Elemento soggettivo del reato di tortura: applicazioni

Giovanni Capozio

1. Bussole di inquadramento

Gli obblighi di criminalizzazione della tortura di fonte costituzionale e di rango internazionale.

Mediante la l. 14 luglio 2017, n. 110 il legislatore italiano ha introdotto, all'interno del codice penale, l'art. 613-bis, volto a disciplinare il delitto di tortura. In tal modo, per un verso è stato attuato l'obbligo di criminalizzazione racchiuso nel disposto di cui all'art. 13, comma 4, Cost., che statuisce la punizione di ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà e, per altro verso, il legislatore interno si è conformato agli obblighi di fonte sovranazionale discendenti da una molteplicità di strumenti normativi, rivolti a configurare un generico divieto di tortura, che avevano visto l'adesione dello Stato italiano.

Gli elementi costitutivi del delitto di cui all'art. 613-bis c.p.

Il delitto di tortura, oggetto di tipizzazione ad opera dell'art. 613-bis c.p., si connota per la sussistenza di una pluralità di elementi di fattispecie, tanto da apparire utile una sintetica analisi del dato normativo che consenta di individuarne i connotati salienti.

Quanto al soggetto attivo del reato, ferme restando le incertezze interpretative emerse in seno alla giurisprudenza di legittimità ed attinenti ai rapporti intercorrenti tra le previsioni di cui ai commi 1 e 2, emerge come il legislatore abbia configurato, tramite il comma 1, un'ipotesi di reato comune, posto che il fatto tipico può essere realizzato da ‘chiunque'; di contro, mediante la previsione di cui al comma 2 viene in rilievo un'ipotesi di reato proprio, in quanto l'integrazione dell'illecito implica che il comportamento vietato sia realizzato da un pubblico ufficiale ovvero da un incaricato di pubblico servizio. Peraltro, ad avviso di una corrente interpretativa manifestatasi all'interno della giurisprudenza della Cassazione, la previsione disciplinata dal comma 2 si atteggia alla stregua di una circostanza aggravante della figura enucleata dal comma 1, il cui disvalore è incentrato attorno alla qualifica pubblicistica posseduta dal soggetto agente (Cass. V, n. 47079/2019; Cass V, n. 50208/2019).

Sotto il versante della componente oggettiva, viene in rilievo una fattispecie a forma vincolata, dato che si esige la realizzazione di una condotta che implichi il ricorso alle violenze ovvero alle minacce, che debbono assumere il connotato della gravità; in alternativa, il comportamento penalmente rilevante può estrinsecarsi in un contegno connotato dalla crudeltà dell'agire, sulla cui nozione vengono in rilievo le statuizioni elaborate in seno al formante giurisprudenziale in relazione alla circostanza aggravante comune di cui all'art. 61, n. 4) c.p.

Riguardo all'evento, la fattispecie pretende il verificarsi, in via alternativa, di un mutamento della realtà naturale che deve attingere la sfera della persona offesa, che deve concretizzarsi in acute sofferenze fisiche ovvero in un verificabile trauma psichico o, da ultimo, in un trattamento inumano e degradante.

Infine, giova osservare che per quanto attiene alla posizione della persona offesa, l'art. 613-bis c.p. circoscrive il perimetro dei soggetti nei cui confronti appaiono realizzabili gli atti tipici, potendo assumere tale qualità anzitutto la persona che risulti privata della libertà personale, in alternativa il soggetto che risulti affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza del torturatore ed infine la persona che si trovi in condizioni di minorata difesa, sulla cui nozione appare possibile rinviare alle soluzioni tratteggiate dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla circostanza aggravante comune, disciplinata dall'art. 61, n. 5) c.p.

Per ciò che concerne le caratteristiche dell'elemento soggettivo, si rinvia all'analisi elaborata nel paragrafo successivo.

2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali

Domanda
Ai fini della configurabilità della tortura, quale forma deve assumere l'elemento soggettivo?

