Decreto legislativo - 31/03/2023 - n. 36 art. 8 - Principio di autonomia contrattuale. Divieto di prestazioni d'opera intellettuale a titolo gratuito.Principio di autonomia contrattuale. Divieto di prestazioni d'opera intellettuale a titolo gratuito. 1. Nel perseguire le proprie finalità istituzionali le pubbliche amministrazioni sono dotate di autonomia contrattuale e possono concludere qualsiasi contratto, anche gratuito, salvi i divieti espressamente previsti dal codice e da altre disposizioni di legge. 2. Le prestazioni d'opera intellettuale non possono essere rese dai professionisti gratuitamente, salvo che in casi eccezionali e previa adeguata motivazione. Salvo i predetti casi eccezionali, la pubblica amministrazione garantisce comunque l'applicazione del principio dell'equo compenso secondo le modalità previste dall'articolo 41, commi 15-bis, 15-ter e 15-quater12. 3. Le pubbliche amministrazioni possono ricevere per donazione beni o prestazioni rispondenti all'interesse pubblico senza obbligo di gara. Restano ferme le disposizioni del codice civile in materia di forma, revocazione e azione di riduzione delle donazioni. [1] Comma modificato dall'articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 31 dicembre 2024, n. 209. [2] Vedi l'articolo 3 dell'O.P.C.M. 9 aprile 2025, n. 227. InquadramentoIl comma 1 della norma recepisce, più che sancire, il principio di autonomia contrattuale della pubblica amministrazione nel solco dell'orientamento ormai indiscutibile della giurisprudenza che riconosce alla pubblica amministrazione una generale capacità negoziale, a nulla rilevando il principio di tipicità che riguarda solo provvedimenti amministrativi e non si estende ai contratti, per i quali vige l'opposto principio di atipicità (art. 1322 c.c.). In realtà il recepimento normativo del principio deve farsi risalire all'art. 1, comma 1- bis, l. n. 241/1990, come modificato dalla l. n. 15/2005. Anche con riferimento a tale ultima disposizione si è esclusa una reale portata innovativa, per circoscrivere l'intervento legislativo al riconoscimento della capacità di diritto privato e di una generale potestà contrattuale dell'Amministrazione, che prima erano da presupporre riconducibili al rinvio alle leggi speciali contenuto nell'articolo 11 del Codice civile. Con tale normativa, il legislatore, prendendo atto di una profonda revisione dell'agire funzionale della P.A., ha codificato il principio dell'accesso di quest'ultima agli strumenti privatistici come alternativa all'esercizio del potere, consapevole della loro idoneità all'attuazione dei principi, predefiniti dalla legge ed indisponibili, di efficienza, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa. Si tratta pur sempre di un'autonomia negoziale “limitata” e “funzionale” (Greco, 69 ss.), poiché deve svolgersi nel rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e di tutela del terzo, che devono essere perseguiti nell'osservanza di criteri imperativi e continuativi, in assenza di discriminazioni e di limitazioni del diritto di azione dei terzi a tutela d'interessi legittimi. Ne consegue che lo strumento contrattuale può essere usato tanto per gli enti pubblici economici o a vantaggio delle società per azioni pubbliche miste, quanto in favore degli enti pubblici funzionali, purché nel rispetto degli scopi fissati dal legislatore, a prescindere che si tratti di contratti tipici o atipici (Dugato, 49 ss.). Perciò, i limiti dell'autonomia negoziale della pubblica amministrazione non sono soltanto quelli correlati alla meritevolezza degli interessiex art. 1322 c.c., ma anche quelli derivanti dalla soggettività dell'Amministrazione pubblica e, quindi, pertinenti al vincolo della funzione istituzionale che il legislatore ha voluto attribuire alla medesima. Al di là dei predetti limiti “interni” della capacità negoziale della pubblica amministrazione, vengono poi in rilievo i limiti esterni costituiti dai divieti espressamente previsti dalla legge, come nel caso dei contratti di società, in relazione al quale l'art. 4, comma 1, d.lgs. n. 175/2016, vieta la costituzione di “società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali” o in materia di contratti derivati stipulati da Regioni ed enti locali ai sensi dell'art. 62 d.l. n. 112/2008, convertito dalla l. n. 133/2008, così come modificato dall'art. 1, comma 572, l. n. 