Lo sfruttamento delle opere del design industriale tutelate dal diritto d’autore
27 Settembre 2023
Il caso La vicenda giudiziale che ha condotto alla pronuncia in commento inizia, per quanto riguarda la fase di cognizione, con l'atto di citazione (che segue un procedimento cautelare che aveva coinvolto le medesime parti) notificato al noto designer tedesco Dieter Rams e alla società Vitsoe Ltd da parte di De Padova S.r.l. e Boffi S.p.A. Queste ultime, ritenendosi legittimate alla produzione e commercializzazione del sistema “606 Universal Shelving System” – nota scaffalatura modulare minimalista – nonché dell'uso del nome dell'autore del design associato a tale prodotto – anche a seguito della cessazione del rapporto contrattuale che li legava al Sig. Rams e alla Vitsoe Ltd, asseriti titolari dei relativi diritti d'autore e di licenza su tale design industriale – chiedevano al Tribunale di Milano di accertare che le descritte condotte non configuravano atti di concorrenza sleale essendo, al contrario, configurabili in capo alle convenute (Sig. Rams e Vitsoe Ltd) per aver intimato alle attrici l'interruzione dell'uso del nome del noto designer in associazione al sistema suddetto e la commercializzazione dello stesso sistema “606 Universal Shelving System”. Tali condotte delle convenute, secondo la prospettazione attorea, configuravano altresì un abuso di diritto e una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei contratti siglati tra le parti nel 1984 e poi rinnovati nel 1995. Sulla base di tale ricostruzione in fatto le attrici chiedevano che venisse inibito alle convenute l'ulteriore ripetizione delle condotte contestate e il relativo risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle illecite condotte lamentate. In aggiunta a ciò, per quanto riguardava il nome del noto designer autore del sistema oggetto di causa, le attrici contestavano la congruità del termine di soli tre (3) mesi, previsto espressamente dal contratto ed esercitato da quest'ultimo al momento della risoluzione dell'accordo, chiedendo che il Tribunale assegnasse un termine maggiormente congruo, con indennizzo dei pregiudizi ed i costi conseguenti a tale comportamento. Tale termine, secondo la ricostruzione attorea, risultava essere inadeguato alla natura del rapporto durato per quasi un ventennio. Si costituivano in giudizio le convenute chiedendo il rigetto delle domande attoree nonché, in via riconvenzionale, l'accertamento della violazione dei diritti di privativa sia del designer che della società Vitsoe Ltd – quest'ultima quale titolare dei diritti di sfruttamento economico dell'opera del design industriale suddetta – per la commercializzazione della “606 Universal Shelving System” in qualsiasi materiale realizzata nonché per l'uso da parte di De Padova s.r.l. della denominazione “606 System” in luogo di quella autorizzata nel contratto del 1995. All'esito del giudizio, il Tribunale, preso atto che il design oggetto di causa dovesse godere della tutela autorale come riconosciuto (e non contestato) da entrambe le parti nonché come provato nel corso del procedimento, in parziale accoglimento delle domande attoree indicava quale termine congruo di preavviso per la risoluzione del rapporto di licenza quello di sei (6) mesi a decorrere dalla data di pubblicazione della sentenza (termine più lungo rispetto a quello previsto contrattualmente) e dichiarava che l'attività di produzione, commercializzazione e pubblicizzazione del sistema “606 Universal Shelving System” non violavano i diritti delle convenute, rigettando ogni ulteriore domanda attorea. Di converso, Il Tribunale dichiarava che tali suddette attività delle attrici costituivano una violazione dei diritti morali e patrimoniali dell'autore del suddetto sistema e ne inibivano l'ulteriore prosecuzione oltre la scadenza del termine di preavviso rideterminato tramite la pronuncia (sei mesi dalla pubblicazione) con fissazione di una penale per ogni violazione dell'ordine emanato. Il Tribunale decideva di rigettare le domande attoree sulla scorta del fatto che la tutela autorale delle opere del design industriale era stata introdotta non prima del D.Lgs. 95/2001, dunque successivamente all'accordo sancito tra le parti, il che comportava la nullità di ogni accordo stipulato precedente (nel 1984 e nel 1995) perché privo di causa vista l'inesistenza della tutela giuridica del design industriale, cosa di cui peraltro entrambe le parti erano consapevoli secondo quanto emerso in corso di causa. A nulla rilevava il fatto che il Sig. Rams e De Padova S.r.l., nel 1995, avessero concluso un accordo avente ad oggetto l'utilizzo del nome del primo in associazione con il sistema suddetto dietro pagamento di una royalties, considerato che il relativo diritto d'autore (insistente, secondo il Tribunale, su ogni versione della libreria, compresa quella in alluminio che secondo le attrici non risultava attribuibile al Sig. Rams) non esisteva al tempo della conclusione dell'accordo e, pertanto, non poteva essere stato ceduto. Il comportamento tenuto dalle parti nel corso degli anni successivi a tale data doveva quindi intendersi quale concessione di licenza tacita temporanea di utilizzo del diritto d'autore spettante al creatore dell'opera. Le attrici provvedevano