Decreto legislativo - 31/03/2023 - n. 36 art. 9 - Principio di conservazione dell'equilibrio contrattuale.

Danilo Dimatteo
Mariano Protto
Codice legge fallimentare

Art. 106


Principio di conservazione dell'equilibrio contrattuale.

1. Se sopravvengono circostanze straordinarie e imprevedibili, estranee alla normale alea, all'ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato e tali da alterare in maniera rilevante l'equilibrio originario del contratto, la parte svantaggiata, che non abbia volontariamente assunto il relativo rischio, ha diritto alla rinegoziazione secondo buona fede delle condizioni contrattuali. Gli oneri per la rinegoziazione sono riconosciuti all'esecutore a valere sulle somme a disposizione indicate nel quadro economico dell'intervento, alle voci imprevisti e accantonamenti e, se necessario, anche utilizzando le economie da ribasso d'asta.

2. Nell'ambito delle risorse individuate al comma 1, la rinegoziazione si limita al ripristino dell'originario equilibrio del contratto oggetto dell'affidamento, quale risultante dal bando e dal provvedimento di aggiudicazione, senza alterarne la sostanza economica.

3. Se le circostanze sopravvenute di cui al comma 1 rendono la prestazione, in parte o temporaneamente, inutile

o inutilizzabile per uno dei contraenti, questi ha diritto a una riduzione proporzionale del corrispettivo, secondo le regole dell'impossibilità parziale.

4. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti favoriscono l'inserimento nel contratto di clausole di rinegoziazione, dandone pubblicità nel bando o nell'avviso di indizione della gara, specie quando il contratto risulta particolarmente esposto per la sua durata, per il contesto economico di riferimento o per altre circostanze, al rischio delle interferenze da sopravvenienze.

5. In applicazione del principio di conservazione dell'equilibrio contrattuale si applicano le disposizioni di cui agli articoli 60 e 120.

Inquadramento

Secondo la Relazione illustrativa, la codificazione del principio di conservazione dell'equilibrio contrattuale introduce una significativa innovazione nel diritto dei contratti pubblici, nell'ambito del quale si è inteso innestare una disciplina generale per la gestione delle sopravvenienze straordinarie e imprevedibili, tali da determinare una sostanziale alternazione del sinallagma contrattuale, con effetti resi di recente drammaticamente evidenti dalla congiuntura economica e sociale segnata dalla pandemia e dal conflitto in Ucraina.

Si fa altresì riferimento al termine hardship della prassi internazionale e ai termini usati nei diversi sistemi giuridici (frustration of purpose, Wegfall der Geschäftsgrundlage, imprévision, eccessiva onerosità sopravvenuta) per indicare le sopravvenienze che possono verificarsi nel corso dell'esecuzione del contratto, alterandone l'equilibrio originario.

Con riferimento al fondamento del principio si afferma che la sua codificazione trova ancoraggio nelle finalità sottese a vari principi e criteri della legge delega; il riferimento è, in particolare, all'art. 1, comma 2, lettere a), g), m), ll). In particolare, la lett. g) ha previsto l'obbligo per le stazioni appaltanti di inserire nei bandi di gara, negli avvisi e inviti, in relazione alle diverse tipologie di contratti pubblici, un regime obbligatorio di revisione dei prezzi al verificarsi di particolari condizioni di natura oggettiva e non prevedibili al momento della formulazione dell'offerta.

Dopo l'apertura della Cassazione e del legislatore nei rapporti tra privati, la rinegoziazione ...

Dal punto di vista generale, l'istituto della rinegoziazione è alla base dell'orientamento espresso dalla Corte di Cassazione proprio in relazione alle conseguenze della pandemia sull'esecuzione dei contratti di diritto civile (Ufficio del Massimario e del Ruolo, Relazione tematica n. 56, 8 luglio 2020, in cortedicassa- zione.it/cassazione-resources/resources/cms/docu- ments/Relazione_Tematica_Civile_056-2020.pdf).

In precedenza, infatti, la giurisprudenza si era talvolta occupata del problema relativo alla sussistenza o meno di un obbligo di modificare il contratto, senza tuttavia approdare ad una impostazione sistematica cristallizzata.

L'esigenza di rinegoziazione è gradualmente affiorata in alcune pronunce della Suprema Corte. In linea generale, nel panorama interpretativo nomofilattico, “il dovere di correttezza viene considerato alla stregua di limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva (attiva o passiva) contrattualmente attribuita, concorrendo alla relativa conformazione in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l'ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà costituzionalizzato (art. 2 Cost.), che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve, ad un tempo, orientarne l'interpretazione (art. 1366 c.c.) e l'esecuzione (art. 1375), nel rispetto del principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a salvaguardare l'interesse dell'altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell'interesse proprio”.

Proprio con l'art. 1375 c.c., la rinegoziazione assurge a cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute e la correttezza è in grado di salvaguardare il rapporto economico sottostante al contratto nel rispetto della pianificazione convenzionale. Per la S.C. “il contemperamento tra istanze creditorie e debitorie relative alle prestazioni temporaneamente impossibili o eccessivamente onerose va intrapreso attraverso il ricorso alla rinegoziazione”. Impellenza, questa, che non si pone soltanto con riferimento a prestazioni concretamente inibite dalle misure di contenimento, ma anche con riguardo a scambi contrassegnati da stagnazioni e rallentamenti gestionali o da aumenti smisurati dei costi di produzione o approvvigionamento di beni e servizi: “la risposta all'esigenza manutentiva del contratto e di rinegoziazione necessaria del suo contenuto va ritrovata nell'attuale diritto dei contratti riletto al lume del principio di solidarietà e rivitalizzato in un'ottica costituzionalmente orientata attraverso la clausola di buona fede, che di quel principio è il portato codicistico”.

