Riduzione in schiavitù e atti persecutori1. Bussole di inquadramentoLa tutela della libertà e della dignità umana Molteplici sono, ad oggi, gli ambiti di tutela penale che il nostro ordinamento ha apprestato in favore dei beni della libertà e della dignità umana: il rapido susseguirsi, negli ultimi anni, di interpolazioni normative volte a riconoscere nuove fattispecie di reato ovvero ad ampliarne l'ampiezza applicativa ha oggi formato – e continua a formare – un quadro normativo variegato e complesso, nel quale è alle volte difficile distinguere con netta precisione una fattispecie delittuosa dalle altre. E ciò accade specialmente allorquando il Legislatore decida di inserire, ex novo, delle ipotesi criminali del tutto inedite, le quali, nel rimediare al precedente vuoto normativo, finiscono inevitabilmente – e almeno potenzialmente – per collidere con le ipotesi criminali preesistenti, creando così questioni interpretative per la cui risoluzione si rimanderà, all'evidenza, alla giurisprudenza della Corte di Cassazione. Ad esempio, una norma del nostro Codice penale che ha trovato una introduzione postuma rispetto all'assetto originario del Codice è il noto art. 612-bis c.p. (più precisamente: introdotto dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, poi convertito in l. 23 aprile 2009, n. 38), rubricato “Atti persecutori” (e volto a tutelare quel fenomeno solitamente denominato “stalking”). Le motivazioni sottese all'introduzione di questa fattispecie delittuosa sono evidenti: la normativa risponde tanto ad una mutata sensibilità sociale rispetto ai temi trattati quanto ad un contesto sociale in cui le condotte persecutorie, grazie alla tecnologia dei nostri tempi, sono non solo sempre più semplici da porre in essere, ma anche – se non soprattutto – potenzialmente molto più lesive che in passato: basti pensare che vi sono stati episodi di atti persecutori in cui le vittime hanno dovuto cambiare le proprie abitudini di vita. Proprio al ricorrere di una circostanza di questo tipo, non sembrerebbe assurdo affermare che il soggetto agente sia “riuscito”, nei suoi intenti criminosi, ad eterodeterminare la volontà della vittima. Una considerazione di questo tipo risulta essere di fondamentale importanza qualora si consideri che la riduzione e/o il mantenimento in schiavitù o servitù in altro non consiste che nella completa eterodeterminazione attuata da parte del soggetto agente ai danni della vittima (invero spesso accompagnata da un vero e proprio possesso anche sul piano fisico). Ed è dunque in virtù di questa identicità in tema di danno da reato che si rende necessario capire quali siano i rapporti intercorrenti tra le due fattispecie di reato qui brevemente richiamate: ovvero, in altri termini, si rende necessario comprendere se i due reati possano o meno concorrere tra loro. Un'analisi di questo tipo è utile, ad esempio, per comprendere le dinamiche giuridiche afferenti al caso di Tizio, il quale, nel compimento di un disegno criminoso di lunga data, ha, nel corso di diversi anni, gradualmente posto in essere condotte volte al controllo dei comportamenti di Caia – eterodeterminandone la volontà – per poi assoggettare completamente la stessa al proprio volere. La fattispecie di cui all'art. 600 c.p. Al fine di dirimere le questioni sollevate nel caso delineato in sede di inquadramento, devono essere preliminarmente esaminate le fattispecie astrattamente ipotizzabili, ovvero quella di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù di cui all'art. 600 c.p. e quella di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. In riferimento alla prima fattispecie richiamata, è opportuno premettere che la norma ha subito, nel corso degli ultimi venti anni, delle incisive interpolazioni normative, le quali, oltre ad aumentare i limiti edittali per gli autori delle condotte oggetto di divieto, hanno fornito, sia nel primo che nel secondo comma dell'articolo 600, delle indicazioni di assoluto rilievo in ordine alla qualificazione e definizione del concetto di schiavitù o servitù. Nel primo comma viene infatti stabilito quali condotte configurino il reato in parola. In virtù del fatto che la riduzione in schiavitù si attua attraverso un pieno possesso del corpo e della volontà di una persona da parte di un'altra, viene precipuamente stabilito che commette tale delitto “Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà”, nonché chiunque ponga ovvero mantenga un altro soggetto in uno stato di soggezione continuativa, nell'ambito del quale ci sia la costrizione a prestazioni lavorative o sessuali, all'accattonaggio, alla sottoposizione al prelievo di organi “o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento”. Il capoverso dello stesso articolo, invece, si occupa di definire quali siano le condizioni in virtù delle quali è integrabile la condizione di riduzione o mantenimento in stato di schiavitù o servitù: viene così previsto che tale condizione di assoggettamento, del tutto speculare – come si diceva – rispetto al diritto di proprietà, venga ottenuta mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona Alla luce di quanto finora detto, la