Maltrattamenti in famiglia e scriminanti culturali1. Bussole di inquadramentoIl delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi Il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi, disciplinato dall'art. 572 c.p., è integrato dalla condotta di chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte. L'attuale formulazione della norma incriminatrice è frutto degli interventi legislativi intervenuti dapprima del 2012, con l. n. 172, di recepimento della Convenzione di Lanzarote del Consiglio d'Europa, per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, del 2007, e più di recente con l. n. 69/2019, c.d. Codice Rosso, che ha elevato la cornice edittale del reato in quella vigente da tre a sette anni di reclusione. Il previgente Codice Zanardelli annoverava le condotte di maltrattamenti tra i delitti contro la persona mentre il legislatore del Codice Rocco ha collocato la fattispecie tra i delitti contro la famiglia, operando una scelta criticata da una parte della dottrina, dal momento che le condotte punite ex art. 572 c.p. non si iscrivono esclusivamente tra i rapporti familiari. Tale collocazione del delitto in esame ha altresì determinato incertezze in ordine all'individuazione del bene giuridico tutelato, che parte della dottrina riconduce alla famiglia, in un'accezione lata, che includa ogni rapporto interpersonale caratterizzato da stabilità e vicinanza. L'orientamento prevalente identifica invece il bene protetto nella persona del maltrattato, esposto alla supremazia o all'arbitrio di un familiare o di un soggetto preposto alla sua cura o educazione, ovvero di un convivente. La struttura del reato Il delitto di maltrattamenti è un reato abituale che opera in via residuale rispetto alla fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, di cui all'art. 571 c.p., e si sostanzia in una condotta a forma libera, posta in essere nei confronti di una persona con cui il soggetto agente si trovi in relazione qualificata. In merito al soggetto attivo del reato si è sostenuto che si tratti di un reato proprio, nonostante l'uso del termine “chiunque”, in ragione della relazione qualificata che deve sussistere tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, inquadrabile in uno dei rapporti individuati dal legislatore. La condotta tipica del delitto è a forma libera, potendo consistere in un qualsiasi comportamento di maltrattamento, che provochi nel soggetto passivo una sofferenza fisica o morale, mortificandolo e rendendo intollerabile il rapporto tra soggetto agente e persona offesa. Come anticipato, la condotta di maltrattamenti è qualificata come reato abituale e richiede la reiterazione degli atti di vessazione, da cui derivi una fonte di disagio che si protrae nel tempo, anche se non in maniera continuativa e permanente, sì da risultare incompatibile con le normali condizioni di vita della vittima, rendendo la relazione personale con il soggetto agente dolorosa ed avvilente (Cass. VI, n. 4015/1996). Le condotte di maltrattamenti possono dunque configurarsi in termini di percosse, ingiurie, minacce o privazioni, nonché in atti di disprezzo e di offesa alla dignità della persona offesa, che le cagionino sofferenze fisiche o anche solo morali (Cass. VI, n. 44700/2013). Il delitto può essere commesso anche in forma omissiva, quando sussista un dovere giuridico di agire, come nel caso in cui un genitore venga meno ai propri obblighi nei confronti di un figlio o il coniuge nei confronti dell'altro coniuge. Possono assumere altresì rilevanza condotte di mera inerzia, in quanto possibili forme di maltrattamento, in violazione di doveri anche solo etici o morali, tali da determinare gli effetti tipici del delitto ex art. 572 c.p. Una particolare forma di maltrattamenti, nell'ambito familiare, può consistere nella c.d. violenza assistita, nel caso di “condotte di reiterata violenza nei confronti dell'altro genitore, quando i discendenti siano resi sistematici spettatori di tali comportamenti, in quanto tale atteggiamento integra una omissione connotata da deliberata indifferenza e trascuratezza verso i bisogni affettivi della prole” (Cass. VI, n. 4332/2015). L'ultimo comma dell'art. 572 c.p., introdotto con il c.d. Codice Rosso, l. n. 69/2019, prevede oggi infatti che il minore di anni