a impugnare la sentenza presso la Corte di Appello di Milano. Il gravame veniva tuttavia rigettato per una pluralità di ragioni. In primo luogo, la Corte riteneva irrilevanti le pattuizioni contenute nel contratto del 1984 concluso dalle parti dato che tale accordo era stato dichiarato nullo dal giudice di prime cure e tale rilievo non era stato impugnato, divenendo dunque definitivo. Inoltre, la Corte rilevava come fosse irrilevante stabilire, come richiesto dalle parti in sede di gravame, se l'opera godeva o meno dei requisiti previsti dalla legge d'autore sulla scindibilità del valore artistico dell'opera dal carattere industriale del prodotto al quale è associata per determinare la sussistenza del diritto d'autore sul disegno industriale (L. 633/1941) anche prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 95/2001, considerato che tale diritto certamente non poteva esistere (perché non riconosciuto) al momento della conclusione di entrambi gli accordi siglati nel 1984 e 1995. In aggiunta a ciò, la Corte riteneva che il diritto d'autore sull'opera del design industriale, sorto in capo all'autore successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. 95/2001, non fosse mai stato trasferito a De Padova S.r.l., con la conseguenza che ogni ulteriore commercializzazione del sistema “606 Universal Shelving System” costituiva una lesione dei diritti patrimoniali dell'autore, come anche riconosciuto dal Tribunale, il quale aveva accertato le condotte di produzione, commercializzazione e pubblicizzazione di tale prodotto dovevano considerarsi illecite se poste in essere successivamente al termine dettato dallo stesso Tribunale (ossia sei mesi a partire dalla pubblicazione della sentenza di prime cure). Basandosi su tali considerazioni la Corte d'Appello rigettava tutte le restanti domande delle appellanti. La sentenza della Corte di Appello veniva successivamente impugnata da De Padova S.r.l. e Boffi S.p.A. e resistevano, depositando il relativo controricorso, l'autore del sistema suddetto nonché Vitsoe Ltd. Nel giudicare inammissibile tale ricorso la Cassazione ricorda quali sono i criteri fondamentali per la deduzione dei motivi di ricorso e, indirettamente, conferma quanto sancito prima dal Tribunale e, in parte, confermato dalla Corte d'Appello poi sulle regole probatorie della risoluzione dell'accordo di licenza sull'opera del design industriale nonché sui principi che regolano il trasferimento dei diritti d'autore. Pertanto, il presente commento rammenterà non solo i passaggi relativi alla presente sentenza, ma riassumerà i punti principali divenuti definitivi con il passaggio in giudicato (considerata l'inammissibilità del ricorso proposto) dei principi dettati dalle pronunce di merito. Le questioni Le questioni giuridiche affrontate dalla Suprema Corte sono essenzialmente due.:
Le soluzioni giuridiche La Corte, come già si è accennato, dichiarava il ricorso inammissibile e condannava le ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, oltre all'ulteriore versamento dell'importo del contributo previsto – che di fatto si sostanzia in un “raddoppio” del contributo già pagato una volta dalle ricorrenti per presentare il ricorso – sempre in solido tra loro, come previsto dal prevalente orientamento giurisprudenziale in caso di inammissibilità o improcedibilità del ricorso (si veda, tra le tante, Cass. 18 ottobre 2022 n. 30702). La ragione di tale decisione risiedeva in due motivi:
Calandosi nel caso in esame, la Suprema Corte rilevava come la Corte di Appello avesse certamente fornito una motivazione in linea con il minimo costituzionale imposto dalla legge e interpretato dalla giurisprudenza relativamente all'interpretazione del rapporto contrattuale intercorso tra le parti, analizzato alla luce dei criteri e dei principi previsti dagli artt. 1362 fino a 1371 c.c. (si veda, a tal proposito, Cass. SU 7 aprile 2014 n. 8053), non potendo la Corte di Cassazione analizzare questioni che si sostanzino in un nuovo apprezzamento dei fatti e delle prove fornito dal giudice del merito. Sulla base di ciò, la Cassazione continuava sottolineando come non è indispensabile, in ossequio alle indicazioni fornite dall'art. 132 c. 1 n. 4 c.p.c., che la motivazione esamini ogni singola argomentazione addotta dalle parti e confutarle, essendo necessario e sufficiente che il giudice indichi chiaramente le ragioni del proprio convincimento in modo che risultino logicamente incompatibili – e debbano considerarsi rigettate implicitamente – gli argomenti contrari. Allo stesso modo, la Corte dichiarava inammissibile altresì la doglianza della ricorrente specificamente riferita all'asserita violazione dei criteri ermeneutici di interpretazione dei contratti (prevista nel dettato normativo compreso tra gli artt. 1362 -1371 c.c.), in quanto tale sindacato costituisce un tipico accertamento riservato al giudice del merito, insuscettibile di essere nuovamente discusso o analizzato in sede di giudizio di legittimità. Sul punto la Cassazione osservava come tale sindacato non può investire il risultato logico derivante dall'applicazione di tali criteri, quanto piuttosto la mera verifica del rispetto e applicazione del giudice di tali canoni: per tale ragione è imprescindibile che la ricorrente, qualora