La confisca nell'intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro

Irma Conti

1. Bussole di inquadramento

La tutela del lavoratore

Lo sfruttamento del lavoro è una questione che ha radici profonde nella storia umana e che si è manifestato in diversi contesti, forme e gravità nel corso dei secoli. Specialmente in passato, lo sfruttamento del lavoro era spesso indicativo di un assoggettamento pressoché totale della vittima, che non vedeva i propri diritti essere violati solamente nell'ambito lavorativo.

Molto spesso, infatti, in passato come ancora – purtroppo – in determinate parti del mondo, lo sfruttamento del lavoro si è accompagnato alla schiavitù, ovverosia a quel fenomeno che implica il completo possesso, da parte di un soggetto, della disponibilità fisica e psichica di un'altra persona.

Gli schiavi, spesso considerati come vera e propria merce, erano e sono ancora soliti svolgere lavori forzati nell'ambito dei contesti più opprimenti e stancanti (come le miniere o le piantagioni) e/o nell'ambito dei contesti domestici dei loro facoltosi proprietari.

Oltre a questa, poi, molte altre sono state le forme tradizionali con cui si sono identificate o si continuano ad identificare situazioni di aperto sfruttamento lavorativo. Come la servitù della gleba, caratteristica dell'epoca medievale, che comportava un'estrema dipendenza economica e sociale dei lavoratori della terra rispetto ai loro signori feudali, che opprimevano le persone che lavoravano sul loro latifondo, trattenendo la stragrande maggioranza delle risorse e dei ricavi da questo generati; o lo sfruttamento coloniale, caratteristico del periodo delle grandi espansioni europee verso terre extracontinentali, le cui vittime erano soggette a condizioni non dissimili a quelle brevemente descritte.

E se queste – più estreme – forme di sfruttamento del lavoro sono fortunatamente perlopiù rilegate al passato, ne esistono altre decisamente più ricorrenti nel presente e che devono necessariamente sollevare lo stesso tipo di allarme sociale.

Si tratta, per esempio, del lavoro minorile, solitamente caratterizzato da orari di lavori estenuanti e salari particolarmente bassi in quanto “ideato” per sopperire al bisogno di manodopera a basso costo; o del lavoro migrante, ovverosia quel fenomeno in cui lavoratori provenienti da regioni più povere sono, proprio alla luce della loro povertà, disposti ad accettare condizioni di lavoro particolarmente precarie o apertamente pericolose, in cui non rientrano salari adeguati, diritti o l'assenza di discriminazioni.

Nelle società giuridicamente più avanzate sono state introdotte, specialmente attraverso il diritto internazionale, opportuni e noti livelli minimi di qualità del lavoro e di diritti da riconoscere al lavoratore, specialmente qualora quest'ultimo si dovesse ritrovare – per età, sesso, etnia o qualsivoglia altro motivo – in una condizione di svantaggio rispetto ad altri. In ordinamenti di questo tipo, situazioni come quelle finora brevemente descritte possono, al netto di pochissimi casi, considerarsi sostanzialmente debellate.

Posti gli standard qualitativi di cui sopra, il Legislatore ha quindi potuto disporre una disciplina normativa del lavoro (anche in ambito penale) decisamente più avanzata, volta ad attribuire una tutela a beni neanche lontanamente considerati solamente pochi decenni prima.

La figura del lavoratore è così stata letteralmente rivoluzionata: da potenziale merce di scambio dalla quale pretendere qualsiasi prestazione a qualsiasi condizione, la persona del lavoratore gode oggi – perlomeno negli Stati giuridicamente più avanzati – di diritti imprescindibili, rilevanti su una molteplicità di piani (non da ultimo, quello economico e previdenziale) e tutelati anche da norme di diritto penale.

Alla luce delle norme più avanzate del nostro ordinamento sul tema, ci si potrebbe dunque chiedere se integri i presupposti normativi per una confisca la condotta di Tizio, il quale, in totale spregio dei diritti dei suoi lavoratori e nell'ambito di una molteplicità di condotte volte a sfruttare questi, ha deciso anche di “risparmiare” sulle spese della sua impresa omettendo il pagamento del tributo, degli interessi e delle sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario.