147/2013. Il decreto correttivo (D. Lgs. n. 209/2024)L'art. 1 del Decreto correttivo interviene a modificare l'art. 8, comma 2, al fine di coordinare la disposizione con le modifiche legislative che lo stesso Decreto correttivo ha apportato all'art. 41 del Codice. In particolare, fermo restando il principio di autonomia contrattuale di ciascuna stazione appaltante, il rispetto dell'equo compenso da parte della stessa deve avvenire secondo le modalità previste dall'art. 41, commi 15-bis, 15-ter e 15-quater, introdotti anch'essi dal Decreto correttivo. La gratuità del contrattoÈ evidente che l'amministrazione pubblica possa stipulare contratti gratuiti. Una generalizzata esclusione del contratto gratuito sarebbe, come si ricorda nella Relazione illustrativa, di dubbia compatibilità costituzionale e di dichiarata incompatibilità col diritto dell'Unione (vedi sentenza Corte di Giustizia UE 10 settembre 2020, n. 367). Peraltro, il richiamo a tale pronuncia non pare del tutto congruo in relazione alla fattispecie esaminata dal Giudice europeo, nella quale la legge di gara aveva ad oggetto un contratto a titolo oneroso e l'offerente aveva offerto il prezzo di € 0 e per tale ragione era stato escluso dalla gara. In tale specifica situazione, la Corte precisa che la questione deve essere interpretata nell'ambito della disciplina dell'anomalia dell'offerta, affermando che “l'art. 2, paragrafo 1, punto 5, della Direttiva 2014/24 non può costituire un fondamento giuridico per il rigetto di un'offerta che proponga un prezzo di EUR 0. Pertanto, tale disposizione non consente il rigetto automatico di un'offerta presentata nell'ambito di un appalto pubblico, quale un'offerta al prezzo di EUR 0, con cui un operatore proponga di fornire all'amministrazione aggiudicatrice, senza esigere alcun corrispettivo, i lavori, le forniture o i servizi che quest'ultima intende acquisire. In tali circostanze, poiché un'offerta al prezzo di EUR 0 può essere qualificata come offerta anormalmente bassa, ai sensi dell'art. 69 della Direttiva 2014/24, qualora un'amministrazione aggiudicatrice si trovi di fronte ad un'offerta del genere, essa deve seguire la procedura prevista in detta disposizione, chiedendo all'offerente spiegazioni in merito all'importo dell'offerta. Infatti, dalla logica sottesa all'art. 69 della Direttiva 2014/24 risulta che un'offerta non può automaticamente essere respinta per il solo motivo che il prezzo proposto è di EUR 0”. Tuttavia, nella medesima sentenza si precisa che “dal senso giuridico abituale dei termini «a titolo oneroso» risulta che questi ultimi designano un contratto mediante il quale ciascuna delle parti si impegna ad effettuare una prestazione quale corrispettivo di un'altra prestazione (v., in tal senso, sentenza della Corte di Giustizia UE 18 ottobre 2018, IBA Molecular Italy, C-606/17, EU:C:2018:843, punto 28). Il carattere sinallagmatico del contratto rappresenta quindi una caratteristica essenziale di un appalto pubblico (v., in tal senso, sentenze Corte di Giustizia UE 21 dicembre 2016, Remondis, C- 51/15, EU:C:2016:985, punto 43; Corte di Giustizia UE 28 maggio 2020, Informatikgesellschaft für Software- Entwicklung, C-796/18, EU:C:2020:395, punto 40, e Corte di Giustizia UE 18 giugno 2020, Porin kaupunki, C-328/19, EU:C:2020:483, punto 47)” ne “consegue che un contratto con il quale un'amministrazione aggiudicatrice non è giuridicamente tenuta a fornire alcuna prestazione quale corrispettivo di quella che la sua controparte si è impegnata a realizzare non rientra nella nozione di «contratto a titolo oneroso» ai sensi dell'art. 2, paragrafo 1, punto 5, della Direttiva 2014/24” mentre “Il fatto, menzionato dal giudice del rinvio e inerente a qualsiasi procedura di appalto pubblico, che l'ottenimento di tale contratto possa avere un valore economico per l'offerente, nella misura in cui esso gli conferirebbe l'accesso ad un nuovo mercato o gli consentirebbe di ottenere referenze, è troppo aleatorio e, di conseguenza, non può essere sufficiente, come rilevato, in sostanza, dall'avvocato generale ai paragrafi da 63 a 66 delle sue conclusioni, per qualificare tale contratto come «contratto a titolo oneroso»”. Il problema non è quindi se l'amministrazione possa stipulare contratti gratuiti, possibilità di cui non sembra essersi mai dubitato, ma se la stipula di un contratto gratuito rientri