In definitiva, la prospettiva è quella di assumere un approccio che valorizzi l'analisi economica del diritto dei contratti, sostituendo, nell'ambito della realtà più complessa di quelli a lungo termine, alla logica egoistica del negozio statico e blindato, quella dinamica della leale collaborazione tesa a superare le sopravvenienze di fatto e di diritto che hanno inciso sull'equilibrio del contratto.

E così l'obbligo di rinegoziazione ex bona fide non confligge, ma, al contrario, rispetta l'autonomia negoziale delle parti che un siffatto dovere non abbiano manifestamente escluso: l'obbligo, infatti, assecondando l'esigenza cooperativa propria dei contratti di lungo periodo, consente la realizzazione e non la manipolazione della volontà delle parti. Rinegoziare vuol dire impegnarsi a porre in essere tutti quegli atti che, in relazione alle circostanze, possono concretamente consentire alle parti di accordarsi sulle condizioni dell'adeguamento del contratto, alla luce delle modificazioni intervenute.

L'obbligo di rinegoziare impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, non anche di concludere il nuovo contratto; costituisce un obbligo de contractando, non de contrahendo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti di una revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l'invito alla rinegoziazione, “mentre non può esserle richiesto di acconsentire ad ogni pretesa della parte svantaggiata o di addivenire in ogni caso alla conclusione del contratto, che, è evidente, presuppone valutazioni personali di convenienza economica e giuridica che non possono essere sottratte né all'uno, né all'altro contraente”. Costituirà, per contro, inadempimento, l'ingiustificata opposizione alla trattativa o il limitarsi ad intavolare trattative di mera facciata.

Recentemente il legislatore ha in parte accolto questa impostazione quando è intervenuto per cercare di mitigare gli effetti della pandemia sugli esercizi commerciali in difficoltà nel pagamento del canone di locazione, essendo stati costretti, con leggi o provvedimenti amministrativi, alla chiusura per contenere la diffusione del virus. In particolare, l'art. 4-bis del d.l. “Sostegni-bis” n. 73/2021, conv. l. 106/2021, ha modificato l'art. 6-novies del d.l. n. 41/2021, prevedendo un percorso condiviso per la ricontrattazione delle locazioni commerciali, nei casi in cui il locatario abbia subìto una significativa diminuzione del volume d'affari, del fatturato o dei corrispettivi, derivante dalle restrizioni sanitarie, nonché dalla crisi economica di taluni comparti e dalla riduzione dei flussi turistici legati alla crisi pandemica. Secondo la disposizione, a tal fine, il locatario e il locatore sono chiamati a collaborare tra di loro in buona fede per la rideterminazione del canone, nel caso in cui il locatario non abbia avuto diritto di accedere, a partire dall'8 marzo 2020, ad alcuna delle misure di sostegno economico adottate dallo Stato per fronteggiare gli effetti delle restrizioni imposte dall'emergenza epidemiologica da COVID-19 ovvero non abbia beneficiato di altri strumenti di supporto di carattere economico e finanziario concordati con il locatore anche in funzione della crisi economica connessa alla pandemia stessa.

Attraverso il richiamo alla “ buona fede”, la norma “sembra” destinata a produrre gli effetti con riferimento: i) alle parti, indicando alle stesse la strada per una riduzione del canone di locazione; ii) ai giudici nel contenzioso in caso di assenza o impossibilità di un accordo tra i contraenti, fornendo dei parametri legislativamente fissati per poter stabilire se la riduzione del canone fosse in qualche misura “dovuta” e se il nuovo canone sia ragionevole (Ufficio studi del senato).

La norma, tuttavia, non indica quali sono le conseguenze in caso di totale inottemperanza alla rinegoziazione delle parti.

Si confrontano due impostazioni.

Secondo un primo orientamento, la clausola generale di buona fede non solo varrebbe a fondare l'obbligo di rinegoziazione gravante sulle parti, ma rivestirebbe un ruolo centrale anche nella fase patologica di questo rapporto, costituendo criterio per l'adeguamento del rapporto originario. Infatti, nelle ipotesi di inadempimento – generalmente individuate nel rifiuto a rinegoziare o nella conduzione maliziosa della nuova trattativa – di tale obbligo, che integra al contempo una violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede, dovrebbe riconoscersi al giudice – sempre secondo la ricostruzione in esame – il potere di intervenire sul contratto in base al dettato dell'art. 2932 c.c., sull'esecuzione in forma specifica degli obblighi di contrarre. Tramite questo strumento, con una sentenza costitutiva, il giudice potrebbe sostituirsi alle parti nell'adattare il regolamento negoziale alle circostanze sopravvenute, avvalendosi della clausola generale di buona fede in funzione integrativa e, per ciò che qui interessa, modificando il canone di locazione.

Secondo altra e preferibile impostazione, invece, il dovere di rinegoziazione non integra un obbligo de contraendo, ma de contractando: il suo inadempimento, pertanto, configura una responsabilità precontrattuale non diversa da quella individuata dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 4628/2015) in tema di preliminare con la conseguente inoperatività del rimedio di cui all'art. 2932 c.c. all'inadempimento di un obbligo di mezzi (cd. “obbligo di contegno”) qual è, appunto, l'obbligo di contrattare.