La fattispecie di cui all'art. 603-bis c.p.

Al fine di dirimere le questioni sollevate nel caso delineato in sede di inquadramento, deve essere preliminarmente esaminata la fattispecie astrattamente ipotizzabile, ovvero quella di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all'art. 603-bis c.p.

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, la norma in commento prevede al comma 1, n. 1), la responsabilità penale per chi recluti manodopera al fine di destinarla al lavoro presso terzi soggetti in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; al n. 2), invece, è prevista la responsabilità penale per chi assuma o impieghi manodopera – anche avvalendosi delle condotte di intermediazione di cui al n. 1) – sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno.

Tanto nella prima quanto nella seconda ipotesi, la pena prevista è quella della reclusione da uno a sei anni unitamente ad una multa, per ogni lavoratore reclutato, da 500 a 1.000 euro.

Tale pena, a norma del comma 2 dello stesso articolo, è della reclusione da cinque a otto anni e della multa da 1.000 a 2.000 euro qualora i fatti vengano commessi mediante violenza o minaccia.

Ai fini della sussistenza di tale reato, peraltro, non è richiesta alcuna finalità di lucro (Cass. V, n. 7891/2018), configurandosi tale fattispecie delittuosa come punibile a titolo di dolo generico.

Di assoluta rilevanza è poi il terzo comma della norma, che fornisce un vero e proprio elenco di situazioni al ricorrere delle quali è da intendere come sussistente lo stato di sfruttamento dei lavoratori.

Tra questi indici figurano la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente sproporzionate rispetto a quanto parametrato nelle adeguate sedi giuridiche; la reiterata violazione di normative in tema di orari di lavoro, di riposi lavorativi, dell'aspettativa obbligatoria e di ferie; violazioni di normative in tema di igiene e sicurezza sul lavoro; la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Quanto alla sussistenza della condizione di sfruttamento desunta dagli indici di cui alla stessa norma finora richiamata, la giurisprudenza di legittimità (Cass. V, n. 17939/2018) ha già avuto modo di affermare che tali indici sono stati previsti in via disgiuntiva dal nostro Legislatore: di conseguenza, ai fini dell'integrazione del delitto in commento, sarà necessaria la sussistenza di uno solo di essi.

L'ulteriore tutela di cui all'art. 603-bis 2 c.p.

Dopo aver previsto all'art. 603-bis1 c.p. una circostanza attenuante, in riferimento al delitto in commento, per chi si adoperi al fine di evitare conseguenze ulteriori ovvero al fine di aiutare concretamente l'Autorità giudiziaria o quella di polizia, il nostro ordinamento ha previsto, all'art. 603-bis2 c.p., l'obbligatorietà della confisca – anche per equivalente – delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato.

Interessante notare poi, in ottica garantistica rispetto alla posizione delle persone offese, che la disposizione da ultimo richiamata fa espressamente salvi i diritti di queste alle restituzioni e al risarcimento del danno.

L'art. 603-bis2 c.p., in altri termini, ribadisce quanto affermato dall'art. 603-bis nella parte in cui prevede che la reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi rispetto a quanto parametrato dai contratti collettivi costituisce indice di sfruttamento del lavoratore: ai fini dell'integrazione della situazione di sfruttamento, le condizioni economiche del lavoratore rilevano non meno di quanto possano rilevare fattori quali le violazioni in tema di riposo, sicurezza o igiene.

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro e confisca: quale profitto è confiscabile?

Orientamento della Corte di Cassazione

Una volta delineate le coordinate fondamentali del reato di cui all'art. 603-bis c.p., nonché quelle inerenti la confisca obbligatoria di cui all'art. 603-bis2 c.p., veniamo ora ad analizzare i profili che attengono al caso descritto in sede di inquadramento e che riguarda la comprensione della configurabilità di una confisca obbligatoria ex art. 603-bis2 c.p. in seguito ad una violazione della normativa inerente alla posizione economico-tributaria del lavoratore.