diciotto che assista ai maltrattamenti si considera persona offesa dal reato. L'elemento soggettivo del delitto di maltrattamenti consiste nel dolo generico, che si sostanzia nella coscienza e nella volontà di sottoporre in maniera sistematica e continuativa il soggetto passivo a sofferenze fisiche e morali. Non è necessario uno specifico programma criminoso, proiettato verso un determinato risultato, essendo invece sufficiente la consapevolezza e volontà di sottoporre la vittima ad un trattamento abitualmente offensivo; occorre dunque un dolo unitario, dal momento che l'agente deve rappresentarsi il fatto che la singola sopraffazione è espressione di una condotta abusiva già reiterata in altre occasioni (Cass. VI, n. 15146/2014). La consumazione del delitto può non coincidere con il suo perfezionamento, per il quale è necessario il compimento di quell'atto che, sorretto da dolo unitario e unendosi alle precedenti condotte, realizzi l'evento lesivo. Qualora quest'ultimo risulti successivamente aggravato da nuove e ulteriori condotte poste in essere dal soggetto agente, quando il reato sia già perfezionato, la consumazione del delitto dovrà individuarsi nel momento dell'ultimo atto di maltrattamenti ovvero nel momento in cui sia venuta meno la relazione qualificata tra soggetto agente e persona offesa, necessaria per l'integrazione del delitto (es. cessazione della convivenza o del rapporto di affidamento, ecc.). Secondo l'orientamento prevalente deve escludersi la configurabilità del tentativo, in quanto incompatibile con la struttura del delitto abituale. Circostanze e trattamento sanzionatorio Trovano applicazione in relazione al delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi le circostanze aggravanti speciali di cui ai commi 2 e 3. Il comma 2 dell'art. 572 c.p. disciplina una prima serie di circostanze aggravanti ad effetto speciale, che determinano l'aumento della pena fino alla metà e ricorrono se il fatto è alternativamente commesso in presenza o ai danni di un minore, ovvero contro una donna in stato di gravidanza o un disabile o infine con armi. Ai sensi del comma 3, inoltre se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte la reclusione da dodici a ventiquattro anni. Ricorre dunque lo schema del delitto aggravato dall'evento, quando quest'ultimo sia riconducibile sul piano causale alla condotta del reo e ne costituisca una conseguenza da esso non voluta, neanche a titolo di dolo eventuale, ricorrendo altrimenti le ipotesi criminose dell'omicidio e delle lesioni personali dolose (Cass. I, n. 21329/2008). È stato tuttavia ritenuta necessaria, secondo una lettura costituzionalmente orientata della fattispecie, la prevedibilità in concreto della morte o delle lesioni della persona offesa, quale conseguenza della condotta criminosa di base (Cass. VI, n. 44492/2009). Tale requisito è inoltre richiesto dall'art. 59, comma 2, c.p., in relazione all'imputazione delle circostanze aggravanti, valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. La pena irrogata a fronte della commissione del fatto nella sua forma semplice ovvero in presenza delle esaminate aggravanti potrà essere condizionalmente sospesa, ex art. 163 c.p., solo subordinando la sospensione alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannai per i reati cc.dd. di violenza di genere, come previsto dall'art. 165 c.p., novellato sul punto dalla l. n. 69/2019, c.d. Codice Rosso. La Corte di Cassazione ha ritenuto che la norma, pur avendo natura sostanziale, si applica anche a fatti di maltrattamenti in famiglia perfezionatisi prima della sua entrata in vigore, ma protrattisi – senza significative cesure temporali – in epoca successiva, stante l'unitarietà strutturale del reato (Cass. VI, n. 32577/2022). Va infine rilevato che, ai sensi dell'art. 34, comma 2, c.p., la condanna per il delitto di maltrattamenti contro familiari, nello specifico caso di abuso della responsabilità genitoriale da parte del soggetto agente, comporta la sospensione dall'esercizio di essa per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta. 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
La cultura e l'etnia di provenienza del soggetto agente escludono la punibilità per il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi?
