Atti inerenti la formazione del ruolo e la calendarizzazione delle cause e udienze: natura e inammissibilità del ricorso per difetto assoluto di giurisdizione
22 Novembre 2023
Massima Gli atti inerenti alla formazione del ruolo e la calendarizzazione delle cause e delle udienze del giudice ordinario non sono sindacabili dinanzi al giudice amministrativo e ad alcun altro plesso giurisdizionale, in quanto espressione di un autonomo potere dello Stato, il potere giurisdizionale, che gode di autonomia ed indipendenza costituzionalmente riconosciute. Il difetto assoluto di giurisdizione rispetto a tali atti, rientranti nella categoria di atti “inerenti la giurisdizione”, non esclude, tuttavia, la loro sindacabilità in altri modi (reclamo dinanzi all'organo che li ha adottati o segnalazione ai titolari del potere di iniziativa disciplinare, nonché direttamente dinanzi all'organo di autogoverno della magistratura che li ha adottati). Il caso La sindacabilità degli atti inerenti la giurisdizione La sentenza del Consiglio di Stato in commento rigetta l'appello promosso avverso la sentenza del TAR Lazio – Roma, sezione prima, con la quale era stato dichiarato inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione il ricorso presentato avverso il decreto del Presidente della seconda sezione civile della Corte di Appello di Roma del 6 aprile 2023 ed il successivo decreto attuativo del 26 aprile 2023 di differimento di una udienza di comparizione e decisione dal 13 giugno 2023 al 15 settembre 2026. Il giudice di appello ha condiviso la tesi dell'insindacabilità giurisdizionale degli atti di organizzazione e formazione dei ruoli dei magistrati e di calendarizzazione delle udienze, ma non la loro qualificazione quali atti riconducibili all'esercizio di funzioni giurisdizionali. Il difetto assoluto di giurisdizione viene, infatti, collegato dal Consiglio di Stato alla loro natura di atti interni all'ordinamento giudiziario, coperti da una riserva di organizzazione costituzionalmente riconosciuta, sotto il profilo dell'autonomia ed indipendenza dello stesso ordine giudiziario. In particolare, con riguardo al decreto del Presidente della seconda sezione civile della Corte di Appello di Roma, è ritenuta inadeguata la qualificazione dello stesso in termini di atto giurisdizionale, in quanto atto generale “a monte” di “riorganizzazione” del ruolo di un magistrato trasferito in altro ufficio giudiziario e di riassegnazione di un blocco di cause ad altro magistrato, mentre, con riguardo all'atto applicativo di rinvio fuori udienza della causa, la situazione viene considerata parzialmente diversa. Il decreto del singolo magistrato di calendarizzazione delle udienze, infatti, non è atto generale, ma inerisce al singolo processo, collocandosi nella serie procedurale di atti preparatori dello specifico giudizio. Ad ogni modo, entrambi gli atti impugnati sono considerati accomunati dal dato di esplicare – in via mediata o immediata – i propri effetti sull'organizzazione e trattazione di un singolo processo e devono essere inquadrati nella tipologia di “atti inerenti la giurisdizione”, che non sono propriamente atti di esercizio dello jus dicere, ma costituiscono atti di “amministrazione del processo civile”. Tale qualificazione fa escludere la loro riconducibilità alla categoria degli atti amministrativi in senso stretto sindacabili ai sensi degli articoli 103 e 113 della Costituzione, riconoscendosi la loro natura di atti di organizzazione interna all'ordinamento giurisdizionale, dotato di autonomia ed indipendenza costituzionalmente garantite dall'articolo 104 della Costituzione, non solo rispetto agli altri poteri dello Stato, ma anche al suo interno rispetto a possibili forme di ingerenza da parte di altre magistrature. Il Consiglio di Stato conclude chiarendo che gli atti oggetto di impugnativa, oltre ad essere estranei alla cognizione del giudice amministrativo, non sono impugnabili o contestabili neppure dinanzi ad altro plesso giurisdizionale, senza con ciò comportare l'esclusione di qualsivoglia forma di tutela esperibile. Ed invero, il giudice di appello richiama la normativa dettata dal regio decreto n. 12/1941 in materia di ordinamento giudiziario ordinario che, all'articolo 7-bis, primo comma, ultimo periodo, fa comunque salvo il possibile rilievo disciplinare della violazione dei criteri per l'assegnazione degli affari. In definitiva, all'interno dello stesso ordinamento giudiziario sono previsti, oltre ai rimedi endoprocessuali di reclamabilità dei provvedimenti inerenti all'organizzazione dei singoli processi, anche i rimedi volti a sollecitare l'esercizio del potere disciplinare dinanzi all'organo di autogoverno della magistratura. Un'ultima menzione è fatta anche alla legge 24 marzo 2001, n. 89, recante «Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del Codice di procedura civile», che ha introdotto specifici rimedi in caso di eccessiva durata del giudizio, ovvero di diniego di giustizia. Ne discende la piena compatibilità della tesi dell'insindacabilità giurisdizionale degli atti inerenti alla formazione del ruolo e la calendarizzazione delle cause e delle udienze con quanto disposto dall'art. 6 CEDU e dagli artt. 24 e 101 della Costituzione, non ravvisandosi alcun vuoto di tutela. La questione La sindacabilità degli atti interni all'organizzazione dell'ordine giudiziario