nell'ambito di applicazione del Codice (esclusione prevista dal comma 3 solo per le donazioni) e, prima ancora, quando un contratto possa effettivamente ritenersi gratuito. Il previgente Codice prevedeva una disposizione non più ripresa dal nuovo Codice, secondo cui “Il presente codice non si applica al caso in cui un'amministrazione pubblica stipuli una convenzione con la quale un soggetto pubblico o privato si impegni alla realizzazione, a sua totale cura e spesa e previo ottenimento di tutte le necessarie autorizzazioni, di un'opera pubblica o di un suo lotto funzionale o di parte dell'opera prevista nell'ambito di strumenti o programmi urbanistici, fermo restando il rispetto dell'art. 80” (art. 20, rubricato come “Opera pubblica realizzata a spese del privato”). Tale disposizione ha avuto una scarsa applicazione, in ragione dell'orientamento restrittivo seguito da ANAC che, nei pareri in data 21 gennaio 2015, n. 5714 e in data 13 luglio 2016, n. 763, ha dato una interpretazione dell'onerosità piuttosto ampia, ricomprendendovi qualsiasi utilità che direttamente o indirettamente il privato possa conseguire dalla realizzazione dell'opera pubblica. Tale interpretazione pare oggi doversi rimeditare proprio in ragione della richiamata pronuncia della Corte di Giustizia, dalla quale si desume che, ai fini di assoggettare un contratto all'obbligo della gara pubblica, l'eventuale utilità che il privato possa conseguire dalla realizzazione a favore di un'amministrazione di un'opera, un servizio o fornitura a propria cura e spese non può essere puramente aleatoria, ma deve oggetto di una precisa controprestazione da parte dell'amministrazione la cui esecuzione deve poter essere esigibile in sede giurisdizionale (v., anche sentenza Corte Giustizia UE 25 marzo 2010, Helmut Müller, C- 451/08, punti da 60 a 62). Il divieto di prestazione gratuita dell'attività professionaleIl comma 2 prevede che “Le prestazioni d'opera intellettuale non possono essere rese dai professionisti gratuitamente. In tali casi la pubblica amministrazione garantisce comunque l'applicazione del principio dell'equo compenso”, dando così attuazione al criterio direttivo della lettera l) della legge delega che prevede il “divieto di prestazione gratuita dell'attività professionale, salvo che in casi eccezionali e previa motivazione”. La norma interviene a sanare una certa prassi seguita da diverse Amministrazioni pubbliche che hanno pubblicato bandi “a zero compensi”. Il caso più clamoroso è forse quello realizzato dal Ministero dell'economia e delle finanze (MEF) in data 27 febbraio 2019, che intendeva reclutare soggetti con “esperienza accademica/professionale non rinvenibile all'interno della struttura”. Il divieto introdotto dal nuovo codiceè stato inteso in senso letterale e, quindi riferito solo alle “prestazioni d'opera intellettuale” di cui agli articoli 2229, e seguenti, c.c., per le quali, come si legge nella Relazione illustrativa, deve operare la regola dell'equo compenso ai sensi dell'art. 2233 c.c. Nella stessa Relazione si evidenzia, sul tema, che con riferimento agli avvocati già esiste una disposizione che garantisce l'equo compenso. Si tratta dell'art. 13-bis della l. n. 247/2012, introdotto dall'art. 19-quaterdecies d.l. n. 148/2017, che così dispone: “3. La pubblica amministrazione, in attuazione dei princìpi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell'equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. Si dà altresì atto che la norma è stata interpretata in maniera restrittiva da una parte della giurisprudenza amministrativa (cfr., in particolare Cons. St. IV, n. 7442/2021, secondo cui “la normativa sull'equo compenso sta a significare soltanto che, laddove il compenso sia previsto, lo stesso debba necessariamente essere equo, mentre non può ricavarsi dalla disposizione l'ulteriore (e assai diverso corollario) che lo stesso debba essere sempre previsto (a meno di non sostenere, anche in questo caso, che non vi possa essere alcuno spazio per la prestazione di attività gratuite o liberali da parte dei liberi professionisti) [...]