Orientamento dominante della Corte di Cassazione Non possono essere invocate per escludere la punibilità del delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi le credenze religiose, convinzioni culturali o le facoltà asseritamente riconosciute nel Paese di origine del soggetto agente, che contrastino con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 Cost. La Corte di Cassazione è stata in più occasioni chiamata a pronunciarsi in merito all'incidenza che la cultura di origine del soggetto agente possa avere sulla punibilità del delitto di maltrattamenti, con particolare riferimento alle condotte che si iscrivono in contesti familiari in cui le parti seguono credi, regole sociali o impostazioni socio-culturali confliggenti con i principi dell'ordinamento. Il problema è stato dapprima affrontato sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato. La Corte ha escluso, al riguardo, che la colpevolezza del soggetto agente, autore di condotte di maltrattamenti, possa essere esclusa in ragione della cultura e della religione professata dallo stesso, tali da rivendicare particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare. I giudici di legittimità hanno infatti evidenziato che si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano, considerato che la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (art. 2 Cost.), nonché il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3, comma 1 e 2, Cost.) costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione di diritto o di fatto nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili (Cass. IV, n. 55/2003; Cass. VI, n. 46300/2008). Più nello specifico, la Corte ha escluso la rilevanza dell'adesione ad un credo religioso, che non sancisca la parità dei sessi nel rapporto familiare (Cass. VI, n. 32824/2009) e tantomeno delle personali convinzioni in ordine alla superiorità della figura maschile all'interno della famiglia e alla conseguente legittimità di atteggiamenti “padronali” nei confronti della moglie (Cass. VI, n. 26153/2011). In un secondo momento, l'attenzione della giurisprudenza di legittimità è stata focalizzata sulla rilevanza delle origini e convinzioni etniche e culturali del soggetto agente in termini di causa di giustificazione, c.d. scriminante culturale. È stata, in particolare, affrontata la questione della possibilità di riconoscere in capo al soggetto agente la scriminante dell'esercizio di un diritto, ex art. 51 c.p., correlato a facoltà asseritamente riconosciute dall'ordinamento dello Stato di provenienza. La Corte ha, anche in questo caso, affermato che non assumono alcuna incidenza scriminante eventuali pretese o rivendicazioni legate all'esercizio di particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, che si pongano in assoluto contrasto con le norme che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano nonché con il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (Cass. VI, n. 19674/2014). È stato, più nello specifico, escluso che possa essere invocata, neppure in forma putativa, la scriminante dell'esercizio di un diritto oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, in cui l'agente ha scelto di vivere, attesa l'esigenza di valorizzare – in linea con l'art. 3 Cost. – la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica (Cass. III, n. 8986/2020; Cass. III, n. 14960/2015). La Corte ha infine escluso la rilevanza del modello culturale del soggetto agente anche sotto il profilo della esigibilità della condotta alternativa lecita, affermando che l'autore del reato non può invocare, a propria discolpa, l'inesigibilità di un comportamento diverso da quello tenuto siccome imposto un proprio modello culturale improntato ad autoritarismo maschilista, in quanto il principio della non esigibilità non trova applicazione al di là delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate (Cass. V, n. 21133/2019).
Domanda
Il consenso espresso dalla persona offesa, sulla base di convinzioni culturali legate all'etnia di origine, scrimina la condotta di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p.?