Orientamento della Corte di Cassazione

L'integrazione del delitto di tortura non richiede la sussistenza del c.d. dolo unitario, apparendo sufficiente, in capo all'agente, la coscienza e la volontà di realizzare, di volta in volta, le singole condotte lesive.

L'analisi degli elementi strutturali del delitto di cui all'art. 613-bis c.p. consente di rilevare che, sotto il versante della componente soggettiva, ci si trova al cospetto di un illecito punibile a titolo di dolo generico, dal momento che non si esige il perseguimento di alcuno scopo specifico da parte dell'autore del fatto, il quale, pertanto, può agire per le più disparate finalità (quali, ad esempio, la ritorsione, la vendetta ovvero il mero sadismo).

In tal guisa il legislatore interno si è discostato dalla nozione di tortura accolta dalla c.d. Convenzione CAT, adottata nel contesto delle Nazioni unite nel 1984, il cui art. 1 enuclea tre differenti ipotesi che, ferma restando l'identità del sostrato materiale, divergono a seconda della tipologia di finalità perseguita dall'agente.

Finalità che, in tal modo, opera alla stregua di parametro selettivo della rilevanza penale delle predette condotte.

Invero, sulla scorta delle previsioni sancite nel predetto strumento pattizio, qualora siano state inflitte ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, i predetti atti possono acquisire i connotati della tortura ove siano stati perpetrati per (i) ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni (dando vita alla c.d. tortura giudiziaria), ovvero (ii) per punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso o, ancora, per intimidirla od esercitare pressioni su di lei oppure per intimidire od esercitare pressioni su una terza persona (profilandosi, in tale ipotesi, la c.d. tortura punitiva), o, da ultimo (iii) per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione (venendo in tal caso in rilievo la c.d. tortura discriminatoria).

Focalizzando l'analisi sul sistema penale italiano, emerge che l'articolata struttura del delitto di tortura cristallizzata dall'art. 613-bis c.p. pone l'interprete innanzi all'esigenza di comprendere quale sia il concreto modo di atteggiarsi del coefficiente soggettivo, profilandosi, in via preliminare, l'opportunità di distinguere due differenti ipotesi.

Difatti, qualora la condotta dell'agente implichi la sottoposizione della persona offesa ad un trattamento inumano e degradante non appaiono emergere peculiari problematiche, dal momento che tale tipologia di evento appare realizzabile per il tramite di una singola condotta.

In sostanza, nel foro interiore del torturatore deve configurarsi la coscienza e la volontà di cagionare, nella sfera della vittima, siffatto evento lesivo quale conseguenza eziologicamente ricollegata al proprio agire.

Maggiormente spinosa può apparire l'individuazione della forma che il coefficiente psichico appare destinato ad assumere in relazione alla differente forma di manifestazione della tortura fatta propria dall'art. 613-bis c.p., consistente nel cagionare alla vittima, in via alternativa, acute sofferenze fisiche o psichiche, ovvero un verificabile trauma psichico, posto che, sulla scorta della scelta operata dal legislatore nel tratteggiare il tipo legale, entrambe tali tipologie di eventi implicano la realizzazione, da parte dell'agente, di una pluralità di condotte.

Sul punto, ferma restando l'oscillazione interpretativa sinora registratasi in seno alla giurisprudenza di legittimità, afferente alla possibilità di conferire a tale seconda forma di manifestazione di tortura il rango di reato abituale, come peraltro sostenuto da alcune, iniziali, decisioni della Corte di Cassazione (Cass. III, n. 32380/2021; Cass. V, n. 47079/2019), contrapposte ad un filone ermeneutico di segno contrario (Cass. V, n. 50208/2019), è emerso l'interrogativo volto a decretare se nel foro interiore dell'agente sia richiesta la presenza di un dolo unitario, costituito dalla rappresentazione e dalla volizione iniziale del complesso delle condotte da realizzare, ovvero se siano sufficienti la coscienza e la volontà che, di volta in volta, sorreggano la realizzazione delle singole condotte.