Si ritiene (Caringella, 1164) infatti che la giusta esigenza di tutelare in modo specifico l'interesse alla conservazione del rapporto debba transitare attraverso una cornice normativa, allo stato ancora mancante in subiecta materia, che integri la clausola generale di buona fede, dotando il giudice dei parametri correttivi del programma negoziale.

In definitiva, secondo questa prospettiva, come visto condivisa anche dalla Suprema Corte, attraverso l'equità il giudice può individuare elementi e aspetti del regolamento contrattuale non definiti dalle parti, né determinati da disposizioni di legge o usi; e altresì integrare il contratto e determinarne il contenuto alla stregua di criteri che gli offre il mercato. Il suo intervento resta suppletivo e residuale, in quanto il magistrato non può correggere la volontà delle parti quand'anche le scelte di queste gli appaiano incongrue, limitandosi, negli eccezionali casi in cui la legge l'ammetta, a colmare le lacune riscontrate, inserendo regole ulteriori e coerenti con il programma concordato dalle parti. In tal senso opinano anche le Sezioni Unite della Cassazione secondo cui l'intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale (Cass. S.U., n. 5657/2023).

Un intervento sostitutivo del giudice sembrerebbe ammissibile al più ogni volta che dal regolamento negoziale dovessero emergere i termini in cui le parti hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto, fornendo al giudice (anche in chiave ermeneutica) i criteri atti a ristabilire l'equilibrio negoziale. In questo caso, il magistrato, più che intervenire dall'esterno, opererebbe all'interno del contratto e in forza di esso, servendosi di tutti gli strumenti di interpretazione forniti dal legislatore (artt. 1362-1371 c.c.), precipuamente quello disciplinato dall'art. 1366 c.c. sulla buona fede nell'interpretazione del contratto.

Inoltre, qualora si ravvisi in capo alle parti l'obbligo di rinegoziare il rapporto squilibrato, si può ipotizzare che il mancato adempimento di esso non comporti solo il ristoro del danno, ma si esponga all'esecuzione specifica ex art. 2932 c.c. Al giudice potrebbe essere ascritto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell'accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario.

L'obbligo di rinegoziare è un obbligo di contrarre le modifiche del contratto primigenio suggerite da ragionevolezza e buona fede; la parte che per inadempimento dell'altra non ottiene il contratto modificativo, cui ha diritto, può chiedere al giudice che lo costituisca con sua sentenza. La rinegoziazione implica l'obbligo di contrarre secondo le condizioni che risultano “giuste” avuto riguardo ai parametri risultanti dal testo originario del contratto, riconsiderati alla luce dei nuovi eventi imprevedibili e sopravvenuti. Qualora le due parti siano disponibili, s'incontrano e concludono; qualora una delle due si neghi, è il giudice a decidere.

... trova spazio anche nei contratti pubblici ...

L'applicazione del principio anche ai contratti pubblici appare peraltro già acquisito dalla giurisprudenza e ancorato sostanzialmente al superiore principio di buona fede contrattuale di cui all'art. 1375 c.c.

L'esigenza di rinegoziazione è gradualmente affiorata in alcune pronunce della Suprema Corte (cfr. Cass. n. 3775/1994), anzi, proprio la portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex art. 1375 c.c. ha assunto una posizione di assoluta centralità, postulando la rinegoziazione come cammino necessitato di adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute, soprattutto se è intervenuta una sopravvenienza fattuale esterna al contratto che ne abbia alterato l'equilibrio (come i citati squilibri conseguenti all'avvento della pandemia e all'adozione delle misure pubbliche di contrasto all'epidemia), ma è anche vero che il lungo periodo di proroga della concessione costituisce l'effetto di eventi (come il mancato perfezionamento delle procedure di evidenza pubblica), evidentemente indipendenti dalla volontà delle parti e che possono quindi essere considerati alla stregua di sopravvenienze, fondando così luogo all'obbligo di rinegoziazione.

Si è giunti così alla conclusione che i principi di buona fede e di leale collaborazione, in un'ottica evolutiva e costituzionalmente orientata, non riguardino solo il versante privatistico dell'azione delle Amministrazioni pubbliche, ma abbiano oramai assunto il rango di parametri per la valutazione della stessa legittimità dell'attività autorita- tivo/pubblicistica.

Ed è proprio con riferimento al profilo eminentemente amministrativo che si sono ravvisati nella legislazione più recente e nella giurisprudenza i segni della progressiva sussunzione dei principi della buona fede e della leale cooperazione quali parametri di legittimità dell'agere pubblico.

Una recente conferma di tale processo di positivizzazione è ritraibile sul piano normativo dall'art. 1, comma 2-bis, della l. n. 241/1990, così formulato: «i) rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede” [comma aggiunto dall'art. 12, comma 1, lettera 0a), l. n. 120/2020; di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 76/2020, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitali»]. La disposizione ora richiamata ha positivizzato una regola di carattere generale dell'agire pubblicistico dell'amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo – forma tipica di esercizio della funzione amministrativa – non è più contraddistinto dall'assoluta unilateralità del potere, ma è il luogo di composizione del conflitto tra l'interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell'esercizio del primo.

La recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ha immediatamente colto lo spunto offerto dal Legislatore affermando che: “La disposizione ora richiamata [d.l. n. 76/2020] ha positivizzato una regola di carattere generale dell'agire pubblicistico dell'amministrazione, che trae fondamento nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 2, Cost.) e che porta a compimento la concezione secondo cui il procedimento amministrativo – forma tipica di esercizio della funzione amministrativa – non è più contraddistinto dall'assoluta unilateralità del potere, ma è il luogo di composizione del conflitto tra l'interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell'esercizio del primo” (cfr. Cons. St., Ad. Plen., n. 20/2021).