La questione principale affrontata dalla sentenza in commento è quella relativa alla sindacabilità degli atti di organizzazione e formazione dei ruoli dei singoli magistrati, generalmente adottati dai Presidenti degli uffici giudiziari o delle sezioni, nonché degli atti di calendarizzazione delle cause e delle udienze adottati, in applicazione dei primi, dai collegi o singoli magistrati dello stesso ufficio. Tale questione implica indefettibilmente quella relativa alla natura giuridica degli atti di organizzazione interna all'ordine giudiziario e della loro collocazione all'interno del complesso quadro costituzionale del nostro Stato di diritto, fondato sul principio di separazione, rectius di equilibrio tra poteri. Il Consiglio di Stato affronta le questioni in maniera simbiotica, evidenziando che gli atti impugnati - e specialmente l'atto generale adottato dal Presidente di sezione della Corte di Appello di Roma- sebbene possano apparire atti di “amministrazione” che producono effetti sulla gestione dei singoli processi, si differenziano dagli atti e provvedimenti amministrativi impugnabili dinanzi al giudice amministrativo, in quanto costituiscono espressione di un autonomo potere dello Stato, costituito dal potere giurisdizionale. Ed invero, solo escludendo la loro natura di atti amministrativi in senso stretto, è possibile riconoscere la legittimità costituzionale della tesi accolta dal giudice di primo grado dell'inammissibilità del ricorso per difetto assoluto di giurisdizione. Gli artt. 103 e 113 della Costituzione, infatti, impongono il sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo avverso tutti gli atti della Pubblica Amministrazione e la tutela dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa di tutte le situazioni giuridiche soggettive. Tali prescrizioni costituzionali si riflettono anche nell'art. 7 del Codice del processo amministrativo che, al comma 1, chiarisce gli ampi confini della giurisdizione amministrativa, in un'ottica di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale di tutte le situazioni soggettive che sono incise dall'esercizio del potere. In particolare, il Consiglio di Stato ritiene “inequivocabile” che gli atti della Presidenza di sezione della Corte di appello di Roma non siano riferibili ad alcuna Pubblica Amministrazione, né riconducibili all'esercizio (o mancato esercizio) diretto o mediato del potere amministrativo. D'altronde, nessuno ha mai messo in dubbio che i dirigenti degli uffici giudiziari, nell'organizzazione dei ruoli e calendari delle udienze, non debbano rispettare i principi e le norme prescritte per il procedimento amministrativo, come, ad esempio, la norma che impone la comunicazione di avvio del procedimento a tutte le parti interessate. Il giudice di appello riconduce, quindi, tali atti all'esercizio di un potere dotato di autonomia ed indipendenza costituzionalmente garantite, già riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa anche in relazione ad atti di distribuzione del personale di magistratura all'interno degli uffici giudiziari o di redistribuzione degli affari tra le sezioni di un Tribunale, richiamando due precedenti sul punto: Cons. Stato, sez. V, 9 novembre 2020, n. 6856 e id., 4 gennaio 2017, n. 10. Le soluzioni giuridiche I rimedi e le tutele avverso gli atti inerenti alla giurisdizione Il Consiglio di Stato risolve negativamente la questione dell'impugnabilità degli atti relativi all'organizzazione dei ruoli e alla calendarizzazione delle udienze e delle cause aderendo alla tesi del difetto assoluto di giurisdizione accolta dal giudice di primo grado, fornendone, però, una motivazione parzialmente diversa. La prima sezione del TAR Lazio – Roma aveva, infatti, dichiarato inammissibile il ricorso per difetto assoluto di giurisdizione qualificando gli atti impugnati quali atti di “gestione del processo” e come tali aventi natura giurisdizionale, conseguentemente sindacabili secondo le forme del codice di rito e le regole dell'ordinamento giudiziario. Il Giudice di primo grado ha sostenuto che si tratti di atti espressione del potere giurisdizionale anche perché non incidenti su un interesse legittimo, «bensì sul diritto di azione, che si sostanzia nella pretesa ad un pronunciamento giudiziario sulla domanda», non distinguendo tra il rinvio di una causa disposto in udienza e quello disposto al di fuori dell'udienza, anche con provvedimento generale del dirigente dell'ufficio giudiziario. In altri termini, la sindacabilità da parte del giudice amministrativo di atti di gestione del processo non può che essere esclusa, pena, altrimenti, l'invasione della sfera di autonomia riservata dalla Costituzione all'ordine