Al contempo, merita rilevare come tale quesito ermeneutico appaia destinato ad assumere peculiare rilevanza laddove, dall'analisi della singola vicenda concreta, emerga che le condotte torturanti siano state perpetrate in presenza di uno o più intervalli temporali, ancorché di breve durata, come nel caso di un soggetto che, dopo aver privato la vittima della libertà personale, realizzi nei suoi confronti una serie di atti violenti, alternati da segmenti cronologici durante i quali si distanzi dalla persona offesa, ad esempio collocandosi in un ambiente separato, seppur ubicato nel medesimo immobile ove la vittima è stata sequestrata.

Sulla scorta di quanto affermato dalla Corte di Cassazione in due differenti vicende processuali, mutuando peraltro i principi enucleati dalla giurisprudenza formatasi in materia di maltrattamenti in famiglia (Cass. VI,n. 25183/2012), estesa altresì al delitto di atti persecutori, è stato statuito che ai fini della configurabilità della tortura non sia richiesto un dolo unitario, che implicherebbe la rappresentazione e la deliberazione iniziali del complesso di condotte da realizzare, in quanto ciò postulerebbe una inesistente unità ontologica del reato abituale, essendo invece sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte [Cass. V,n. 4755/2019 (dep.ta 2020); Cass. V, n. 8973/2021 (dep.ta 2022)].

Applicazioni

In applicazione di questi principi, la Corte di Cassazione è pervenuta a decretare la configurabilità della tortura in due differenti vicende processuali.

La prima di esse ha avuto ad oggetto le condotte perpetrate nell'ambito del territorio del Comune salentino di Manduria da un gruppo di persone, composto sia da maggiorenni che, come nel caso di specie, da minorenni, autodefinitosi ‘comitiva degli orfanelli', sui cui contorni fattuali i giudici di legittimità erano già stati chiamati a pronunciarsi con due ulteriori sentenze, emesse anche in tali ipotesi in fase cautelare, che avevano decretato la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del delitto di tortura in relazione alle condotte serbate dai concorrenti del soggetto indagato in tale vicenda (Cass. V, n. 50208/2019; Cass. V, n. 47079/2019), estrinsecatesi in atti violenti, umilianti e vessatori in danno di un uomo sessantaseienne, affetto da disturbi psichici, il quale era stato raggiunto in molteplici occasioni presso la propria abitazione, in cui viveva da solo, ove gli aggressori, agendo per lo più di notte, lo avevano percosso con mazze, bastoni e scope, oltre a danneggiare le suppellettili presenti nell'appartamento e a sottrargli una somma di denaro [Cass. V, n. 4755/2019 (dep.ta 2020)].

Nello specifico, all'indagato venivano contestate le condotte commesse in due differenti giornate, vale a dire il 3 ed il 5 marzo 2019.

Nella prima di esse, il gruppo degli aguzzini, agendo in occasione del carnevale, si recava presso l'abitazione della vittima, indossando tute e con il volto travisato da maschere e passamontagna, e, dopo aver danneggiato la tapparella e le finestre, mandando in frantumi i vetri, aveva tentato di sfondare a calci la porta di ingresso, contro cui veniva altresì lanciato un bidone della spazzatura.

Il successivo 5 marzo i componenti della comitiva riuscivano a sfondare la porta di ingresso con calci e con l'utilizzo di mazze e, introdottisi nell'abitazione, aggredivano, deridevano, terrorizzavano e minacciavano la persona offesa, oltre a danneggiare le cose mobili ivi presenti.

La predetta sentenza si segnala in quanto, nel reputare sussistenti gli elementi costitutivi della tortura in relazione alle condotte perpetrate dall'indagato, osserva come esse si inseriscano in un più ampio sistema di comportamenti offensivi, precedenti e successivi ai fatti a lui contestati.

In sostanza, sebbene il ricorrente non avesse preso parte alle ulteriori spedizioni punitive realizzate in danno della vittima, che avevano avuto inizio quantomeno dal precedente mese di febbraio, per poi concludersi ad inizio aprile, i giudici di legittimità hanno ritenuto che, in virtù della consapevolezza serbata da costui circa il fatto di iscrivere il proprio contributo in una più ampia cornice criminosa comprensiva dell'agire illecito ascrivibile ad altri soggetti, i due episodi oggetto di contestazione apparivano sussumibili nel perimetro dell'art. 613-bis c.p.