La crescente rilevanza anche nell'ambito pubblicistico dei principi in parola è stata poi confermata dalla successiva sentenza dell'Adunanza Plenaria ha confermato che “nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull'operato dell'amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest'ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi” (cfr. Cons. St., Ad. Plen., n. 21/20 21).

Il nuovo codice introduce il diritto alla rinegoziazione

Ciò premesso, la vera portata innovativa della disposizione non è tanto quella di codificare un principio ormai invalso nella prassi e nella giurisprudenza, ma quello di prevede il “diritto” di ciascuna parte alla rinegoziazione del contratto e nel riconoscimento dell'ammissibilità della previsione nel bando di gara di clausole di rinegoziazione per tutti i contratti pubblici.

Con riferimento al primo profilo, quanto al contenuto del “diritto alla rinegoziazione” e del correlato obbligo, può sostenersi che “rinegoziarevuol dire impegnarsi a porre in essere tutti quegli atti che, in relazione alle circostanze, possono concretamente consentire alle parti di accordarsi sulle condizioni dell'adeguamento del contratto, alla luce delle modificazioni intervenute. I criteri dai quali desumere il comportamento delle parti, nel corso delle trattative destinate alla rinegoziazione del contratto, devono ritenersi anche in quest'occasione offerti dalla clausola generale di buona fede(artt. 1175 e 1375 c.c.), che non è regola sul contenuto ma giustappunto sulla condotta.

Come visto, il diritto di rinegoziare e il correlato obbligo impongono alle parti di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo. Pertanto, la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l'invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell'economia del contratto; di sicuro non può esserle richiesto di acconsentire ad ogni pretesa dell'altra parte o di addivenire in ogni caso alla conclusione di un (pre)determinato contratto, che, è evidente, presuppone valutazioni di convenienza economica e giuridica che non possono essere sottratte né all'uno né all'altro contraente.

Con riferimento al secondo aspetto, deve rilevarsi che clausole di rinegoziazione erano già previste dalla disciplina delle concessioni e in particolare di quelle affidate con i diversi istituti di PPP in ragione della lunga durata dei rapporti contrattuali (art. 165, comma 6, del d.lgs. n. 50/2016 e 192 del nuovo codice). In tali ipotesi la clausola di rinegoziazione si traduce in meccanismi convenzionali che prevedono il riequilibrio del Piano Economico Finanziario posto a base del rapporto concessorio.

L'aspetto innovativo è quindi costituito dall'estensione dei meccanismi di riequilibrio a tutti i contratti pubblici, ove l'amministrazione decida di prevedere fin dal bando clausole di rinegoziazione in ragione della durata del contratto, delle condizioni del mercato in cui l'appalto si inserisce o in ragione del grado di rischio di sopravvenienza che possano alterare l'equilibrio contrattuale.

Attesa la portata generale del principio di rinegoziazione, specie quando il contratto risulta particolarmente esposto per la sua durata, per il contesto economico di riferimento o per altre circostanze al rischio delle interferenze da sopravvenienze, dovrà comunque valutarsi la legittimità delle clausole che, per tali contratti, prevedono il cd. prezzo fisso o escludono la revisione del corrispettivo.

Con riferimento alla posizione soggettiva, qualificata espressamente di “diritto”, dovrà porsi il problema della giurisdizione con riferimento all'eventuale diniego o rifiuto della stazione appaltante di procedere alla rinegoziazione, rispetto all'attuale orientamento che, nell'ambito delle controversie relative alla revisione prezzi, riserva al giudice amministrativo la cognizione sull'an e al giudice ordinario la cognizione sul quantum della revisione.

Al di là della qualificazione formale della posizione soggettiva, la questione deve essere risolta anche in ragione della qualificazione in termini autoritativi o meno del potere di verifica della sussistenza dei presupposti per la rinegoziazione e del procedimento da seguire.

La qualificazione in termini pubblicistici comporta che il privato contraente potrà avvalersi solo dei rimedi e delle forme tipiche di tutela dell'interesse legittimo. Ne deriva che sarà sempre necessaria l'attivazione, su istanza di parte, di un procedimento amministrativo nel quale l'Amministrazione dovrà svolgere l'attività istruttoria volta all'accertamento della sussistenza dei presupposti per la rinegoziazione. In caso di inerzia da parte della stazione appaltante, a fronte della specifica richiesta dell'appaltatore, quest'ultimo potrà agire contro l'inadempimento dell'Amministrazione, ma non potrà demandare in via diretta al giudice l'accertamento del diritto, non potendo questi sostituirsi all'Amministrazione rispetto ad un obbligo di provvedere gravante su di essa (in tal senso, ex multis, T.A.R. Lazio n. 8752/2017).

In questa prospettiva, la giurisprudenza ha sottolineato che “in presenza di una formale istanza l'amministrazione è tenuta a concludere il procedimento anche se ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo rimanere inerte: il legislatore, infatti, ha imposto alla P.A. di rispondere in ogni caso (tranne i casi limite di palese pretestuosità) alle istanze dei privati nel rispetto dei principi di correttezza, buon andamento, trasparenza, consentendo alle parti di difendersi in giudizio in caso di provvedimenti lesivi dei loro interessi giuridici” (cfr. Cons. St. n. 3118/2020).

