Ricorso presentato da un familiare per il riconoscimento degli utili dell'impresa familiare (art. 230-bis c.c.) 

Gustavo Danise
Aggiornato da Francesco Bartolini

Inquadramento

L'art. 230-bis c.c. assicura una tutela minimale ed inderogabile ai familiari che prestano attività lavorativa nell'impresa di un loro congiunto; attribuisce, in particolare, ai coniugi e familiari entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado, che prestano stabilmente attività lavorativa nell'impresa del loro congiunto, il diritto di partecipare alla ripartizione degli utili e di altre poste attive patrimoniali, nonché di partecipare alle decisioni amministrative e gestionali relative all'impresa. Il minimum di tutela previsto dalla norma è inderogabile pattiziamente; la quota di uno dei familiari aventi diritto non può essere alienata a soggetti esterni al nucleo familiare. A ciascun familiare che partecipa all'impresa familiare è garantito il diritto di prelazione ex art. 732 c.c. 

Formula

TRIBUNALE CIVILE DI .... 1 SEZIONE LAVORO

RICORSO EX ART. 414 C.P.C. 2 IN RELAZIONE ALL'ART. 230-BIS C.C.

Per il Sig. .... nato a .... il ...., C.F. .... residente in ...., alla via .... n. ...., ed elettivamente domiciliato in .... via .... n. .... presso lo studio dell'Avv. ....(C.F. ...., PEC ...) sito in .... dal quale è rappresentato e difeso come da procura a margine/o in calce al presente atto.

- ricorrente -

CONTRO

Ditta individuale .... in persona del l.r. .... C.F/P.I. .... con sede legale in .... alla via .... 3 nonché contro il Sig. .... in proprio nato a .... il ...., C.F. .... residente in ...., alla via .... n. ...., e Sig. ...., nato a .... il ...., C.F. .... residente in ...., alla via .... n. ...., e le Sig.re .... nate a .... il ...., C.F. .... residenti in ...., alla via .... n. ...., e .... n. a .... il ...., C.F. .... residente in ...., alla via .... n. ....;

- resistenti -

FATTO

– Il ricorrente è figlio del Sig. .... e della Sig.ra .... e fratello del Sig. .... e della Sig.ra ....;

– Il padre è titolare di un esercizio commerciale .... con sede in .... via .... n. .... denominato ....;

– Al fine di contenere i costi di esercizio, il Sig. .... si è avvalso della collaborazione esclusiva dei suoi congiunti; precisamente: la moglie, madre del ricorrente, Sig.ra .... svolge quotidianamente l'attività di cassiera e mantiene la contabilità della pizzeria; il figlio ...., nonché fratello del ricorrente, coadiuva di giorno il padre nei rapporti con i fornitori ed aiuta in sala di sera; la figlia .... nonché sorella ricorrente, aiuta in sala;

– Anche il ricorrente ha collaborato alla gestione della pizzeria, per lo più servendo i tavoli, in modo continuativo, quotidiano, dal 1° febbraio 20 .... al 1° marzo 20 .... (ad esempio);

– In data ...., nacque un alterco tra il ricorrente ed il padre, durante il quale questi gli disse che avrebbe dovuto trovarsi un'altra occupazione lavorativa, perché la pizzeria non garantiva ricavi sufficienti a sostenere tutti i figli; che quando sarebbe andato in pensione, l'avrebbe ceduta al figlio primogenito .... sia perché l'ha sempre aiutato nella gestione, sin da piccolo, sia perché vi dedica più ore di lavoro giornaliere rispetto a lui;

– A seguito di questa discussione il padre ed il fratello del ricorrente hanno impedito l'accesso in pizzeria al ricorrente, il quale ha preso atto della situazione ed ha deciso di cercare una nuova occupazione, senza successo sino ad ora.

DIRITTO

Dalla precedente narrazione dei fatti si evince senza ombra di dubbio che si è in presenza di un'impresa famigliare ex art. 230-bis c.c. tra il Sig. .... titolare della pizzeria ed i suoi congiunti stretti (moglie ed i tre figli, tra cui il ricorrente).

Infatti, il Sig. .... è titolare esclusivo dell'attività commerciale e non risulta aver assunto alcun dipendente, come si evince dalla visura allegata (all. 1).

Egli ha gestito la pizzeria avvalendosi esclusivamente della collaborazione di moglie e figli, con i quali non si è instaurato alcun rapporto che presentasse gli indici della subordinazione: ed infatti, i congiunti, ivi compreso il ricorrente, non hanno osservato un orario di lavoro predeterminato, né hanno prestato mansioni specifiche, né sono stati asserviti al potere direttivo e disciplinare del titolare. Lo stesso ricorrente e la sorella, pur aiutando prevalentemente in sala, servendo ai tavoli, hanno sempre goduto di una certa autonomia gestionale coordinandosi con il titolare. Ciascuno di loro in pratica ha agito nell'interesse dell'azienda, come se fosse la loro.

Non si è configurata, altresì, una società di fatto, perché soltanto il padre ha aperto l'attività impiegando le risorse personali per avviarla; l'ha sempre gestita autonomamente; ed è titolare esclusivo delle obbligazioni e dei crediti verso terzi.

