazione di una questione di costituzionalità fondata sull'art. 117, comma 1, Cost., assumendo come parametro interposto la stessa norma convenzionale violata.

Si è sul punto osservato che l'indeterminatezza della base legale delle misure di prevenzione italiane, vagliata dai giudici europei con riferimento al diritto alla libertà di circolazione di cui all'art. 2 prot. 4 CEDU, non può non ripercuotersi sull'indeterminatezza del precetto penale connesso alla violazione delle prescrizioni imposte al soggetto sottoposto alla misura e in particolare a quelle di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, sulle quali si erano appuntati gli strali della Corte EDU.

Tale indeterminatezza è destinata a tradursi in una censura di illegittimità in parte qua della disposizione in parola non solo sotto il profilo della sua incompatibilità con l'art. 2 prot. 4 CEDU, ma anche – nella misura in cui la violazione di quelle prescrizioni è penalmente sanzionata dall'art. 75, comma 2, c.a. – con il diritto al nullum crimen sine lege di cui all'art. 7 CEDU, entrambe le violazioni rilevando nell'ordinamento interno tramite il richiamo al principio del rispetto degli “obblighi internazionali” di cui all'art. 117, comma 1, Cost.; nonché in una censura di incompatibilità rispetto allo stesso parametro nazionale che sancisce il principio di legalità in materia penale, rappresentato dall'art. 25, comma 2, Cost.

In data 27 febbraio 2019 è stata depositata la sentenza n. 25 con la quale la Consulta ha risposto alle censure sollevate dalla Cassazione.

Come anticipato, la Corte di Cassazione, sezione seconda penale, con ordinanza del 26 ottobre 2017, aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 75, comma 2, n. 159/2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli artt. 1 e 2, l. n. 136/2010), in riferimento agli artt. 25 e 117 Cost. − quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con l. n. 848/1955, e all'art. 2 del Protocollo n. 4 della stessa Convenzione, adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963, reso esecutivo con d.P.R. n. 217/1982, interpretati alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, grande camera, 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia − nella parte in cui sanziona penalmente la violazione degli obblighi di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» connessi all'imposizione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno.

Il dubbio di costituzionalità si fondava essenzialmente sulla vaghezza, indeterminatezza e non prevedibilità di tale prescrizione − «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» − imposta «[i]n ogni caso» con la misura della sorveglianza speciale con conseguente violazione del principio di legalità prescritto in materia penale dalla Costituzione e del canone di prevedibilità sancito dalla CEDU.

Il giudizio a quo aveva ad oggetto la condotta di un sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno che aveva commesso un reato comune (nella specie, una rapina), del quale era stato ritenuto responsabile; la stessa condotta poi – hanno affermato i giudici di merito – aveva anche integrato la fattispecie del reato previsto dalla disposizione censurata (art. 75, comma 2) perché il sottoposto alla misura, nel commettere la rapina, aveva − parimenti (e inevitabilmente, con la stessa condotta) − violato anche l'obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi e, quindi, aveva commesso anche il reato di cui all'art. 75, comma 2.

Tale sentenza è oggetto del ricorso per cassazione, della cui cognizione era investita la Corte rimettente.

La Corte rimettente osservava che, sebbene la Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, 27 aprile-5 settembre 2017, n. 40076 (cosiddetta “sentenza Paternò”) avesse recentemente affermato che l'inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non integra la norma incriminatrice di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, tuttavia ciò non equivaleva ad una sopravvenuta abolitio criminis per successione della legge nel tempo, con la conseguenza che di ciò non poteva tenersi conto nel caso in esame.

Al contrario, se l'art. 75, comma 2, fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo, si avrebbe una situazione assimilabile all'abolitio criminis, che sarebbe rilevabile d'ufficio ai sensi dell'art. 129 c.p.p.

La stessa situazione si riproduce in sede di esecuzione della condanna passata in giudicato perché l'art. 673 c.p.p. prevede la revoca della sentenza per abolizione del reato; rimedio questo non esperibile dal condannato deducendo una giurisprudenza sopravvenuta secondo cui il fatto per cui è stata pronunciata la condanna non costituisce reato.