Per tali ragioni, si è ritenuto sussistente l'obbligo di provvedere, ai sensi dell'art. 2, l. n. 241/1990. Invero, tale previsione normativa prevede che: “Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto”.

Le condizioni per la rinegoziazione

L'articolo, dunque, mira a disciplinare le sopravvenienze che possono verificarsi nel corso dell'esecuzione del contratto, alterandone l'equilibrio originario o facendo venir meno, in parte o temporaneamente, interesse del creditore alla prestazione. Viene così introdotto un rimedio manutentivo del contratto, maggiormente conforme all'interesse dei contraenti – e dell'amministrazione in particolare – in considerazione dell'inadeguatezza della tutela meramente demolitoria apprestata dall'art. 1467 c.c.

Il comma 1 della disposizione ha un duplice contenuto: definisce le sopravvenienze rilevanti ai fini dell'applicazione della norma e sancisce il diritto alla rinegoziazione della parte svantaggiata al quale, dunque, corrisponde un obbligo della controparte nei termini anzidetti.

Secondo la Relazione illustrativa, coerentemente con la portata generale della previsione, la disposizione reca riferimento a eventi che integrano determinati requisiti:

– deve trattarsi di eventi straordinari e imprevedibili;

– i rischi concretizzati da tali eventi non devono essere stati volontariamente assunti dalla parte pregiudicata dagli stessi;

– tali eventi devono determinare una alterazione rilevante dell'originario equilibrio del contratto e non devono essere riconducibili alla normale alea, all'ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato.

Pertanto, ai fini della rinegoziazione, oltre che sopravvenute e imprevedibili, le sopravvenienze devono essere estranee anche al normale ciclo economico, integrando uno shock esogeno eccezionale e imprevedibile. La disposizione deve, pertanto, essere interpretata restrittivamente e richiede un rilevante squilibrio tra le prestazioni, da valutarsi alla luce delle concrete circostanze e dello specifico contenuto negoziale.

Non si tratta quindi delle normali “circostanze imprevedibili” che possono giustificare una modifica/variante secondo la disciplina ordinaria (cfr. art. 120, comma 1 lett. c), ma deve trattarsi di circostanze assolutamente eccezionali e straordinarie rispetto all'ordinaria fluttuazione economica e al rischio di mercato.

Come noto, si tratta delle circostanze che hanno giustificato i recenti interventi legislativi che hanno riconosciuto la compensazione dei prezzi in occasione della pandemia Covid19 e dell'aumento dei prezzi delle materie prime e delle fonti energetiche a seguito dei recenti eventi bellici.

Al fine di mitigare gli effetti dell'eccezionale aumento dei prezzi di alcuni materiali da costruzione, verificatosi nel corso del 2021, il d.l. n. 73/2021, conv. in l. n. 106/2021 ha introdotto, all'art. 1-septies, un meccanismo di compensazione a favore delle imprese appaltatrici di opere pubbliche, rinviando lad apposito decreto del MIMS la rilevazioni delle variazioni percentuali, in aumento o in diminuzione, superiori all'otto per cento, relative al periodo indicato dalla norma, dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi (in relazione all'applicazione della norma si rinvia alla Delibera n. 63/2022-AG1/2022).

Lo stesso legislatore, sempre con riguardo agli appalti di lavori, è più di recentemente intervenuto con il d.l. n. 36/2022 (Ulteriori misure urgenti per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)) conv. in l. n. 79/2022 stabilendo che “l'art. 106, comma 1, lett. c), numero 1), del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, si interpreta nel senso che tra le circostanze indicate al primo periodo sono incluse anche quelle impreviste ed imprevedibili che alterano in maniera significativa il costo dei materiali necessari alla realizzazione dell'opera. 2-quater. Nei casi indicati al comma 2-ter, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, la stazione appaltante o l'aggiudicatario possono proporre, senza che sia alterata la natura generale del contratto e ferma restando la piena funzionalità dell'opera, una variante in corso d'opera che assicuri risparmi, rispetto alle previsioni iniziali, da utilizzare esclusivamente in compensazione per far fronte alle variazioni in aumento dei costi dei materiali”.

Come si evince dagli interventi normativi sopra richiamati, ad eccezione dell'art. 29 del d.l. n. 4/2022 conv. in l. n. 25/2022 riferito in generale ai contatti pubblici, il legislatore è intervenuto in via esclusiva per gli appalti di lavori, introducendo l'istituto della compensazione si cui all'art. 1-septies della l. n. 106/2021 e la previsione sopra richiamata di cui all'art. 7 della l. n. 79/2022.

Lo stesso legislatore non ha invece adottato specifiche misure per gli appalti di servizi e forniture.

L'assenza di un meccanismo di compensa- zione/revisione dei prezzi anche per gli appalti di servizi e forniture, analogo a quello disciplinato per i lavori, ha condotto ad escludere la compensazione per gli appalti di servizi e forniture (ANAC, Parere funzione consultiva n. 37 del 13 settembre 2022).

Si è, in particolare, esclusa anche l'applicabilità dell'art. 1664 c.c. ai fini della revisione dei prezzi negli appalti di servizi e forniture, in ragione della disciplina speciale di cui all'art. 106 del previgente Codice, il quale oltre a non contemplare tale ipotesi, detta una specifica disciplina in tema di variazioni dei contratti in corso di esecuzione (tanto che gli interventi normativi più recenti in tema di revisione dei prezzi, tra i quali l'art. 1-septies del d.l. n. 73/2021 e l'art. 29 d.l. n. 4/2022, introducono previsioni in deroga all'art. 106 del Codice).