Orientamento dominante della Corte di Cassazione I beni giuridici tutelati dal delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi non sono disponibili e pertanto non può sortire effetto scriminante il consenso della persona offesa, quand'anche affermato sulla base della cultura di origine, in quanto contrasterebbe con i principi fondamentali dell'ordinamento italiano e, in specie, con la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 Cost. La questione del riconoscimento e dell'efficacia delle cc.dd. scriminanti culturali si è posta, nella giurisprudenza di legittimità, anche in relazione alla persona offesa dal reato. In particolare, i giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi in merito alla possibilità che il consenso espresso dalla persona offesa, in ordine alle condotte di maltrattamenti dalla stessa subite, possa sortire un effetto scriminante sul delitto, ai sensi dell'art. 50 c.p. In tal senso potrebbe assumere rilievo anche il consenso espresso in forma tacita, attraverso una condotta passiva e di tolleranza tenuta dalla vittima, che subisca le condotte del reo senza reagire, sul piano materiale o giuridico. È tuttavia necessario, perché possa trovare applicazione l'art. 50 c.p., che i diritti lesi dalle condotte tipiche risultino liberamente disponibili. La Corte di Cassazione, intervenuta sulla questione, ha infatti escluso che il delitto in esame possa essere scriminato dal consenso dell'avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni culturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano. Queste ultime, infatti, ove vigenti, si porrebbero in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli articoli 29 ss. Cost. (Cass. VI, ord. n. 3398/1999). A sostegno di tale conclusione va altresì evidenziato che la tutela penale della persona a fronte di condotte di maltrattamenti ex art. 572 c.p., prescinde dalla sua iniziativa, non essendo necessaria la querela di parte, al fine di tutelare i quei soggetti più deboli che non abbiano la forza di reagire ai maltrattamenti subiti. Tale ratio risulta incompatibile con il riconoscimento di effetti scriminanti al consenso della persona offesa. 3. Azioni processualiUlteriori attività difensive Per la fattispecie in esame si possono esperire le seguenti ulteriori attività difensive: Ordinanza applicativa dell'allontanamento dalla casa familiare (artt. 282-bis e 292); Istanza di revoca o sostituzione di misura cautelare (art. 299); Memoria difensiva (art. 419, comma 2). Condizioni di procedibilità ProcedibilitàIl delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi, ex art. 572 c.p., è sempre procedibile d'ufficio. Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato) Il termine-base di prescrizione del delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi, nelle forme non aggravate di cui al comma 1, è pari a quattordici anni, in forza del comma 6 dell'art. 157 c.p. (in vigore dal 23 ottobre 2012), che prevede il raddoppio del termine ordinario di prescrizione (pari a sette anni, in ragione della pena edittale detentiva massima). In presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, tale termine può essere aumentato nella misura di un quarto, fino ad un massimo di diciassette anni e sei mesi (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.). Qualora ricorrano le circostanze aggravanti ad effetto speciale, di cui al comma 2 dell'art. 572 c.p., il termine base di prescrizione è di ventuno anni, per effetto del raddoppio ex art. 157, comma 6, c.p., del termine ordinario pari alla pena detentiva massima di dieci anni e sei mesi di reclusione, ai sensi dell'art. 572, comma 2, c.p.; anche in questo caso il termine-base è suscettibile di aumento, nella misura di un quarto, in presenza di eventi interruttivi (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), fino al termine massimo di ventisei anni e tre mesi, oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.). Nei casi di cui al comma 4 dell'art. 572 c.p., infine, che prevede le circostanze aggravanti indipendenti ad effetto speciale in caso di lesioni personali gravi o gravissime ovvero di morte della persona offesa, derivate dal fatto, il termine ordinario di prescrizione, raddoppiato ai sensi dell'art. 157, comma 6, c.p., è rispettivamente pari a diciotto (lesioni personali gravi), trenta (lesioni personali gravissime) e quarantotto anni (morte della persona offesa). I medesimi termini sono suscettibili di aumento, nella misura di un quarto, in presenza di eventi interruttivi (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), fino al termine massimo rispettivamente di ventidue anni e sei mesi, trentasette anni e sei mesi e sessant'anni, oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.). Con riferimento ai fatti commessi a partire dal 1° gennaio 2020, ai sensi dell'art. 161-bis c.p., il termine di prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado, fermo restando che, nel caso di annullamento che comporti la regressione del procedimento al primo grado o a una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronunzia definitiva di annullamento. A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), inoltre, per tutti i casi di truffa (commessa, o meno, on-line, e, quindi, aggravata, o meno, ex art. 61, comma 1, n. 