La Consulta ha condiviso queste osservazioni della Cassazione e si è pronunciata nel merito, ritenendo la questione fondata con riferimento agli artt. 7 CEDU e 2 del Protocollo n. 4 della stessa Convenzione.

La Corte di Cassazione rimettente ha posto le questioni di costituzionalità in riferimento sia al parametro nazionale (art. 25 Cost.) sia a quelli convenzionali (art. 7 CEDU e art. 2 del Protocollo n. 4 della stessa Convenzione), questi ultimi interposti per il tramite dell'art. 117, comma 1, Cost. E ciò ha fatto confrontandosi puntualmente con la giurisprudenza di questa Corte, della Corte EDU e delle Sezioni Unite della stessa Corte di Cassazione.

Le questioni si pongono infatti nel punto di confluenza della giurisprudenza delle tre Corti e segnatamente della sentenza n. 282/2010 della Consulta, della sentenza de Tommaso della Corte EDU e della sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, Cass. n. 40076/2017.

Il parametro nazionale evocato è il principio di legalità in materia penale (art. 25, comma 2, Cost.), che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso sia punito come reato; da ciò discende il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale; il canone di prevedibilità della condotta prevista dalla norma nazionale perché possa giustificarsi una limitazione della libertà personale preso in considerazione dalla sentenza de Tommaso della Corte EDU è a sua volta cristallizzato nell'art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione, nella parte in cui pone il principio di legalità con riferimento specifico alla libertà di circolazione che può subire solo le restrizioni «previste dalla legge».

La Corte EDU ha censurato il sistema nazionale delle misure di prevenzione ‒ quanto ai presupposti soggettivi e al loro contenuto − per essere formulato «in termini vaghi ed eccessivamente ampi» tali da non rispettare il criterio della «prevedibilità», come enunciato dalla giurisprudenza di quella Corte; la citata pronuncia della Corte EDU è stata decisiva nell'orientare la puntualizzazione giurisprudenziale espressa dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, Cass. n. 40076/2017 (cosiddetta “sentenza Paternò”).

Le Sezioni Unite penali si sono pronunciate con riferimento alla fattispecie penale di violazione delle prescrizioni della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, del tutto analoga a quella oggetto dell'ordinanza di rimessione: il sorvegliato speciale, nel commettere un reato comune, aveva (con la stessa condotta) violato anche l'obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi.

La conclusione è stata che «le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. 159/2011». Aggiungono le Sezioni Unite: «ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell'eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale».

Quindi, la giurisprudenza di legittimità ha già compiuto il processo di adeguamento e maggiore conformità ai principi della CEDU proprio con riferimento alla fattispecie oggetto dell'ordinanza di rimessione: non sussiste il reato previsto dal censurato art. 75, comma 2, allorché la violazione degli obblighi e delle prescrizioni della misura della sorveglianza speciale consista nell'inosservanza dell'obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi.

Orbene, la convergenza delle Sezioni Unite verso la citata pronuncia della Corte EDU segna l'arresto ultimo del diritto vivente, ben posto in risalto dall'ordinanza di rimessione: l'inosservanza dell'obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi, quale prescrizione della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, non integra la fattispecie di reato di cui al censurato art. 75, comma 2.

La declaratoria di incostituzionalità della disposizione e la relativa abolitio criminis appare, quindi, come il necessario completamento dell'operazione di adeguamento dell'ordinamento interno alla CEDU, già fatta dalle Sezioni Unite nei limiti in cui l'interpretazione giurisprudenziale può ritagliare la fattispecie penale escludendo dal reato condotte che prima si riteneva vi fossero comprese.

Nella fattispecie in esame ricorrono entrambi tali presupposti per completare, con riferimento alla norma oggetto delle questioni di costituzionalità, l'adeguamento alla CEDU in concordanza con quello già operato, in via interpretativa, dalla citata sentenza delle Sezioni Unite.

Sotto il primo profilo − anche se inizialmente tra i giudici di merito vi sono stati orientamenti non concordanti − la giurisprudenza di legittimità si è indirizzata nel senso di valutare la sentenza De Tommaso come idonea a fondare l'interpretazione convenzionalmente orientata di cui si è detto (“sentenza Paternò” delle Sezioni Unite).