Peraltro, l'inapplicabilità della norma de qua agli appalti pubblici è stata affermata dalla giurisprudenza amministrativa alla luce del principio di specialità della disciplina dettata in materia dal Codice dei contratti pubblici (Cons. St. n. 3768/2018 e n. 1980/2019). Ancorché tale orientamento si riferisca al d.lgs. 163/2006, il predetto principio di specialità sembrerebbe confermato dalla disposizione dell'art. 106, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 50/2016, anche alla luce dell'obbligo oggi imposto dall'art. 29 della l. n. 25/2022, di inserire nei bandi di gara specifiche previsioni in materia di revisione dei prezzi.

La stessa giurisprudenza amministrativa, inoltre, ha ricondotto le eventuali istanze di revisione dei prezzi, avanzate dall'appaltatore a seguito di asseriti aumenti dei costi del servizio, alla previsione della lett. a) dell'art. 106, comma 1, del previgente Codice (in tal senso T.A.R. Lombardia (Brescia), n. 238/2022) e quindi subordinatamente alla espressa previsione da parte della legge di gara.

Rispetto alla richiamata disciplina emergenziale, con l'affermazione del principio di conservazione dell'equilibrio contrattuale, la norma in commento estende la rinegoziazione a tutti contratti pubblici, compresi quindi quelli di servizi e forniture, anche in assenza di una disciplina speciale, ovvero di una specifica previsione nella legge di gara e/o nel singolo contratto, purché intervengano quelle circostanze imprevedibili ed eccezionali di cui si è detto.

La norma precisa altresì che il diritto di rinegoziazione presuppone che tali rischi non rientrino nella normale alea del contratto e non siano stati volontariamente assunti dalla parte, sebbene non sia necessaria una assunzione espressa.

Con riferimento all'alea, rimane quindi fermo l'insegnamento del Cons. St. V, n. 7756/2022, secondo il quale “la periodicità della revisione non implica affatto che si debba azzerare o neutralizzare l'alea riconosciuta dal codice civile per i contratti commutativi di durata, come confermata dalla disciplina di cui all'art. 1664 c.c. (applicabile in via generale a tutti gli appalti, con esclusione dei contratti pubblici secondo il principio di specialità) che impone alle parti di provare la sussistenza di eventuali circostanze imprevedibili che abbiano determinato aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d'opera, e che accorda la revisione solo per la differenza che ecceda il decimo del prezzo complessivo convenuto, di modo che risulterebbe ben singolare una interpretazione che esentasse del tutto, in via eccezionale, l'appaltatore dall'alea contrattuale, sottomettendo in via automatica ad ogni variazione di prezzo solo le stazioni appaltanti pubbliche, pur destinate a far fronte ai propri impegni contrattuali con le risorse finanziarie provenienti dalla collettività (in tal senso Cons. St. III, n. 1980/2019). Pertanto la circostanza che il disposto dell'art. 1664 c.c. non sia direttamente applicabile ai contratti pubblici non implica affatto l'automaticità della revisione prezzi, ancorata pur sempre ad un sopravvenuto squilibrio del rapporto contrattuale, dovendo la ratio della revisione prezzi, come innanzi osservato, ravvisarsi nell'esigenza di coniugare l'obiettivo di contenimento della spesa pubblica con quella di garantire che le prestazioni di beni o servizi da parte degli appaltatori delle Amministrazioni pubbliche non subiscano con il tempo una diminuzione qualitativa a causa degli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell'offerta, con conseguente incapacità del fornitore di far fronte compiutamente alle stesse prestazioni.”

Per quanto concerne il rischio, l'assunzione in capo all'operatore economico è piuttosto rara nel caso di contratti di appalto, mentre è certamente possibile nei contratti di concessione, che sono caratterizzati dall'assunzione del cd. “rischio operativo” in capo al concessionario.

Sebbene il rischio operativo sia assunto dal concessionario nell'ambito delle “condizioni normali di mercato”, non si può escludere che il rischio del verificarsi una o più di quelle che si definiscono “circostanze imprevedibili e straordinarie” sia assunto dal concessionario.

Per quanto concerne il reperimento delle somme necessarie al riequilibrio del sinallagma contrattuale, la norma chiarisce che la rinegoziazione non altera il finanziamento complessivo dell'opera, perché è ammessa nei limiti dello stanziamento di bilancio originario.

Come precisato nella Relazione illustrativa, siffatta previsione è in linea con la clausola di invarianza finanziaria contenuta nella legge delega, in quanto il reperimento delle risorse avviene nell'ambito del quadro economico e, dunque, nei limiti degli stanziamenti previsti dalla legislazione vigente. L'aspetto più delicato è quello del ricorso anche alle “economie da ribasso d'asta”, poiché, in realtà, tali economie non si possono considerare definitivamente “liberate” fino al collaudo dell'intervento o al certificato di regolare esecuzione.

La norma consente l'utilizzo integrale di tali somme e non solo di una parte (come invece previsto dall'art. 1-septies, comma 7, del d.l. n. 73/2021 che limitava l'utilizzo del solo 50%).

Peraltro, come si precisa nella Relazione, “a vederla diversamente, il rischio di sopravvenienza di “circostanze straordinarie e imprevedibili” comporterebbe rischi ancora peggiori per il bilancio pubblico: la mancata esecuzione del contratto e la perdita dei fondi già spesi”.