. La disposizione non esclude il (e nemmeno implica la rinuncia al) potere di disposizione dell'interessato, che resta libero di rinunciare al compenso – qualunque esso sia, anche indipendentemente dalla equità dello stesso – allo scopo di perseguire od ottenere vantaggi indiretti (come nel caso che ci occupa) o addirittura senza vantaggio alcuno, nemmeno indiretto, come tipicamente accade nelle prestazioni liberali (donazioni o liberalità indirette)”. Si trattava con tutta evidenza di una lettura che svuotava il dato normativo ed eludeva sostanzialmente l'applicazione della disciplina alle PPAA, nonostante la chiara indicazione del legislatore, almeno in punto di principio. Questo orientamento è stato, quindi, superato dalla norma in esame, i cui contenuti hanno ricevuto ulteriore conferma dalla recente l. n. 49/2023, che ha innovato la disciplina in materia di equo compenso delle prestazioni professionali. In particolare, nel comma 3 dell'art. 2 è espressamente sancito che le relative disposizioni si applicano anche «alle prestazioni rese dai professionisti in favore della pubblica amministrazione e delle società disciplinate dal testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al d.lgs. n. 175/2016». Del resto, va dato atto come una parte della giurisprudenza amministrativa avesse già affermato la violazione del principio dell'equo compenso da parte delle pubbliche amministrazioni nelle fattispecie in cui le stesse abbiano fissato nella lex specialis un compenso in misura fissa per la prestazione di servizi legali, quali, ad esempio, un compenso pari a zero per le cause di valore inferiore ad una determinata soglia (T.A.R. Campania (Napoli) I, ordinanza 25 ottobre 2018, n. 1541) o un compenso forfettario annuo non proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (T.A.R. Marche, 9 dicembre 2019, n. 761). Il problema si sposta quindi alla determinazione del “compenso equo”. Al proposito, si è ritenuto che “imporre alle pubbliche amministrazioni l'applicazione di parametri minimi rigidi e inderogabili, anche in assenza della predisposizione unilaterale dei compensi e di un significativo squilibrio contrattuale a carico del professionista, comporterebbe un'irragionevole compressione della discrezionalità delle stesse nell'affidamento dei servizi legali, in assenza delle condizioni di non discriminazione, di necessità e di proporzionalità che giustificano l'introduzione di requisiti restrittivi della libera concorrenza”, con la conseguente inammissibilità della tesi secondo cui le pubbliche amministrazioni sarebbero tenute sempre e comunque a corrispondere al professionista incaricato di un servizio legale un compenso non inferiore al minimo dei parametri stabiliti dal decreto ministeriale, anche ove il compenso non sia imposto unilateralmente o non si ravvisi un significativo squilibrio contrattuale a carico del professionista (T.A.R. Lombardia (Milano) I, n. 1071/2021). La disciplina dell'equo compenso, si sostiene, è rivolta a tutelare la posizione del professionista debole e non l'indipendenza, la dignità e il decoro della categoria professionale, la quale si realizza attraverso il rispetto dei precetti contenuti nel codice deontologico, che impongono al professionista di non offrire la propria prestazione in cambio di compensi lesivi della dignità e del decoro professionale, nel rispetto dei principi della corretta e leale concorrenza (art. 9, comma 1, del Codice deontologico forense) e dei doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le Istituzioni forensi (articolo 19 del codice deontologico forense). La questione dovrebbe ritenersi superata, proprio con l'entrata in vigore della richiamata l. n. 49/2023 (Disposizioni in materia di equo compenso delle prestazioni professionali), che definisce (art. 1) “equo compenso” come la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonché conforme ai compensi previsti: – per gli avvocati: dal d.m. emanato in conformità alla legge forense (attualmente il d.m. n. 55/2014 aggiornato dal d.m. n. 147/2022); – per i professionisti iscritti agli ordini e collegi, i valori presi a riferimento sono attualmente quelli stabiliti da d.m. n. 140/2012, che dovranno essere comunque aggiornati; – per le professioni non ordinistiche dovrà essere adottato entro 60 giorni un apposito decreto dal ministero delle imprese e del made in Italy. La stessa legge prevede la nullità per le clausole difformi da tali parametri (art. 3), l'azione del professionista per la rideterminazione giudiziale del compenso (art. 3, comma 6) e, infine, sanzioni da parte degli ordini professionali a carico dei professionisti, che ribassando