Da ultimo, la Consulta (sentenza n. 24/2019) ha tenuto conto proprio della sentenza della Corte EDU e dell'esigenza di conformità al principio di prevedibilità, quale espresso da tale pronuncia, per dichiarare l'illegittimità costituzionale, in parte qua, dell'art. 1, l. n. 1423/1956, dell'art. 19, l. n. 152/1975 (Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico) e degli artt. 4, comma 1, lett. c), e 16 Codice Antimafia.

Sotto l'altro profilo, si ha che la valutazione di sistema all'interno dei parametri della Costituzione e il possibile bilanciamento con altri valori costituzionalmente tutelati non è affatto distonica, nella fattispecie, rispetto al pieno dispiegarsi dei parametri interposti.

Osserva, infatti, la Corte che l'esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati, che è al fondo della ratio delle misure di prevenzione e che si raccorda alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza, come valore costituzionale, è comunque soddisfatta dalle prescrizioni specifiche che l'art. 8 consente al Giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno.

Vi è poi da considerare, all'opposto, che la previsione come reato della violazione, da parte del sorvegliato speciale, dell'obbligo «di vivere onestamente» e «di rispettare le leggi» ha, da una parte, l'effetto abnorme di sanzionare come reato qualsivoglia violazione amministrativa e, dall'altra parte, comporta, ove la violazione dell'obbligo costituisca di per sé reato, di aggravare indistintamente la pena, laddove l'art. 71 Codice Antimafia già prevede come aggravante, per una serie di delitti, la circostanza che il fatto sia stato commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione della misura.

La Corte giunge, pertanto, alla conclusione che la norma censurata viola il canone di prevedibilità della condotta sanzionata con la limitazione della libertà personale, quale contenuto in generale nell'art. 7 CEDU e in particolare nell'art. 2 del Protocollo n. 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi dell'art. 117, comma 1, Cost.

In conclusione è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, nella parte in cui punisce come delitto l'inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” da parte del soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno.

Ma la Corte si è addirittura spinta oltre: le questioni sollevate dall'ordinanza di rimessione riguardano il delitto previsto dall'art. 75, comma 2, però gli stessi dubbi di costituzionalità possono porsi con riferimento al reato contravvenzionale di cui al comma 1 della medesima disposizione che prevede analogamente la violazione degli obblighi inerenti la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, ma senza obbligo né divieto di soggiorno, allorché le prescrizioni consistono nell'obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi (reato che parimenti la giurisprudenza di legittimità ritiene in via interpretativa non più configurabile dopo la richiamata pronuncia delle Sezioni Unite (ex plurimis, Cass. VII, n. 11171/2018).

Pertanto, in via consequenziale e per le stesse ragioni è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 75, comma 1, Codice Antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno, ove consistente nell'obbligo di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.

Da segnalare due ulteriori modifiche sopravvenute per effetto di altrettante pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione, delle quali ancora non si conoscono le motivazioni: all'udienza del 28 marzo 2019 si è, infatti, risolta in modo negativo la questione se la partecipazione di un soggetto sottoposto a misura di prevenzione ad una manifestazione sportiva tenuta in un luogo aperto al pubblico integrasse o meno il reato di violazione delle prescrizioni di cui agli artt. 8 e 75 del Codice Antimafia; la soluzione, come detto, è stata di segno negativo in quanto l'art. 8 citato si riferisce esclusivamente alle “riunioni” in luogo pubblico.

All'udienza del 31 gennaio 2019, invece, le Sezioni Unite hanno affermato che l'art. 80 del Codice, che impone l'obbligo per i soggetti sottoposti a misura di prevenzione di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è punita penalmente ai sensi dell'art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159/2011, si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura sia divenuto definitivo in data anteriore all'introduzione di tale obbligo.

Le ricadute concrete della declaratoria di incostituzionalità

Il tema dei rapporti tra il portato delle citate sentenze della Consulta e la possibilità di revocare una sentenza di condanna per il citato reato di cui all'art. 75 del Codice Antimafia è stato oggetto di due interessanti pronunce della Suprema Corte: nell'un caso, la questione riguardava le ricadute della declaratoria di illegittimità delle norme che individuavano talune forme di pericolosità sociale “semplice” mentre, nell'altro, la questione concerneva il tema del riesame della pericolosità sociale alla luce della pronuncia del 2013 che lo ha imposto nell'ipotesi di sospensione dell'esecuzione della misura per un periodo superiore a due anni.