Tale conclusione può, per un verso, apparire appagante ove consenta di intravedere nelle singole condotte contestate all'agente i presupposti applicativi della tortura, anche a prescindere dal verificarsi di ulteriori comportamenti posti in essere da terzi soggetti che soddisfino i connotati strutturali delineati dall'art. 613-bis c.p.

Per altro verso appare necessario osservare che siffatta soluzione postuli un accertamento probatorio che imponga di verificare se il singolo soggetto, responsabile di una mera porzione del novero dei comportamenti illeciti posti in essere in danno della medesima vittima, sia a conoscenza della realizzazione, ad opera di terzi, degli ulteriori episodi di violenza e/o minaccia, ancorché non vi abbia apportato alcun contributo causalmente rilevante, né sotto il profilo materiale, né sul versante morale.

Difatti, qualora le condotte che abbia realizzato si rivelino, atomisticamente considerate, inidonee a configurare atti di tortura, la statuizione di responsabilità implica necessariamente il ricorso alla disciplina in materia di concorso di persone nel reato, potendosi in tal guisa ascrivergli la responsabilità per la violazione del disposto di cui all'art. 613-bis c.p. a condizione, da un lato, che egli serbi la consapevolezza circa la concreta realizzazione, ad opera di terzi, degli ulteriori episodi criminosi e, dall'altro, sulla scorta dei principi generali che governano l'istituto concorsuale, che anche in relazione a tali altrui condotte l'agente abbia apportato un contributo quantomeno di natura morale, ad esempio rafforzando l'altrui proposito criminoso, ovvero compiacendosi degli altrui piani, tanto da incitarne la concreta realizzazione.

Di contro, qualora l'agente non apporti alcun contributo, neppure di matrice psichica, alle altrui condotte illecite, limitandosi ad averne cognizione, e, al contempo, ove i comportamenti che abbia materialmente realizzato difettino di almeno una delle componenti strutturali della tortura, l'applicazione dell'art. 613-bis c.p. potrebbe apparire meno agevole, in virtù del fatto che i singoli episodi parrebbero, semmai, meritevoli di punizione alla stregua di differenti fattispecie criminose, quali, ad esempio, le lesioni personali, le percosse, la violenza privata e/o la minaccia.

Nella seconda vicenda processuale condotta al vaglio della Corte di cassazione, con cui è stata confermata la tesi interpretativa secondo cui la configurabilità della tortura non presuppone un dolo unitario, i giudici di legittimità sono stati chiamati a confrontarsi con la vicenda avente ad oggetto le condotte perpetrate dal Comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere nel mese di aprile 2020, in relazione agli episodi di violenza e sopraffazione compiuti ai danni di alcuni detenuti ivi ristretti [Cass. n. 4755/2019 (dep. 2020)].

Secondo quanto accertato sulla base delle immagini acquisite dal sistema di videosorveglianza del carcere, nonché dalle chat intrattenute tra gli agenti di Polizia penitenziaria e dalle dichiarazioni rese dai detenuti, all'interno di un reparto della predetta casa circondariale numerosi agenti di Polizia penitenziaria – giunti anche dalle carceri di Secondigliano e di Avellino – esercitavano una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro, per poi venire costretti ad attraversare il c.d. “corridoio umano”, consistente in una fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia.

Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti – consistenti, ad esempio, nel far bere l'acqua prelevata dal water e nello sputare addosso ai soggetti reclusi –, che inducevano in essi reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l'incontinenza urinaria.

Le sofferenze fisiche e psicologiche venivano perpetrate anche nei giorni immediatamente successivi, in particolare nei confronti di un gruppo di quattordici detenuti trasferiti in un altro reparto perché ritenuti ispiratori della protesta del 5 aprile –, i quali furono lasciati senza cibo e, per cinque giorni, senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, oltre all'impossibilità di intrattenere colloqui con i familiari; tant'è che alcuni di loro indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati.