oltremodo i compensi, sviliscono il valore della prestazione professionale (art. 5). Le donazioni a favore della P.A.In armonia con il principio di autonomia contrattuale di cui al comma 1, il comma 3 chiarisce che l'amministrazione, come tutti i soggetti del diritto (salvo incapacità giuridiche speciali) ha la capacità giuridica di ricevere per atto di liberalità. L'unica condizione aggiuntiva, rispetto agli altri soggetti del diritto, attiene ai predetti limiti funzionali all'autonomia negoziale della P.A. e richiede quindi per l'accettazione è la previa valutazione che l'acquisizione del bene o della prestazione sia conforme all'interesse pubblico perseguito o, comunque, all'interesse della collettività. Pertanto, l'accettazione della donazione richiede un atto deliberativo dell'ente che valuti la rispondenza della liberalità al pubblico interesse. La donazione deve tradursi in un effettivo arricchimento della sfera patrimoniale o non patrimoniale (artistica, culturale ecc.) di quest'ultimo ed è volta ad escludere donazioni o atti di liberalità posti in essere dal donante/disponente al solo scopo di liberarsi da oneri di manutenzione di beni immobili privi di qualunque utilità o valore, traslandoli sulla pubblica amministrazione. La forma dell'atto pubblico a norma dell'art. 783 c.c. è richiesto ove ne ricorrano le condizioni ed escluso per le donazioni di modico valore che hanno ad oggetto beni mobili (e quindi anche denaro), a patto che vi sia stato il trasferimento, dal donante al donatario, dell'oggetto donato. Secondo la Cassazione, ai fini del riconoscimento del modico valore di una donazione, l'art. 783 c.c. non detta criteri rigidi cui ancorare la relativa valutazione, dovendosi essa apprezzare alla stregua di due elementi di valutazione la cui ricorrenza, involge un giudizio di fatto: quello obiettivo, correlato al valore del bene che ne è oggetto, e quello soggettivo, per il quale si tiene conto delle condizioni economiche del donante. Ne consegue che l'atto di liberalità, per essere considerato di modico valore, non deve mai incidere in modo apprezzabile sul patrimonio del donante (v. Cass. II, ord. n. 3858/2020). Con riferimento alle donazioni, il comma 3 esclude espressamente l'obbligo della gara. Secondo la Relazione, l'assenza di qualunque interesse economico determina una netta demarcazione delle donazioni rispetto ai contratti a titolo gratuito (es. sponsorizzazioni) disciplinati all'art. 13, commi 2 e 5, del codice (il quale rinvia, per le definizioni, all'Allegato I.1) e giustifica l'esenzione dall'obbligo di gara per la selezione del contraente, che sarebbe, del resto, incompatibile con la natura liberale dell'atto. Peraltro, in ragione di quanto evidenziato al paragrafo precedente, tale conclusione appare eccessivamente approssimativa, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza eurounitaria, un contratto non può ritenersi oneroso se la controprestazione da parte della pubblica amministrazione è aleatoria e non esigibile in sede giurisdizionale, di talché vi sono certamente contratti che certamente assumono i caratteri di onerosità in ragione dell'utilità che ne ricava il privato, come nel citato caso delle sponsorizzazioni, ma ciò non esclude che vi possano essere contratti che, seppur non giustificati dal puro spirito di liberalità, non sono riconducibili alla nozione di contratto di appalto. L'ultimo periodo del comma 3 precisa che la natura pubblica del donatario non sottrae gli atti in questione alla disciplina del codice civile in materia di donazione, ivi compresa la revocazione (l'unica ipotesi di revocazione compatibile con la natura del donatario è quella per sopravvenienza di figli del dante causa di cui all'art. 803 c.c., mentre va escluda quella per ingratitudine della P.A.) e l'azione di riduzione dei legittimari. BibliografiaBruti Liberati, Consenso e funzione nei contratti di diritto pubblico. Tra amministrazioni e privati, Milano, 1996; Dugato, Atipicità e funzionalizzazione nell'attività amministrativa per contratti, Milano, 1996; Greco, L'azione amministrativa secondo il diritto privato: i principi, in Cerulli Irelli (a cura di), La disciplina generale dell'azione amministrativa, Napoli, 2006, 69 ss.; Marzuoli, Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982; Spasiano, Funzione amministrativa e legalità di risultato, Torino, 2003. |