Con la sentenza n. 34026/2020, si è affermato che è legittimo il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca della sentenza definitiva di condanna per il reato di cui all'art. 75, n. 159/2011, formulata sulla base della indicazioni interpretative contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 24/2019 in merito alla categoria di pericolosità generica di cui all'art. 1, comma 1, lett. b) del citato d.lgs., trattandosi di una verifica, non già del contenuto della sentenza, quanto della perdurante "base legale" del provvedimento presupposto dell'illecito penale che è di esclusiva competenza del Giudice della prevenzione, ai sensi dell'art. 11, comma 2, d.lgs. n. 159/2011.

Nel caso posto all'attenzione della Corte, il Giudice della esecuzione aveva respinto una domanda di revoca di alcune sentenze di condanna per il reato di cui all'art. 75 evidenziando, in sintesi, che: a) le violazioni delle prescrizioni correlate all'applicazione della misura di prevenzione personale restano punibili, sia in riferimento alla specificità delle violazioni che in ragione della categoria tipica di pericolosità sociale riconosciuta nel decreto applicativo. In particolare si afferma che la misura di prevenzione era basata (quanto alle invocate ricadute di Corte cost., n. 24/2019) non soltanto sulla ipotesi di cui all'art. 1, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 159/2011 (disposizione dichiarata incostituzionale) ma anche su quella prevista dall'art. 1, comma 1, lett. b), disposizione rimasta in vigore ; b) le indicazioni interpretative contenute nella citata decisione del Giudice delle leggi n. 24/2019, quanto alla categoria tipica di pericolosità di cui all'art. 1, comma 1, lett. b), non potrebbero - si afferma - dar luogo ad una revoca della decisione di condanna, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., trattandosi di un mutamento di interpretazione che non modifica il contenuto della disposizione incriminatrice.

Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l'interessato, deducendo erronea applicazione di legge, in riferimento all'art. 1 del d.lgs. n. 159/2011 - così come modificato e interpretato dalla Corte costituzionale nella decisione n. 24/2019 - ed in riferimento all'art. 673 c.p.p.

Ciò premesso, la Corte ha ritenuto il ricorso infondato.

Si è rilevato che la decisione impugnata - così come il ricorso - non affronta un tema preliminare che il Collegio ritiene non eludibile: è stato chiesto, nell'istanza originaria, un apprezzamento - al Giudice della esecuzione penale - della perdurante «validità» (rispetto al contenuto della decisione n. 24/2019 Cost.) di un provvedimento emesso dal Tribunale della prevenzione, provvedimento che assume i connotati del «presupposto» degli obblighi e delle prescrizioni violate, oggetto dei giudizi definitivi di condanna (per il reato di cui all'art. 75, d.lgs. n. 159/2011): ciò in rapporto ad una serie di condotte che non riguardano - è bene precisare - la generica prescrizione del 'vivere onestamente e rispettare le leggi', oggetto di specifica declaratoria di illegittimità costituzionale (con sent. n. 25/2019) e che risulterebbero, pertanto, tuttora punibili.

La domanda, in altre parole, non involge in via diretta il contenuto della previsione incriminatrice (art. 75, d.lgs. n. 159/2011) ma sposta la verifica sulla possibilità o meno di ritenere «quel» decreto applicativo della misura di prevenzione tuttora valida 'fonte di produzione' degli obblighi violati, in virtù dell'assetto complessivo delle previsioni di legge in tema di pericolosità soggettiva realizzato dal Giudice delle leggi nella decisione n. 24/2019; tuttavia, tale tipologia di domanda non può rientrare negli ambiti cognitivi del Giudice della esecuzione penale, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., trattandosi di una attività di verifica che, come si è anticipato, non riguarda i contenuti della disposizione incriminatrice (l'art. 75 è norma che descrive esclusivamente le conseguenze della violazione di obblighi e prescrizioni imposte in virtù della sottoposizione alla misura) quanto la «rispondenza» dei contenuti del decreto applicativo della misura di prevenzione alla complessa ricognizione di «validità costituzionale» realizzata dal Giudice delle leggi con il più volte citato approdo (sent. n. 24/2019, con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale della previsione di cui all'art. 1, comma 1, lett. a) e sono state operate rilevanti precisazioni interpretative quanto alla ipotesi di cui alla lettera b) della medesima disposizione di legge).