giurisprudenza di legittimità ha condivisibilmente affermato (Cass. III, n. 2841/2006) che il delitto in parola rientra all'interno della categoria giuridica del reato di evento a forma vincolata, dal momento che l'evento – ovverosia lo stato di soggezione in cui la persona è costretta a svolgere determinate prestazioni – deve essere ottenuto dall'autore del reato mediante una delle modalità delineate dal medesimo articolo del Codice penale. È importante evidenziare che il Legislatore ha previsto tra tali modalità anche la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi da parte di chi abbia autorità sulla persona vittima di schiavitù: disponendo in tal senso, l'ordinamento ha rivolto la sua tutela anche verso il substrato sociale meno abbiente, ovverosia verso quella porzione sociale storicamente più facilmente soggetta alle vessazioni tipiche della riduzione in schiavitù. La fattispecie di cui all'art. 612-bis c.p. L'articolo 612-bis del Codice penale, invece, disciplina il delitto di atti persecutori. La norma si apre con una clausola di riserva (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato”) volta, all'evidenza, ad evitare che la nuova fattispecie delittuosa rappresenti un appiglio normativo per chi ponesse in essere condotte già previste e punite da altre, preesistenti e più gravi norme penali. Ciò premesso, l'articolo in commento stabilisce che chiunque, con condotte reiterate, minacci o molesti un altro soggetto in modo da cagionargli un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare in lui un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona allo stesso legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita, è punito con la reclusione da uno a sei anni. Quanto alla necessità, normativamente prevista, che le condotte in questione siano reiterate, copiosa giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass. V, n. 20993/2012; Cass. V, n. 46331/2013) ha affermato che, ai fini dell'integrazione del delitto di atti persecutori, sono necessari almeno due episodi di minaccia o violenza nel corso del tempo. Di converso, altra giurisprudenza di legittimità, conforme a quella appena richiamata, ha stabilito che un solo episodio di questo tipo, per quanto grave, non può integrare il reato in parola (in questo senso Cass. V, n. 20065/2014). I commi 2 e 3 della norma prevedono poi delle maggiorazioni (rispettivamente di un terzo e fino alla metà) della pena per chi ponga in essere tali condotte ai danni di determinate categorie di persone ovvero attraverso strumenti informatici o telematici, armi o travisando la propria persona. Con tali ultime previsioni, il Legislatore ha dunque inteso prevedere sanzioni più severe in base alle modalità ovvero alle vittime del reato di atti persecutori, apponendo così una tutela più pregnante a quelle situazioni solitamente interessate al fenomeno di stalking. Sempre nell'ottica di garantire una tutela effettiva alle vittime di queste condotte, il Legislatore, dopo aver previsto la punibilità del delitto in commento su querela della persona offesa, ha altresì previsto che la remissione della querela può essere solamente processuale, che la querela è non revocabile qualora il fatto per cui si proceda riguardi la fattispecie di cui al comma 2 della norma, nonché delle ipotesi in cui il delitto è procedibile d'ufficio (più precisamente, quando il fatto venga commesso ai danni di un minore o di una persona con disabilità, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio). 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
Atti persecutori e riduzione in schiavitù possono concorrere?
Orientamento della Corte di Cassazione Una volta delineate le singole fattispecie normative, veniamo ora ad analizzare i profili che attengono al caso descritto in sede di inquadramento e che riguarda l'eventualità che i due reati in parola possano o meno concorrere tra loro. La questione riguarda dunque la comprensione del tipo di responsabilità penale che deve essere riconosciuta in capo a quel soggetto che ponga in essere condotte vietate tanto dall'art. 600 c.p. tanto dall'art. 612-bis c.p. In altri termini, la questione sollevata in sede di inquadramento rende necessario comprendere se le due fattispecie delittuose richiamate siano tra loro legate o meno dal principio di consunzione ovvero possano concorrere tra di loro. Più nello specifico, il punto focale della problematica interpretativa riguarda la clausola di riserva di cui all'art. 612-bis, che, nel rimandare all'integrazione di “più grave reato”, potrebbe apparentemente suggerire di ritenere integrato solamente quel “più grave reato” e non anche il delitto di atti persecutori. Sul tema, la giurisprudenza di Cassazione (Cass. V, n. 37136/2022), in ricezione di quel consolidato indirizzo ermeneutico per cui l'operatività di una clausola di sussidiarietà (come quella di cui all'art. 612-bis cod. pen.) presuppone l'unità naturalistica del fatto, ha stabilito che il delitto di atti persecutori ben può concorrere con quello di riduzione in servitù qualora vi fosse una pluralità di condotte lesive della libertà personale, poste in essere in segmenti temporali differenti. In una ipotesi di questo tipo, dunque, la violazione di un'unica norma penale è da escludere e, parallelamente, sarà necessario riconoscere la sussistenza del concorso tra i reati in parola. 