Al contempo, anche nei confronti dei detenuti rimasti nel reparto originario veniva riservato un trattamento degradante, che implicava addirittura la imposizione, volutamente mortificante della capacità di autodeterminazione, del taglio della barba.

La Cassazione ha conferito rilevanza penale alla condotta serbata dal Comandante, malgrado costui non avesse partecipato alla materiale esecuzione degli atti di tortura, posto che aveva fornito un contributo rilevante, sia sotto il profilo materiale, che sul piano morale, sia prima che dopo l'inizio delle operazioni di pestaggio, allorquando aveva chiesto l'intervento del Gruppo di supporto comandato da un altro pubblico ufficiale, aveva autorizzato l'ingresso nel carcere di oltre duecento agenti provenienti da altri istituti penitenziari armati di scudi e manganelli; aveva partecipato e diretto la riunione preliminare organizzativa che aveva preceduto l'inizio della c.d. “perquisizione straordinaria”, impartendo indicazioni ai propri subordinati, e consentendo al personale del gruppo di supporto intervenuto appositamente di operare senza freni; infine, nel corso della riunione preliminare individuava i quattordici detenuti da portare via, che successivamente venivano trasferiti in un altro reparto, dove sarebbero stati abbandonati per giorni, in stato di degrado fisico ed umano, senza cibo, vestiti e coperte.

Al contempo, la Cassazione ha osservato che le condotte di tortura non si fossero arrestate a quelle inflitte il pomeriggio del 6 aprile, essendo proseguite, con ulteriori vessazioni, in particolare nei confronti dei quattordici detenuti che erano stati trasferiti in un differente reparto, anche nei giorni successivi, tanto da ascriversi all'indagato il ruolo primario, organizzativo e decisionale, assunto non soltanto in relazione ai pestaggi realizzati nella giornata del 6 aprile, ma altresì in relazione alle successive condotte degradanti nei confronti dei detenuti, in particolare di quelli trasferiti in altro reparto.

3. Azioni processuali

Ulteriori attività difensive

Per la fattispecie in esame si possono esperire le seguenti ulteriori attività difensive: Quesito in tema di accertamenti autoptici (causa della morte incerta); Conferimento incarico al consulente tecnico a svolgere investigazioni difensive; Richiesta di applicazione di misura cautelare personale.

ProcedibilitàPer il reato di tortura si procede d'ufficio, sia nell'ipotesi della tortura comune di cui al comma 1, sia nell'ipotesi della tortura pubblica, disciplinata dal comma 2. La procedibilità d'ufficio è inoltre prevista sia in relazione alle ipotesi circostanziali disciplinate dal comma 4 dell'art. 613-bis, qualora dalla tortura derivino lesioni personali lievi, gravi o gravissime, sia in relazione alle figure circostanziali disciplinate dal comma 5 del medesimo articolo, qualora dalla tortura derivi la morte quale conseguenza non voluta, ovvero nell'ipotesi in cui il colpevole cagioni volontariamente la morte della persona offesa.

Improcedibilità delle impugnazioni (e prescrizione del reato)