In particolare, va osservato che se è vero che l'evoluzione giurisprudenziale maturata nella sede di legittimità, in tema di poteri del Giudice della esecuzione, ha ritenuto possibile l'apprezzamento dei contenuti di decisioni emesse dalla Corte costituzionale non comportanti una abolitio criminis ma potenzialmente incidenti sul giudicato (le Sezioni Unite di questa Corte, con la nota decisione Gatto del 2014 hanno affermato, come è noto, il principio di diritto per cui anche la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice può comportare modifiche al giudicato di condanna), ciò è avvenuto in rapporto a pronunzie di illegittimità che avevano comunque ad oggetto uno degli aspetti contenutistici (ad es. il trattamento sanzionatorio) della previsione incriminatrice.

Il caso in esame si caratterizza, invece, per la necessità di una verifica non già dei contenuti di una sentenza penale in rapporto alla fattispecie astratta oggetto di applicazione, quanto per l'esistenza di un dubbio circa la perdurante «base legale» del provvedimento posto 'a monte' dell'illecito penale, rappresentato dal decreto applicativo della misura di prevenzione in rapporto ora per allora - ai contenuti della sopravvenuta decisione della Corte costituzionale n. 24/2019, in parte demolitiva (con efficacia invalidante e portata retroattiva correlata alla tipica declaratoria di illegittimità costituzionale, sulla ipotesi della lettera a dell'art. 1) ed in parte interpretativa di rigetto (circa «ipotesi della lettera b) dell'art. 1, con effetti oggetto di diversità di apprezzamento nella stessa giurisprudenza di questa Corte di legittimità). Sta di fatto che, come evidenziato in alcuni arresti di questa Corte di legittimità posteriori al decisum del Giudice delle leggi (v. Sez. I, n. 11661/2020, Rv. 278738, ric. Pilato) simile decisione è di esclusiva competenza, in sede di decisione su domanda di revoca (ai sensi dell'art. 11, comma 2 del d.lgs. n. 159/2011) del Tribunale della prevenzione e non può, pertanto, essere oggetto di una valutazione incidentale da parte del Giudice della esecuzione penale. L'attribuzione del potere di revoca della misura di prevenzione al Giudice che ha emesso il relativo provvedimento ricomprende, in tutta evidenza, anche il caso di revoca per una sopravvenienza «in diritto» e non può essere esercitato da una diversa autorità giudiziaria, trattandosi di attribuzione tipica e tassativa; la domanda di sindacato sulla perdurante «base legale» della misura di prevenzione andava dunque rivolta, in via preliminare, al Giudice competente ai sensi dell'art. 11, d.lgs. n. 159/2011.

In conclusione, il ricorso è stato rigettato evidenziando che solo nella - eventuale - ipotesi di accoglimento della previa domanda di revoca ex tunc del decreto applicativo della misura di prevenzione può porsi, innanzi al Giudice dell'esecuzione penale, il tema delle ricadute di tale evento revocatorio sul giudicato penale di condanna per la violazione di prescrizioni correlate alla misura in questione (si veda, in termini generali ed in rapporto al giudizio di cognizione, quanto affermato da Sez. I, n. 44601/2008, Rv. 241911, secondo cui la revoca ex tunc della misura di prevenzione rende penalmente irrilevante la condotta di violazione degli obblighi o delle prescrizioni imposte).