3. Azioni processualiProcedibilità Il reato di riduzione o mantenimento in stato di schiavitù o servitù è procedibile d'ufficio. Il reato di atti persecutori, nell'ipotesi contemplata ai commi primo e secondo, è perseguibile a querela della persona offesa; è proseguibile d'ufficio qualora il reato sia commesso ai danni di un minore, di una persona con disabilità, quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio, nonché quando l'autore sia soggetto ammonito. Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato) L'ipotesi di reato di cui all'art. 600 c.p. ha un termine di prescrizione pari ad anni quaranta (cfr. art. 157 c.p.) essendo la pena massima prevista pari a venti anni e alla luce del raddoppio dei termini prescrizionali (cfr. art. 157, comma 6) previsto per i reati contenuti nella sezione I del capo III del titolo XII del libro II del codice penale. Tale termine, in presenza di eventuali atti interruttivi (cfr. artt. 159,160 e 161 c.p.), può essere aumentato senza i limiti imposti dall'art. 161, comma 2, c.p. L'ipotesi di reato di cui all'art. 612-bis, comma 1, c.p. si prescrive in sei anni e sei mesi, essendo questa la pena massima prevista. Qualora si versi nell'ipotesi di cui al comma 3 della stessa norma, il termine per la prescrizione, stante la circostanza aggravante ad effetto speciale, sarà pari a nove anni e nove mesi. In caso di interruzione, in virtù del limite massimo di un quarto previsto dal comma 2 dell'art. 161 c.p., il reato si prescriverà in nove anni e sette mesi, mentre nell'ipotesi aggravata prevista dal comma 3, in dodici anni e un mese. A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), per tutte le ipotesi in parola, costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione: – del giudizio di appello entro il termine di due anni; – del giudizio di cassazione entro il termine di un anno. Tali termini possono essere ulteriormente estesi quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare. In ogni caso, la proroga potrà essere disposta per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione, salva la sospensione prevista dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p. e quanto previsto dalla normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021). Misure precautelari e cautelari Arresto e fermo Con riguardo al delitto di cui all'art. 600 c.p.: – l'arresto è obbligatorio in flagranza (cfr. art. 380, comma 2, lett. d) c.p.p.); – il fermo (art. 384 c.p.p.) è consentito. Con riguardo al delitto di cui all'art. 612-bis c.p.: – l'arresto è obbligatorio in flagranza (cfr. art. 380, comma 2, lett. l-ter) c.p.p.); – il fermo non è consentito. Misure cautelari personali In considerazione dei limiti edittali richiamati, sono applicabili misure cautelari coercitive (artt. 281 – 286-bis c.p.p.), consentendo l'art. 280, comma 1, c.p.p. di applicare dette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; sarà altresì possibile applicare anche la custodia cautelare in carcere essendo previsto dall'art. 280, comma 2, c.p.p., l'applicazione di detta misura in caso di delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Sarà poi possibile applicare la misura dell'allontanamento dalla casa familiare (cfr. artt. 282-bis c.p.p.) nel caso in cui i fatti siano commessi in danno di prossimi congiunti o del convivente. Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale Competenza Per il procedimento penale ex art. 600 c.p. è competente per materia la Corte di Assise (cfr. art. 5, lett. d-bis) c.p.p.). Per il procedimento penale ex art. 612-bis c.p. è competente per materia il Tribunale. Udienza preliminare Essendo le pene massime previste per le ipotesi qui richiamate superiori a quattro anni di reclusione, si procede con udienza preliminare. Composizione del tribunale Il processo per il reato di cui all'art. 600 c.p. si svolgerà dinanzi alla Corte di Assise. Il processo per il reato di cui all'art. 612-bis c.p. si svolgerà dinanzi al Tribunale in composizione monocratica (cfr. art. 33-ter c.p.p.). 4. ConclusioniLa soluzione del caso proposto, alla luce della giurisprudenza riportata, non ha tradito né il consolidato indirizzo interpretativo in tema di presupposti di operatività di clausole di riserva, né le intenzioni del Legislatore già esternate da molti anni a questa parte circa la volontà di fornire tutele sempre più pregnanti, specifiche ed estese ai beni della libertà e della dignità umana. Nel caso in commento, ciò è avvenuto riconoscendo l'autonoma rilevanza di ogni condotta avvenuta in un arco temporale di durata consistente in luogo del riconoscimento di una singola condotta, coincidente con quello stesso arco temporale. Riconosciuto così il concorso tra i reati in parola invece che la commissione di uno solo di questi (ovverosia del più grave delitto di cui all'art. 600 in virtù del principio di consunzione), a modificarsi è anche e soprattutto la pena cui incorrerà il colpevole. |