Il problema si pone nel caso in cui le somme a disposizione del quadro economico non siano sufficienti a ricondurre ad equità il contratto: caso non del tutto infrequente atteso che le circostanze che possono giustificare la rinegoziazione sono di natura tale da squilibrare l'equilibrio contrattuale in maniera piuttosto rilevante (si pensi al caso del caro materiali).

In tali casi, ove non intervenga il legislatore con la creazione di un apposito fondo (come avvenuto con all'art. 1-septies, comma 7, del d.l. n. 73/2021), la rinegoziazione sembra doversi limitare alle somme disponibili del quadro economico, senza tuttavia potersi escludere che, in caso di insufficienza delle predette somme, si possa comunque riequilibrare il sinallagma con la previsione di modifiche contrattuali e di progetto idonee a consentire all'appaltatore di conseguire risparmi di spesa nel corso dell'esecuzione dell'appalto (v. art. 120, comma 7, lett. a).

I limiti della rinegoziazione

Il comma 2 della disposizione precisa che la rinegoziazione ha l'esclusiva finalità di ripristinare l'originario equilibrio del contratto, avuto riguardo al complesso degli atti alla base della costituzione del rapporto e con considerazione, quindi, anche del bando e del provvedimento di aggiudicazione.

La finalità è, dunque, quella di circoscrivere la libertà dei contraenti: l'accordo di rinegoziazione non solo deve avere ad oggetto il mero ripristino dell'equilibrio contrattuale originario, ma deve essere precipuamente volto a non alterarne la sostanza economica, in modo da evitare un'elusione delle regole della procedura ad evidenza pubblica.

Peraltro, la disposizione non specifica in termini quantitativi e qualitativi quando si può ritenere alterata la sostanza economica dell'appalto.

Al proposito, potrebbe venire in considerazione la previsione di cui all'art. 120, comma 6, secondo cui una modifica del contratto è considerata sostanziale “quando altera considerevolmente la struttura del contratto o dell'accordo quadro e l'operazione economica sottesa” e in ogni caso, ove si verifichino una o più delle seguenti condizioni: “a) la modifica introduce condizioni che, se fossero state contenute nella procedura d'appalto iniziale, avrebbero consentito di ammettere candidati diversi da quelli inizialmente selezionati o di accettare un'offerta diversa da quella inizialmente accettata, oppure avrebbero attirato ulteriori partecipanti alla procedura di aggiudicazione; b) la modifica cambia l'equilibrio economico del contratto o dell'accordo quadro a favore dell'aggiudicatario in modo non previsto nel contratto iniziale; c) la modifica estende notevolmente l'ambito di applicazione del contratto; d) un nuovo contraente sostituisce quello cui la stazione appaltante aveva inizialmente aggiudicato l'appalto in casi diversi da quelli previsti dal comma 1, lettera d)”.

L'impossibilità parziale della prestazione

Il comma 3 disciplina la specifica ipotesi in cui le sopravvenienze di cui al comma 1 incidano non sul generale equilibrio del contratto, ma sull'utilità o utilizzabilità della prestazione per la parte creditrice.

In tal caso la sopravvenienza rende la prestazione inidonea a soddisfare l'interesse del creditoreexart. 1174 c.c. e legittima una proporzionale riduzione del prezzo secondo le regole dell'impossibilità sopravvenuta parziale del contratto ai sensi dell'art. 1464 c.c.

La norma ha certamente l'indubbio pregio di affermare per i contratti pubblici la prevalenza del rimedio manutentivo rispetto a quello demolitorio, superando i contrasti giurisprudenziali creatisi nella giurisprudenza ordinaria con riferimento ai contratti di diritto civile, proprio con riferimento alle conseguenze della pandemia sui contratti di locazione.

Infatti, una parte della giurisprudenza di merito (il riferimento è a Trib. Venezia I, 30 settembre 2020, n. 4324; Trib. Napoli IX, 15 luglio 2020, n. 6334 e di recente Trib. Milano XIII, 6 aprile 2022, n. 3020) ha ritenuto ammissibile, in caso di difficoltà nell'adempimento, da parte del conduttore, una riduzione del canone di locazione, al fine di poter mantenere il rapporto contrattuale, così da permettere al conduttore in difficoltà di mettersi in condizione di poter onorare le obbligazioni assunte, a vantaggio anche del locatore.

Il Tribunale di Roma (Trib. Roma 31 maggio 2022, n. 8675) ha invece escluso l'applicabilità dell'art. 1464 c.c. rilevando che “il richiamo di parte della giurisprudenza alla parziale e temporanea impossibilità del locatore di mantenere il bene locato nel pacifico godimento del conduttore (vedasi a tal proposito Cass. n. 18047/2018 e Cass. n. 20811/2014; Cass. n. 16315/2007 e le recentissime pronunce in ambito locatizio rese dal Trib. Venezia I, ord. 28 luglio 2020 e Trib. Venezia I, 30 settembre 2020 e Trib. Milano 21 ottobre 2020; Trib. Milano XIII, 18 maggio 2021, n. 4355), per fondare un diritto del conduttore alla riduzione del canone – o comunque una parziale estinzione dell'obbligazione di pagamento del corrispettivo – non ci appare condivisibile (cfr. al riguardo anche le sentenze Trib. Roma VI, 19 febbraio 2021, n. 3109 e Trib. Roma VI, 19 febbraio 2021, n. 3114; Trib. Roma 19 febbraio 2021, n. 5224 e Trib. Roma, 7 maggio 20 21, n. 8005; Trib. Roma VI, 7 aprile 2021, n. 6017). Osta, inoltre, alla utilizzabilità da parte del conduttore del rimedio di cui all'art. 1464 c.c. la circostanza che la norma richiede che la sopravvenienza abbia carattere di assolutezza e oggettività cui si aggiunge la difficoltà concettuale di “piegare” la causa della locazione che, per quelle commerciali non si estende mai alla garanzia della produttività dell'attività imprenditoriale che il conduttore si accinge a svolgere nei locali concessi (salvo specifica pattuizione al riguardo: Cass. III, n. 14731/2018, parte motiva).