Per l'ipotesi della tortura comune (art. 613-bis, comma 1, c.p.), il termine-base di prescrizione è pari ad anni dieci (cfr. art. 157 c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di anni dodici e mesi sei (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Per l'ipotesi della tortura pubblica (art. 613-bis, comma 2, c.p.), il termine-base di prescrizione è pari ad anni dodici (cfr. art. 157 c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di anni quindici (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Per l'ipotesi in cui dai fatti di tortura comune derivi una lesione personale lieve (art. 613-bis, commi 1 e 4, c.p.), il termine-base di prescrizione è pari ad anni dieci (cfr. art. 157 c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di anni dodici e mesi sei (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Per l'ipotesi in cui dai fatti di tortura pubblica derivi una lesione personale lieve (art. 613-bis, commi 2 e 4, c.p.) il termine-base di prescrizione è pari ad anni dodici (cfr. art. 157 c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di anni quindici (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Per l'ipotesi in cui dai fatti di tortura comune derivi una lesione personale grave (art. 613-bis, commi 1 e 4, c.p.), il termine-base di prescrizione è pari ad anni tredici e mesi quattro (art. 157, comma 2, c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di anni sedici e mesi otto (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Per l'ipotesi in cui dai fatti di tortura pubblica derivi una lesione personale grave (art. 613-bis, commi 2 e 4, c.p.), il termine-base di prescrizione è pari ad anni sedici (art. 157, comma 2, c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di anni venti (cfr. artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Per l'ipotesi in cui dai fatti di tortura comune derivi una lesione personale gravissima (art. 613-bis, commi 1 e 4, c.p.), il termine-base di prescrizione è pari ad anni quindici (art. 157, comma 2, c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di anni diciotto e mesi tre (artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Per l'ipotesi in cui dai fatti di tortura pubblica derivi una lesione personale gravissima (art. 613-bis, commi 2 e 4, c.p.), il termine-base di prescrizione è pari ad anni diciotto (art. 157, comma 2, c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di anni ventidue e mesi sei (artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Per l'ipotesi in cui dai fatti di tortura, sia comune che pubblica, derivi la morte quale conseguenza non voluta dal reo (art. 613-bis, commi 1, 2 e 5, c.p.), il termine-base di prescrizione è pari ad anni trenta (art. 157, comma 2, c.p.), aumentabile, in presenza del sopravvenire di eventi interruttivi, fino ad un massimo di anni trentasette e mesi sei (artt. 160 e 161 c.p.), oltre i periodi di sospensione (cfr. artt. 159 e 161 c.p.).

Per l'ipotesi in cui dai fatti di tortura, sia comune che pubblica, il colpevole cagioni volontariamente la morte della persona offesa (art. 613-bis, commi 1, 2 e 5, c.p.), il reato è imprescrittibile (art. 157, comma 8, c.p.).

A partire dal 1° gennaio 2020 (cfr. art. 2, comma 3, l. n. 134/2021), per tutti i casi di tortura (sia essa comune oppure pubblica, sia che ricorra almeno una delle figure circostanziali di cui ai commi 2, 4 o 5) costituiscono causa di improcedibilità dell'azione penale ex art. 344-bis c.p.p., la mancata definizione:

– del giudizio di appello entro il termine di due anni;

– del giudizio di cassazione entro il termine di un anno;

salva proroga per un periodo non superiore ad un anno nel giudizio di appello ed a sei mesi nel giudizio di cassazione quando il giudizio d'impugnazione risulta particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare;

salva sospensione nei casi previsti dall'art. 344-bis, comma 6, c.p.p.;

salva diversa modulazione dei predetti termini in applicazione della normativa transitoria (cfr. art. 2, commi 4 e 5, l. n. 134/2021).

Misure precautelari e cautelari

Arresto e fermo

Con riguardo al reato di tortura:

– è obbligatorio l'arresto in flagranza di reato nelle ipotesi di tortura, sia essa comune o pubblica, ove ricorrano le circostanze di cui al comma 5 (art. 380 c.p.p.);

– è sempre consentito l'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 1, c.p.p.), in relazione alle ipotesi di tortura comune o pubblica, siano esse nella forma semplice ovvero nella forma circostanziata di cui al comma 4;

– è sempre consentito il fermo (art. 384 c.p.p.).

Misure cautelari personali

Le previsioni di cui all'art. 280, commi 1 e 2 c.p.p., consentono l'applicazione al delitto di tortura, nelle differenti forme di manifestazione previste dall'art. 613-bis c.p., delle misure cautelari coercitive (artt. 281-286-bis c.p.p.), ivi compresa la custodia cautelare in carcere (art. 285 c.p.p.), poiché l'art. 280, comma 1, c.p.p. consente l'applicazione delle predette misure ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni e l'art. 280, comma 2, c.p.p. consente l'applicazione della misura custodiale ai soli delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

La previsione di cui all'art. 287, comma 1, c.p.p. consente l'applicazione al delitto di tortura, nelle differenti forme di manifestazione previste dall'art. 613-bis c.p., delle misure cautelari interdittive (artt. 288-290 c.p.p.), posto che tale tipologia di misure può essere applicata solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni.