Il secondo caso riguarda, invece, il tema della domanda di revoca di una condanna definitiva per il delitto di cui all'art. 75 a fronte dell'assenza di previa verifica dell'attualità della pericolosità: sul tema si è affermato (Cass. I, n. 31214/2020) che in caso di condanna definitiva relativa al reato di cui all'art. 75, d.lgs. n. 159/2011 la domanda di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 c.p.p. non può trovare accoglimento, in riferimento alle ricadute della sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale n. 291/2013, in tutte le ipotesi in cui la sottoposizione alla misura di prevenzione rimasta sospesa, senza previa verifica di ufficio della pericolosità, sia avvenuta prima della pubblicazione della sentenza medesima. In quel caso, iI ricorrente aveva rappresentato che la nuova sottoposizione alla misura di prevenzione, rimasta sospesa per lo stato detentivo, era avvenuta ben prima del sopravvenire della sentenza n. 291/2013 e che l'omissione della verifica ex officio della persistenza della pericolosità (aspetto oggetto della decisione n. 291/2013 della Corte cost.) avrebbe determinato l'illegittimità di tale riattivazione della misura di prevenzione, che a sua volta non potrebbe che travolgere l'affermazione di responsabilità per il reato di violazione delle prescrizioni imposte, anche se giudicato con sentenza irrevocabile.

La rimozione del giudicato non sarebbe imposta da un mutamento interpretativo giurisprudenziale ma sarebbe, secondo il ricorrente, un effetto diretto della sentenza n. 291/2013 della Corte costituzionale.

Il ricorso è stato anche qui giudicato infondato.

È aspetto pacifico – nell'interpretazione giurisprudenziale offerta al contenuto dell'art. 673 c.p.p. - quello evocato dal Giudice della esecuzione, nel senso che il 'semplice' mutamento interpretativo della disposizione incriminatrice non può dar luogo alla revoca della sentenza definitiva emessa in base all'orientamento precedente e meno favorevole (in tal senso, da ultimo v. Sez. I, n. 10458/2019, Rv. 276294); ciò deriva dal fatto che la ricognizione interpretativa dei contenuti precettivi della disposizione di legge (pur se operata dalle Sezioni Unite) non può essere equiparata, quanto a natura ed effetti, ad una abolitio criminis o a una declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice (condizioni normative della revoca della sentenza definitiva), come confermato dalla stessa Corte costituzionale nella nota decisione n. 230/2012; in tale decisione il Giudice delle leggi ha affermato, in particolare che « ... non può ritenersi manifestamente irrazionale che il legislatore, per un verso, valorizzi, anche in ossequio ad esigenze di ordine costituzionale, la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, e delle Sezioni Unite in particolare - postulando, con ciò, che la giurisprudenza successiva si uniformi «tendenzialmente» alle decisioni di queste ultime - e, dall'altro, ometta di prevedere la revoca delle condanne definitive pronunciate in relazione a fatti che, alla stregua di una sopravvenuta diversa decisione dell'organo della nomofilachia, non sono previsti dalla legge come reato, col risultato di consentire trattamenti radicalmente differenziati di autori di fatti analoghi. L'orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni Unite "aspira" indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: ma - come lo stesso rimettente riconosce - si tratta di connotati solo «tendenziali», in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente "persuasivo". Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell'organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque Giudice della Repubblica, sia pure con l'onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni Unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto. In questa logica si giustifica, dunque, il mancato riconoscimento all'overruling giurisprudenziale favorevole della capacità di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti: esigenza il cui fondamentale rilievo è ampiamente riconosciuto anche nell'ambito dell'Unione europea ... Al fine di porre nel nulla ciò che, di per sé, dovrebbe rimanere intangibile - il giudicato, appunto - il legislatore esige, non irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale di una determinata condotta con connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità...».

Da tale assetto ermeneutico deriva, pertanto, che la revoca della sentenza di condanna si giustifica o in rapporto all'intervenuta abolitio criminis legislativa o in rapporto all'emissione di sentenza dichiarativa della illegittimità costituzionale della previsione incriminatrice, con la sola particolare eccezione del caso in cui il fenomeno abolitivo - a carattere generale - intervenuto prima della condanna sia stato ignorato dal Giudice della cognizione ( v. S.U. n. 26259/2015, dep. 2016, secondo cui II Giudice dell'esecuzione può revocare, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., una sentenza di condanna pronunciata dopo l'entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorché l'evenienza di "abolitio criminis" non sia stata rilevata dal Giudice della cognizione).

Tuttavia, nel caso di specie l'istante evidenzia che - al di là delle variazioni di interpretazione giurisprudenziate della previsione incriminatrice - viene in rilievo il portato di una sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale (Corte cost., n. 291/2013), prospettata dalla difesa come «incidente» sulla affermazione di penale responsabilità, il che ha imposto alla Corte di estendere l'analisi interpretativa, prendendo in esame i contenuti della sentenza n. 291/2013 e la sua potenziale proiezione sull'illecito penale oggetto di contestazione - nel giudizio definito con sentenza irrevocabile - nei confronti dell'attuale ricorrente.