Peraltro, nessuna norma connessa all'emergenza conseguente alla Pandemia COVID-19 ha precisato che il conduttore di un immobile locato possa sospendere o rifiutare il pagamento del canone nell'ipotesi in cui l'attività esercitata sia risultata interdetta dai provvedimenti emergenziali (cfr. in proposito Trib. Pordenone 8 luglio 2020; Trib. Pordenone 3 luglio 2020 e Trib. Roma VI 13 novembre 2020)”, concludendo che “una richiesta di riduzione del canone ad opera del conduttore non può fondarsi sull'art. 1464 c.c. per quanto sopra detto, ma neanche sul terzo comma dell'art. 1467 c.c. A mente della citata disposizione, infatti, solo la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. Pertanto, l'offerta predetta non può provenire dalla parte che deduce di subire l'eccessiva onerosità sopravvenuta e la riduzione ad equità è un diritto potestativo del convenuto, legittimato passivo nella azione di risoluzione il quale valuta che l'utilità di conservare il contratto valga più del sovraprezzo che deve sborsare per ridurlo ad equità. Inoltre, né l'art. 1374 c.c., né il dovere di solidarietà sociale di cui al precetto costituzionale consentono di ritenere esistente nel nostro ordinamento un obbligo delle parti di rinegoziare i contratti divenuti svantaggiosi per una di esse, o un potere del giudice di modificare i regolamenti negoziali liberamente concordati dalle parti nell'esercizio della loro autonomia contrattuale, al di fuori delle specifiche ipotesi espressamente previste dalla legge. Allorché la Corte di Cassazione richiama l'art. 1374 c.c. (secondo cui “il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi o l'equità”), o i principi di buona fede, correttezza e solidarietà sociale, ne esplicita il significato nel senso di imporre a ciascuna parte del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, ma precisa anche che ciò deve avvenire “nei limiti dell'interesse proprio” (Cass. n. 23069/2018) ovvero “nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio di altri valori” (Cass. n. 17642/2012) ovvero “nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio” (Cass. n. 10182/2009; Cass. n. 15669/2007; Cass. n. 264/2006; Cass. n. 2503/1991) ovvero sempre che “non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse” (Cass. n. 5240/2004)”. In riferimento alla risposta del legislatore alle problematiche relative ai contratti di locazione nel periodo della pandemia si rinvia a quanto riferito supra.

Le clausole di rinegoziazione

Il comma 4 incentiva la gestione negoziale delle sopravvenienze attraverso la previsione delle clausole di rinegoziazione, soprattutto laddove la durata del contratto o altre circostanze, quali il contesto economico, lo rendano opportuno.

Si tratta senza dubbio di una innovazione di non poco conto, poiché, introduce per tutti i contratti pubblici la possibilità di prevedere clausole di rinegoziazione, in precedenza previste solo per le concessioni ed in particolare per la finanza di progetto, nell'ambito della quale la convenzione di concessione prevede il riequilibrio del Piano Economico Finanziario al verificarsi di determinati eventi, purché non rientrino nel rischio operativo che si è assunto il concessionario.

La norma vincola l'introduzione di tali clausole alla specifica considerazione del rischio che, in ragione della durata o per il contesto economico di riferimento, il contratto sia esposto al rischio di sopravvenienze che possano alterare l'equilibrio contrattuale.

La norma non specifica il contenuto di tali clausole, ma è evidente che le stesse debbano essere comunque legate alla sopravvenienza di determinate circostanze e all'effettiva e comprovata alterazione dell'equilibrio sinallagmatico, atteso che, diversamente, la previsione di variazioni automatiche dei termini economici del contratto snaturerebbe la ratio di tali clausole trasformandole in una clausole di indicizzazione (T.A.R. Lombardia (Brescia) I, n. 504/2020 e T.A.R. Lombardia (Brescia), n. 238/2022, cit.; T.A.R. Lombardia (Milano), n. 181/2022 cit.; T.A.R. Trieste I, n. 211/2021).

Laddove, come richiede la norma, tali clausole siano inserite nei documenti di gara e con riferimento a esse si sia svolto il confronto concorrenziale, tali clausole posso ritenersi operative e incidere sul rapporto contrattuale a prescindere dall'entità della modifica.

Infatti, la norma in commento pare dover essere letta in combinato disposto con l'art. 120, comma 1, lett. a ) che consente modifiche “a prescindere dal loro valore monetario” che siano state previste in clausole chiare, precise e inequivocabili dei documenti di gara iniziali e che possono consistere anche in clausole di rinegoziazione.

Bibliografia

Caringella, Manuale Ragionato di diritto civile, Roma, 2022; Monzani, La revisione prezzi nei contratti pubblici: disciplina legale eccezionale, discrezionalità della stazione appaltante e rimedi civilistici, in giustiziainsieme.it; Zoppolato - Comparoni, Revisione dei prezzi, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis, t. IV, Milano, 2019, 67 ss.

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