voglia lamentare la mancata applicazione di tali criteri, specifichi nei propri motivi di ricorso dei canoni in concreto violati punto per punto e in che modo il giudice del merito abbia disatteso tali disposizioni. Per tali ragioni, non può ritenersi ammissibile una censura che lamenta la contrapposizione dell'interpretazione del ricorrente a quella accolta nella decisione impugnata, essendo sufficiente che il giudice abbia indicato quale delle possibili interpretazioni abbia scelto, tra tutte quelle astrattamente possibili, e che tale interpretazione sia il risultato dell'applicazione dei criteri ermeneutici sopra richiamati. Osservazioni Come già sottolineato, la pronuncia risulta rilevante non solo per la precisa analisi delle ragioni di inammissibilità del ricorso, che forniscono agli operatori di diritto nuovi spunti su come presentare i propri motivi di ricorso in Cassazione per evitare che essi violino le disposizioni che vietano il riesame delle questioni già affrontate dal giudice merito, ma altresì per via del fatto che mantiene fermi alcuni importanti principi in materia di sfruttamento delle opere del design industriale protette dal diritto d'autore. Di particolare importanza, ai fini dalla vicenda intercorsa, risulta essere il principio secondo cui il diritto d'autore (nel caso di specie, su un'opera di design industriale) deve risultare chiaramente da un accordo scritto. Secondo le disposizioni dettate dalla Legge sul diritto d'autore (L. 633/1941) e, in particolare, secondo quanto previsto dall'art. 110 L. 633/1941, la trasmissione dei diritti patrimoniali su un'opera protetta da diritto d'autore deve provarsi per iscritto. Dunque – come accaduto nel caso di specie – il comportamento tollerante di una parte (in questo caso il Sig. Rams) che si concretizza nella non opposizione allo sfruttamento economico della sua opera anche per periodo di tempo rilevante, non può interpretarsi quale cessione definitiva del diritto d'autore a titolo gratuito, ma deve considerarsi quale licenza tacita all'utilizzazione dell'opera. Pertanto, la trasmissione di tali diritti di utilizzazione deve essere provata tramite atto scritto e non per fatti concludenti. Tale principio veniva affermato nella precedente sentenza della Corte di Appello di Milano impugnata e resta immutato anche ai sensi della pronuncia qui in esame. Alla luce di ciò risulta particolarmente importante, per tutti coloro che debbano acquisire diritti sullo sfruttamento di un'opera protetta dal diritto d'autore, prevedere specificamente nel testo contrattuale l'oggetto del contratto e il relativo passaggio dei diritti patrimoniali e connessi allo sfruttamento dell'opera (ricordiamo, a tal proposito, che la paternità dell'opera è sempre da riconoscere all'autore e non può essere trasferita, in quanto diritto personale), in modo che non vi siano dubbi che si possa trattare di una semplice licenza su tali diritti di sfruttamento economico ed utilizzazione dell'opera. Il secondo tema interessante è quello del preavviso minimo da garantirsi nei casi di risoluzione di un contratto di licenza avente ad oggetto – come nel caso di specie – la produzione e vendita di beni dietro concessione del relativo diritto d'autore. Come si è visto, la vicenda coinvolgeva parti tra le quali intercorrevano rapporti commerciali da lungo tempo (oltre 10 anni) che prevedevano, in caso di recesso, un termine di preavviso di tre mesi dal momento della comunicazione. Il Tribunale di Milano, nella propria pronuncia, su richiesta delle attrici rideterminava tale termine (portandolo a 6 mesi dal momento della pubblicazione del provvedimento), considerandolo non congruo alla durata complessiva del rapporto intercorso. L'art. 1373 c. 1 c.c., prevede che le parti possano introdurre nel contratto che le lega la facoltà di recedere da tale accordo. Ciò nonostante, la legge non disciplina la congruità di tale periodo per poter far cessare, di fatto, gli effetti dell'accordo negoziale, limitandosi a consentire alle parti un diritto di recesso ad nutum anche non pattuito nei casi il rapporto non abbia un limite temporale preciso, in ossequio al principio che vieta a qualunque soggetto di assumere obbligazioni sine die. Tuttavia la dottrina si è interrogata sulla congruità del preavviso previsto contrattualmente, sottolineando come sia necessario, per regolare tale aspetto, valutare la concreta disciplina convenzionale. Tali considerazioni sembrano essere state applicate nel caso di specie, sebbene la giurisprudenza sul punto (per verità piuttosto rada) abbia rilevato come all'autonomia delle parti è data la possibilità di derogare pattiziamente alla disciplina legale del recesso e al suo preavviso, riducendola all'estremo fino, al limite, ad escluderne la necessità in casi estremi (si veda, a tal proposito, Cass. 6 novembre 2000 n. 14436). Pertanto – pur non essendo un principio granitico, come si è visto – è ragionevole regolare i rapporti di durata mantenendo un preavviso minimo per i casi di risoluzione non eccessivamente ristretto, dato che esso, con lo svolgersi del rapporto nel corso degli anni, rischia di essere rideterminato dal giudice in considerazione proprio della durata del rapporto contrattuale nonché delle condizioni negoziali previste. |