giudiziario nell'esercizio del relativo potere. Il giudice di appello, invece, ricollega l'insindacabilità degli atti interni all'ordine giurisdizionale alla sfera di autonomia organizzativa, riconosciuta dalla Costituzione, non solo alla magistratura nel suo complesso rispetto agli altri poteri dello Stato, ma anche al suo interno tra i diversi plessi giurisdizionali. In altri termini, secondo il Consiglio di Stato, gli atti relativi all'organizzazione dei ruoli e alla calendarizzazione delle udienze e delle cause, così come gli atti relativi alla distribuzione del personale della magistratura e degli affari all'interno degli uffici giudiziari, rientrano tutti nell'ampia categoria di atti di amministrazione del processo civile, “inerenti la giurisdizione”, ma estranei alla categoria degli atti di esercizio del potere giurisdizionale. Per contemperare l'esigenza di autonomia e di indipendenza di ciascun ordine giurisdizionale con l'esigenza di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, quindi, il Consiglio di Stato ammette il sindacato di tali atti organizzativi interni solo all'interno dello stesso ordinamento giurisdizionale dal quale provengono, attraverso gli stessi rimedi processuali (reclamo dinanzi al giudice che ha adottato l'atto), ovvero attraverso la sollecitazione dell'esercizio del potere disciplinare da parte dell'organo di autogoverno della magistratura interessata. Infine, ulteriore efficace rimedio potrebbe essere quello predisposto dalla legge c.d. Pinto (legge 24 marzo 2001, n. 89) nel caso in cui tali provvedimenti organizzativi determinino un'eccessiva durata del giudizio, ovvero addirittura un diniego di giustizia. Osservazioni Una nuova categoria di atti non sindacabili dal giudice amministrativo: gli atti “inerenti la giurisdizione” La sentenza in commento consente di riflettere sull'esistenza di una categoria di atti, espressione di un pubblico potere, qual è quello giurisdizionale, sottratti alla sfera della sindacabilità giurisdizionale del giudice amministrativo. Tale categoria viene enucleata dalla giurisprudenza amministrativa quale espressione di autonomia ed indipendenza dell'ordine giudiziario e della riserva di organizzazione allo stesso costituzionalmente riconosciute, in modo non dissimile a quanto previsto in relazione alla c.d. autodichia (o giurisdizione domestica) degli organi costituzionali. Tuttavia, l'individuazione di atti caratterizzati da immunità giurisdizionale impone anche di affrontare la questione dell'ampiezza e livello di tutela giurisdizionale di situazioni soggettive giuridicamente rilevanti rispetto ad essi. Nel caso in esame, infatti, gli atti impugnati hanno inciso in via mediata (decreto del Presidente di sezione della Corte di Appello) e immediata (decreto collegiale di rinvio dell'udienza di comparizione e discussione) sul diritto degli istanti ad un processo equo, nel senso della sua celerità e, quindi, ad ottenere una tutela giurisdizionale “piena” ed “effettiva”. Come già è stato osservato dalla dottrina con riguardo alla giuridicizzazione dell'atto politico, non sindacabile ai sensi dell' art. 7 c.p.a., l'individuazione di atti non impugnabili dinanzi al giudice amministrativo, quale giudice naturale dell'esercizio dei pubblici poteri, è frutto di un bilanciamento tra il principio di separazione, o equilibrio, tra poteri e quello di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale di tutte le situazioni soggettive che sono incise dall'esercizio del potere. Ne discende che, come evidenziato dalla sentenza in commento, il difetto assoluto di giurisdizione, in tanto si può dichiarare, in quanto non si creino dei vuoti di tutela costituzionalmente inammissibili, ovverossia non solo quando manca del tutto nell'ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l'interesse dedotto in giudizio, sì che non possa individuarsi alcun giudice titolare del potere di decidere, così come affermato dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, quale giudice della giurisdizione (in tal senso, Cass., sez. un., 1 giugno 2023, n. 15601 che richiama i precedenti del 30 marzo 2005, n. 6635; del 31 marzo 2006, n. 7577 e dell'8 maggio 2007, n. 10375), ma anche quando sono individuabili, all'interno dell'ordinamento, altre forme e modalità di tutela che non passano necessariamente attraverso la giustiziabilità dell'atto adottato nell'esercizio di un pubblico potere. Zingales, Il difetto assoluto di giurisdizione tra apparenza e realtà, in Foro Amm., n. 5, 2000, p. 2022; Palazzo, I motivi inerenti alla giurisdizione tra diritto europeo ed effettività della tutela, in Dir. proc. amm., n. 1, 1° marzo 2023, p. 93; Sfarzo, L'autodichia delle camere parlamentari tra autotutela contenziosa e funzione «obiettivamente giurisdizionale», in Il Processo, n. 1, 1° marzo 2020, p. 173; Giomi, L'atto politico nella prospettiva del giudice amministrativo: riflessioni su vecchi limiti e auspici di nuove aperture al sindacato sul pubblico potere, in Dir. proc. amm., n. 1, 1° marzo 2022, p. 21. |