Competenza, forme di citazione a giudizio e composizione del tribunale

Competenza

Nell'ipotesi della tortura comune (art. 613-bis, comma 1, c.p.), altresì se aggravata dall'aver cagionato alla persona offesa una lesione lieve (comma 4, prima parte), è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione monocratica (cfr. artt. 33-bis e 33-ter c.p.p.)

Viceversa, nelle ipotesi della tortura comune, aggravata dall'aver cagionato alla persona offesa una lesione grave o gravissima (art. 613-bis, commi 1 e 4, seconda parte, c.p.), è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione collegiale (cfr. art. 33-bis, comma 2, c.p.p.).

Qualora, nell'ipotesi della tortura comune, derivi la morte della persona offesa, sia quale conseguenza non voluta dall'agente, sia nell'ipotesi in cui l'agente l'abbia volontariamente cagionata (art. 613-bis, commi 1 e 5, c.p.) è competente per materia la Corte d'Assise (cfr. art. 5 c.p.p.).

Nelle ipotesi della tortura pubblica, sia nella forma semplice, sia qualora ricorra una o più delle circostanze aggravanti di cui al comma 4 dell'art. 613-bis c.p., è competente per materia il tribunale (cfr. art. 6 c.p.p.), che decide in composizione collegiale (cfr. art. 33-bis, comma 2, c.p.p.).

Qualora, nell'ipotesi della tortura pubblica, derivi la morte della persona offesa, sia quale conseguenza non voluta dall'agente, sia nell'ipotesi in cui l'agente l'abbia volontariamente cagionata (art. 613-bis, commi 2 e 5, c.p.) è competente per materia la Corte d'Assise (cfr. art. 5 c.p.p.).

Citazione a giudizio

Per tutte le ipotesi di tortura si procede con udienza preliminare (cfr. art. 550, comma 1, c.p.p.).

Composizione del tribunale o della Corte d'assise

Il processo per il delitto di tortura comune, altresì se aggravato dall'aver cagionato alla persona offesa una lesione lieve (art. 613-bis, commi 1 e 4, prima parte, c.p.), si svolgerà innanzi al tribunale in composizione monocratica.

Il processo per il delitto di tortura comune, aggravato dall'aver cagionato alla persona offesa una lesione grave o gravissima (art. 613-bis, commi 1 e 4, seconda parte, c.p.), si svolgerà innanzi al tribunale in composizione collegiale.

Il processo per il delitto di tortura comune, a cui abbia fatto seguito la morte della vittima, sia nell'ipotesi in cui si tratti di conseguenza non voluta, ovvero nel caso in cui l'agente l'abbia volontariamente cagionata (art. 613-bis, commi 1 e 5), si svolgerà innanzi alla Corte d'assise.

Il processo per il delitto di tortura pubblica, sia nella forma semplice, sia nell'ipotesi in cui ricorra una o più delle circostanze aggravanti di cui al comma 4 dell'art. 613-bis c.p., si svolgerà innanzi al tribunale in composizione collegiale.

Il processo per il delitto di tortura pubblica, a cui abbia fatto seguito la morte della vittima, sia nell'ipotesi in cui si tratti di conseguenza non voluta, ovvero nel caso in cui l'agente l'abbia volontariamente cagionata (art. 613-bis, commi 1 e 5), si svolgerà innanzi alla Corte d'Assise.

4. Conclusioni

La soluzione adottata dalla giurisprudenza di legittimità, protesa ad escludere che, ai fini della configurabilità della tortura, il coefficiente soggettivo chiamato a sorreggere la condotta dell'agente debba assumere i connotati del c.d. dolo unitario, appare condivisibile.