Com'è noto, con decisione n. 291 emessa in data 6 dicembre 2013 è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 12 della l. n. 1423/1956 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l'esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l'organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato nel momento dell'esecuzione della misura; in via conseguenziale, è stata dichiarata per le stesse ragioni e nei medesimi termini la illegittimità costituzionale dell'art. 15 del d.lgs. n. 159/2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli artt. 1 e 2 della l. n. 136/2020).

La sentenza testè citata ha una dimensione e una portata essenzialmente procedimentale, come emerge dai suoi contenuti argomentativi; si è ritenuta - in tale arresto - irragionevole la distinzione di trattamento normativo di due situazioni analoghe, rappresentate dalla sottoposizione a misura di sicurezza personale post giudicato di condanna (lì dove la legge prevede una doppia valutazione in punto di ricorrenza della condizione di pericolosità, al momento della decisione ed al momento della esecuzione ai sensi dell'art. 679 c.p.p.) ed alla sottoposizione a misura di prevenzione personale differita per lo stato detentivo del destinatario (lì dove la legge non prevedeva rivalutazione ex officio della condizione di pericolosità prima della esecuzione, ma onerava la parte di proporre istanza di revoca della misura ai sensi dell'art. 7 della l. n. 1423/1956).

Non si tratta, ferma restando la sua indubbia rilevanza, di una decisione che ha - dunque - inciso sui connotati sostanziali della misura di prevenzione personale (come, ad esempio è accaduto con la decisione n. 24/2019 Corte cost., abolitiva di una delle previsioni di legge in tema di pericolosità semplice) quanto di una decisione che ha reso obbligatorio ciò che in precedenza veniva rimesso alla iniziativa della parte interessata (la conferma della attualità di una condizione già espressa in sede cognitiva); trattandosi di una sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale relativa alla dimensione di validità del procedimento esecutivo della misura di prevenzione, la Suprema Corte, nelle decisioni emesse su ricorsi proposti in fase di cognizione, non ha riconosciuto una portata «demolitoria» di tale pronunzia a tutte le situazioni in cui l'applicazione della misura di prevenzione personale era «fonte» di responsabilità penale (per la violazione degli obblighi imposti, incriminata dall'art. 75, d.lgs. n. 159/2011), dovendo individuarsi - per principio generale - il limite delle «situazioni esaurite».

Così, in particolare, Cass. I, n. 36583/2017 ha, con argomentazioni di particolare ampiezza, affermato che la decisione n. 291/2013 Corte cost. «non appare idonea ad incidere sulla situazione ormai definita» ossia su una misura di prevenzione la cui esecuzione si è ormai esaurita al momento di pubblicazione della sentenza; il tema è stato posteriormente ripreso da Cass. I, n. 42703/2019, che ha esteso l'irrilevanza del decisum del Giudice delle leggi - data la sua natura procedimentale -, sulla penale responsabilità ex art. 75, d.lgs. n. 159/2011, intendendo per situazione esaurita l'avvenuta «sottoposizione» alla misura di prevenzione in epoca antecedente alla emissione della sentenza (pur essendo la misura di prevenzione ancora in atto in tale data), anche in ragione della esistenza, sino al dicembre del 2013, dello strumento processuale della revoca ad istanza di parte.

Tali decisioni, peraltro, non risultano in contrasto con l'arresto delle Sezioni Unite (sent. n. 51407/2018): la vicenda concreta che ha portato alla decisione delle S.U. è infatti rappresentata da una sottoposizione alla misura di prevenzione personale rimasta sospesa - senza rivalutazione ex officio della persistenza della pericolosità - avvenuta in epoca posteriore alla pubblicazione della sentenza n. 291/2013 più volte citata (sottoposizione del 4 agosto 2016); in nessun passaggio argomentativo della decisione viene trattato il tema delle sottoposizioni a misura di prevenzione (rimaste sospese per stato detentivo) antecedenti alla data del 6 dicembre 2013 e, pertanto, il principio di diritto espresso in tale arresto (per cui nei confronti del soggetto destinatario della sorveglianza speciale rimasta sospesa, in assenza della rivalutazione dell'attualità e persistenza della pericolosità sociale, al momento della nuova sottoposizione, non è configurabile il reato di violazione degli obblighi di cui all'art. 75, d.lgs. n. 159/2011) va inteso riferito a tutti i casi in cui la riattivazione o esecuzione della misura di prevenzione personale sia avvenuta in epoca posteriore alla pubblicazione della decisione della Corte costituzionale, in virtù del rapporto ineludibile tra estremi del caso trattato e decisione adottata.