5, c.p.) costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione: – del giudizio di appello entro il termine di due anni; – del giudizio di cassazione entro il termine di un anno; salva proroga per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare; salva sospensione nei casi previsti dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p.; salva diversa modulazione dei predetti termini in applicazione della normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021). Misure precautelari e cautelari Arresto e fermo Con riguardo al delitto di maltrattamenti in famiglia: – è consentito l'arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380, comma 1, lett. l-ter, c.p.p.); – è sempre consentito il fermo (art. 384 c.p.p.). Misure cautelari personali Nei casi di maltrattamenti contro familiari o conviventi, aggravati o meno, essendo il delitto, anche nella sua forma base, punito con pena edittale massima superiore ai tre anni di reclusione, sono applicabili misure cautelari coercitive (artt. 281-286-bis c.p.p.), poiché l'art. 280, comma 1, c.p.p. consente l'applicazione delle predette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; è sempre applicabile altresì la misura della custodia cautelare in carcere, poiché l'art. 280, co. 2, c.p.p. consente l'applicazione della predetta misura ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Con particolare riferimento alla misura cautelare della custodia in carcere, non opera nei casi di cui all'art. 572 c.p. la norma di cui al comma 2-bis dell'art. 275 c.p.p., nella parte in cui non consente la custodia in carcere quando il giudice ritenga che, all'esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale Competenza Per il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione monocratica nei casi di cui al comma 1, non aggravati, e di cui al comma 4, primo periodo (se dal fatto deriva una lesione personale grave), mentre decide in composizione collegiale nei casi aggravati di cui al comma 2, nonché nel caso di cui al comma 4, secondo periodo (se ne deriva una lesione gravissima) (cfr. artt. 33-bis e 33-ter c.p.p.). È invece competente per materia la Corte d'Assise (cfr. art. 5 c.p.p.) nei casi di cui all'ultimo periodo del comma 4 dell'art. 572 c.p., se dal fatto deriva la morte della persona offesa, essendo il delitto in questo caso punito con la pena della reclusione non inferiore ai ventiquattro anni (da dodici a ventiquattro anni). La competenza per territorio va invece individuata, stante la natura di reato abituale, nel luogo di realizzazione dell'ultimo dei molteplici fatti caratterizzanti il reato (Cass. VI, n. 24206/2019). Citazione a giudizio Per il delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi è sempre prevista l'udienza preliminare. Composizione del tribunale Della configurabilità o meno delle circostanze aggravanti di cui all'art. 572, comma 2 e comma 4, secondo periodo, c.p., si deve tenere conto agli effetti previsti dall'art. 33-bis, comma 2, c.p.p. (che detta regole riguardanti le attribuzioni del tribunale in composizione monocratica): il processo per il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi di cui al comma 1 e i casi aggravanti ai sensi del comma 4, primo periodo (se dal fatto deriva una lesione personale grave), si svolgerà sempre dinanzi al tribunale in composizione monocratica mentre aggravati ai sensi del comma 2, nonché nel caso di cui al comma 4, secondo periodo (se ne deriva una lesione gravissima), dinanzi al tribunale in composizione collegiale, in ragione dell'aumento di pena oltre i dieci anni di reclusione. 4. ConclusioniLa questione della rilevanza delle origini etnico-culturali del soggetto agente ai fini dell'esclusione della punibilità delle condotte ad esse correlate, integranti la fattispecie di delitto ex art. 572 c.p., intercetta il più ampio tema della multietnicità sociale e degli strumenti di integrazione delle minoranze nell'ordinamento che le accoglie. L'ordinamento italiano segue un modello assimilazionista, tale per cui la cultura di origine del soggetto agente non può assumere rilevanza giuridica quando si ponga in contrasto con i principi fondamentali dell'ordinamento, come sanciti dalla Costituzione. Sono tali i principi di parità tra coniugi, di rispetto della dignità della persona, della tutela dell'integrità psico-fisica del coniuge e dei figli. Sulla scorta di tali premesse, la Corte di Cassazione ha negato cittadinanza alle cc.dd. scriminanti culturali, incentrate sulla pretesa di fare applicazione di norme vigenti in ordinamenti diversi, anche di natura non giuridica (in quanto culturali, sociali, religiose), per giustificare il compimento di fatti di reato, in specie di maltrattamenti contro familiari. Nel contempo, è stato escluso che la persona offesa possa esprimere un consenso, espresso o tacito, rispetto alle condotte di maltrattamenti subite, sul presupposto del carattere indisponibile dei diritti costituzionali offesi. È stata altresì esclusa dai giudici di legittimità la possibilità di invocare un principio generale di inesigibilità fuori dei casi in cui sia il legislatore a disciplinare una causa di esclusione della colpevolezza o una scriminante, rinnegandosi così l'istituto delle scriminanti atipiche e delle scusanti atipiche che si fondano su tale preteso principio. |