La questione, in altri termini, riguarda la comprensione dell'ampiezza dell'ambito di tutela che il nostro ordinamento ha inteso riservare alla figura del lavoratore: comprendere se – ritornando al caso sollevato in sede di inquadramento – le condotte di Tizio permettano o meno di procedere con una confisca obbligatoria significa comprendere se ed in quale misura il nostro ordinamento intenda tutelare la figura del lavoratore.

La risposta della nostra giurisprudenza di legittimità ad un simile quesito (Cass. IV, n. 29397/2022) è positiva: è stato infatti affermato che, in relazione al reato in parola, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale conseguito in virtù della consumazione del reato; di conseguenza, questo ben potrebbe consistere anche nel “risparmio” di spesa aziendale derivante dall'illecita omissione del versamento dei tributi, degli interessi e delle sanzioni dovuti, ad esempio, a seguito dell'accertamento di un debito tributario.

3. Azioni processuali

Procedibilità

Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è procedibile d'ufficio.

Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato)

L'ipotesi di cui al primo comma della norma ha un termine di prescrizione pari ad anni sei (cfr. art. 157 c.p.) essendo la pena massima prevista pari a sei anni; l'ipotesi di cui al secondo comma, invece, prevedendo una pena edittale massima pari ad otto anni, si prescrive nel termine di otto anni.

In presenza della circostanza specifica di cui al quarto comma del medesimo articolo, questi termini sono invece pari, rispettivamente, ad anni nove e ad anni dodici.

In assenza di tali circostanze specifiche ed in presenza di eventuali atti interruttivi, i termini di cui sopra possono essere aumentati fino ad un massimo, rispettivamente, di anni sette e mesi sei e di anni dieci (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), al netto dei periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Qualora invece ricorrano tanto una delle circostanze specifiche di cui sopra ed eventuali atti interruttivi, le due fattispecie delittuose considerate avranno termini massimi di prescrizione pari, nel primo caso ad anni undici e mesi tre e nel secondo caso pari ad anni quindici.

A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), per tutte le ipotesi previste dalla norma in parola, costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione:

– del giudizio di appello entro il termine di due anni;

– del giudizio di cassazione entro il termine di un anno.

Tali termini possono essere ulteriormente estesi quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare.

In ogni caso, la proroga potrà essere disposta per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione, salva la sospensione prevista dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p. e quanto previsto dalla normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021).

Arresto e fermo

Con riguardo al delitto di cui all'art. 603-bis c.p.:

– per l'ipotesi di cui al secondo comma, l'arresto è obbligatorio in flagranza (cfr. art. 380, comma 2, lett. d.1) c.p.p.);

– per le ipotesi di cui ai commi primo e quarto è consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 2, c.p.p.);

– il fermo (art. 384 c.p.p.) è consentito per ognuna delle ipotesi criminose considerate.

Misure cautelari personali

In considerazione dei limiti edittali fin qui complessivamente richiamati, sono applicabili misure cautelari coercitive (artt. 281-286-bis c.p.p.), consentendo l'art. 280, comma 1, c.p.p. di applicare dette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; sarà altresì possibile applicare anche la custodia cautelare in carcere essendo previsto dall'art. 280, comma 2, c.p.p., l'applicazione di detta misura in caso di delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale

Competenza

Nei casi previsti dall'art. 603-bis c.p. è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.).

Udienza preliminare

Essendo le pene massime previste per le ipotesi richiamate superiori a quattro anni di reclusione, si procede con udienza preliminare.

Composizione del tribunale

Il processo per il reato di cui ad ogni fattispecie prevista dall'art. 603-bis c.p. si svolgerà dinanzi al tribunale in composizione monocratica.

4. Conclusioni

Alla luce della giurisprudenza esaminata, emerge la lapalissiana volontà, da parte del nostro ordinamento, non solamente di ricondurre nell'alveo dello sfruttamento del lavoro anche situazioni caratterizzate da violazioni di carattere economico-tributario commesse ai danni del lavoratore, ma anche e soprattutto la volontà di tutelare violazioni di questo genere attraverso l'obbligatorietà delle confisca volta ad esiliare dalla disponibilità del reo il profitto che, indipendentemente dalla sua denominazione, sia funzionalmente derivante dalla commissione del reato.

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