Difatti, anche sulla scorta del concreto atteggiarsi, nella prassi empirica, di quelle condotte meritevoli di sussunzione nel paradigma applicativo dell'art. 613-bis c.p., appare preferibile ritenere che l'agente non sia necessariamente vincolato ad una previa opera di pianificazione dei singoli atti, siano essi di carattere violento o minatorio, che intenda perpetrare nei confronti della vittima, posto che nelle fasi antecedenti alla realizzazione del primo comportamento lesivo l'autore potrebbe non aver ancora deliberato né il quantitativo di condotte vessatorie che intenda compiere, né le concrete modalità di estrinsecazione di ciascuna di esse.

Di contro, ciò che appare ragionevole esigere dall'interprete chiamato ad analizzare la componente psicologica dei fatti oggetto di accertamento processuale, è rappresentato dalla necessità di valutare se, nel foro interiore dell'agente, sussista la consapevolezza circa il fatto che la singola condotta vessatoria – che, di per sé, potrebbe rivelarsi inidonea ai fini della configurabilità della tortura – si incastoni in una sequenza di ulteriori comportamenti (ancorché limitata a due episodi), la cui sommatoria consenta il raggiungimento dell'obiettivo preso di mira dall'autore del fatto, che deve consistere, quantomeno nella dimensione dell'adesione psichica al relativo evento, nel cagionare una delle conseguenze lesive tipizzate in via alternativa dall'art. 613-bis c.p.

In sostanza, l'agente deve nutrire la coscienza e la volontà del fatto che ciascun atto lesivo successivo al primo, che abbia innescato la relativa catena criminosa, possa acquisire il rango di comportamento idoneo ad aggravare le conseguenze lesive già cagionate tramite la prima condotta.

In tal modo l'agente è chiamato a rappresentarsi e poi concretamente volere l'attuazione del predetto complesso di episodi che, seppur interrotto da alcuni intervalli temporali di quiete ed ancorché non oggetto di una preventiva ed accurata opera di pianificazione di ogni singolo comportamento illecito, è destinato ad assumere natura unitaria, in ciò rivelandosi il maggior disvalore che, quantomeno in astratto, la fattispecie che sanziona la tortura appare destinata a rivestire.

Tale conclusione appare coerente con le concrete modalità di manifestazione di siffatta tipologia di comportamenti nella realtà materiale. Si pensi, a mero titolo d'esempio, all'ipotesi in cui un soggetto sottoposto ad un regime di restrizione della libertà personale in virtù di un legittimo provvedimento dell'Autorità, venga dapprima assoggettato ad una condotta violenta, perpetrata in suo danno da un pubblico agente, finalizzata ad ottenere la confessione di dati ed elementi rilevanti per l'accertamento di un determinato accadimento storico e, stante la resistenza serbata dalla vittima, a distanza di pochi giorni il medesimo soggetto agente, conscio di quanto realizzato nella precedente occasione, attui un'ulteriore condotta lesiva, connotata da una carica offensiva maggiore di quella che aveva contraddistinto il primo episodio.

In alternativa, si supponga l'ipotesi di un soggetto che, dopo aver tratto in inganno una persona, conducendola in un luogo appartato, la sottoponga ad una pluralità di sevizie, susseguitesi in un ristretto arco temporale, servendosi di strumenti reperiti sul luogo teatro dei fatti, sino a quel momento ignoto allo stesso agente che, di conseguenza, appare ragionevole escludere, o quantomeno lecito dubitare, possa aver previamente pianificato la gamma di condotte lesive realizzate in danno del soggetto preso di mira, né tantomeno le modalità esecutive di ciascuna di esse.

Pertanto appare possibile ritenere che il delitto di tortura risulti integrato anche al cospetto di singole deliberazioni volitive, di volta in volta adottate dall'agente, a condizione che nell'adozione di ciascuna di esse l'autore si rappresenti la circostanza per cui le medesime non si profilino quali monadi isolate, bensì vadano ad inanellarsi in una catena di condotte, funzionalmente connesse le une alle altre, in virtù della relativa attitudine a cagionare almeno uno degli eventi tipizzati dal disposto dell'art. 613-bis c.p.

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