Tornando al caso in esame, si è osservato che pur volendosi ipotizzare - in linea teorica - una potenziale incidenza post giudicato dei contenuti della decisione dichiarativa di illegittimità costituzionale n. 291/2013, la pre-condizione per un eventuale intervento di rimozione del giudicato (correlato alla inefficacia della fonte di penale responsabilità, rappresentata dall'obbligo violato) sarebbe rappresentata dall'esistenza - in fatto - di una sottoposizione alla misura di prevenzione (senza previo riesame ex officio della pericolosità) posteriore al dictum della Corte costituzionale, mentre nel caso del ricorrente ci si trova di fronte ad una sottoposizione avvenuta in epoca di molto anteriore il che esclude in radice - per il limite delle situazioni esaurite, in precedenza illustrato - qualunque spazio valutativo a fini di revoca della sentenza di condanna.

In conclusione, nel disporre il rigetto del ricorso, è stato espresso il seguente principio di diritto: “in caso di condanna definitiva relativa al reato di cui all'art. 75, d.lgs. n. 159/2011 (per la violazione, in particolare, dell'obbligo di permanenza presso l'abitazione in ore notturne), la domanda di revoca della sentenza di condanna ai sensi dell'art. 673 c.p.p. non può trovare accoglimento, in riferimento alle ricadute della sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale n. 291/2013, in tutte le ipotesi in cui la sottoposizione alla misura di prevenzione rimasta sospesa, senza previa verifica di ufficio della persistenza della pericolosità, sia avvenuta prima della pubblicazione della sentenza medesima”.

Si segnala un recente arresto della Corte costituzionale nella materia della rilevanza penale delle condotte del soggetto sottoposto a misure di prevenzione: con la sentenza n. 116 del 2 luglio 2024 il giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 73 del Codice Antimafia per contrasto con gli articoli 3 e 25 della carta costituzionale “nella parte in cui prevede come reato la condotta di colui che – sottoposto a misura di prevenzione personale con provvedimento definitivo, ma senza che per tale ragione gli sia stata revocata la patente di guida – si ponga alla guida di un veicolo dopo che il titolo abilitativo gli sia stato revocato o sospeso a causa di precedenti violazioni del codice della strada”.

La Corte ha ritenuto fondata la questione dedotta dal Tribunale di Nuoro con riferimento all'art. 25 citato, affermando che la disposizione censurata - incriminando colui che, sottoposto a misura di prevenzione definitiva, guidi senza patente anche nei casi in cui la revoca o la sospensione conseguano non già all'applicazione della misura di prevenzione, ma alla precedente violazione del codice della strada - non è compatibile con il principio di offensività dopo che, in generale, il reato di guida senza patente o con patente sospesa o revocata è stato depenalizzato e trasformato in illecito amministrativo.

La previsione di una fattispecie penale, si sottolinea, che abbia come presupposto una qualità della persona che non si riflette su una maggiore pericolosità o dannosità della condotta, dà luogo ad una inammissibile responsabilità penale cd. di autore; nemmeno si rinviene alcuna giustificazione, sotto il profilo del principio di eguaglianza, che possa ascriversi a un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello stabilito oggi per tutti gli altri soggetti, per i quali la condotta integra solo un illecito amministrativo, salvo il caso della recidiva nel biennio.

Ne consegue che si riespande la fattispecie prevista dal codice della strada, all'art. 116 comma 5, con l'applicazione della sola sanzione ammnistrativa; ne consegue, altresì, la possibilità di ottenere la revoca  di eventuali sentenze di condanna irrevocabili per il delitto di cui all'art. 73 citato. 

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