Ciò chiarito, il padre non ha mai versato al ricorrente alcun utile prodotto dalla pizzeria, né gli ha mai versato il mantenimento fino al giorno in cui gli ha intimato di cessare la collaborazione. Il ricorrente ha accettato tale decisione, ma con quest'azione intende conseguire quanto gli spetta ai sensi dell'art. 230-bis c.c. a titolo di mantenimento, di partecipazione agli utili dell'impresa familiare, ed in ordine all'avviamento. Non vi sono stati, invece, incrementi aziendali, né acquisti di beni; il locale adibito a pizzeria è rimasto invariato nel corso degli anni.

Nello specifico, si ritiene equa la determinazione di Euro .... mensili (ad es.) a titolo di mantenimento; si tratta di una somma proporzionata alle sostanze ed al tenore di vita familiare complessivo. Pertanto, spetterebbe al ricorrente la somma di Euro .... pari ad Euro .... x .... mensilità. Quanto agli utili prodotti, considerato che i componenti dell'impresa famigliare sono cinque, e pur volendo valorizzare il maggior apporto lavorativo garantito dal titolare e del fratello maggiore, si ritiene equo e proporzionato il riconoscimento al ricorrente, per gli anni in cui ha collaborato alla gestione della pizzeria, di una partecipazione agli utili aziendali in misura non inferiore al 15%. Per l'avviamento ci si rimette alle valutazioni del CTU di cui si chiede sin d'ora la nomina.

***

TUTTO QUANTO SOPRA PREMESSO E CONSIDERATO

tanto in fatto quanto in diritto, il ricorrente Sig. ....

RICORRE

All'intestato Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, affinché, fissata l'udienza di discussione a norma dell'art. 415, comma 2, c.p.c., voglia accogliere le seguenti conclusioni:

Riconoscere ed accertare la sussistenza di un'impresa famigliare tra il ricorrente ed i resistenti;

Riconoscere a favore del ricorrente una partecipazione nell'impresa familiare non inferiore al 15%;

Condannare la ditta individuale .... in persona del l.r. ed il Sig. .... in proprio 4 al pagamento in favore del Sig. .... della somma di Euro ...., a titolo di mantenimento, ovvero alla maggior o minor somma che l'Ill.mo Giudice adito riterrà equa, oltre interessi legali in misura di legge;

Condannare la ditta individuale .... in persona del l.r. ed il Sig. .... in proprio al pagamento in favore del Sig. .... alla corresponsione degli utili prodotti dal 1° febbraio 20 .... al 1° marzo 20 ...., nonché all'avviamento in misura proporzionale alla collaborazione prestata in tale lasso di tempo dal ricorrente, oltre interessi legali in misura di legge.

Con vittoria di spese.

IN VIA ISTRUTTORIA 5

Si producono i seguenti documenti

Visura della ditta individuale intestata a ....;

Si richiede l'esame testimoniale delle seguenti persone informate sui fatti per cui è causa 6 :

L'esame verterà sui seguenti capitoli 7 :

Si chiede sin d'ora l'espletamento di una CTU contabile che accerti il patrimonio netto dell'impresa, stabilisca gli utili prodotti negli anni in cui il ricorrente ha collaborato e quantifichi l'avviamento aziendale;

Il sottoscritto Avv. .... ai sensi dell'art. 9, comma 1-bis del d.P.R. n. 115/2002 dichiara che il contributo unificato è dovuto in misura della metà, trattandosi di controversia di lavoro, delle cause di valore indeterminabile ed è pari ad Euro 259,00.

Luogo e data ....

Firma Avv. ....

PROCURA

Delego a rappresentarmi e difendermi nel presente giudizio l'Avv. ...., eleggendo domicilio nello studio dello stesso in ...., via .... e conferendo al medesimo ogni più ampia facoltà di legge.

Per autentica della sottoscrizione ....

Firma Avv. ....

[1] La domanda si incardina con ricorso innanzi al giudice del lavoro competente secondo uno dei criteri dettati nell'art. 413, comma 2, c.c.

[2] In base all'art. 2 del d.m. 7 agosto 2023, n. 110 “Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l'inserimento delle informazioni nei registri del processo, ai sensi dell'articolo 46 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile”, al fine di assicurare la chiarezza e la sinteticità degli atti processuali in conformità a quanto prescritto dall'art. 121 c.p.c., i ricorsi sono redatti con la seguente articolazione: a) intestazione, contenente l'indicazione dell'ufficio giudiziario davanti al quale la domanda è proposta e della tipologia di atto; b) parti, comprensive di tutte le indicazioni richieste dalla legge; c) parole chiave, nel numero massimo di venti, che individuano l'oggetto del giudizio; d) nelle impugnazioni, estremi del provvedimento impugnato con l'indicazione dell'autorità giudiziaria che lo ha emesso, la data della pubblicazione e dell'eventuale notifica; e) esposizione distinta e specifica, in parti dell'atto separate e rubricate, dei fatti e dei motivi in diritto, nonché, quanto alle impugnazioni, individuazione dei capi della decisione impugnati ed esposizione dei motivi; f) nella parte in fatto, puntuale riferimento ai documenti offerti in comunicazione, indicati in ordine numerico progressivo e denominati in modo corrispondente al loro contenuto, preferibilmente consultabili con apposito collegamento ipertestuale; g) con riguardo ai motivi di diritto, esposizione delle eventuali questioni pregiudiziali e preliminari e di quelle di merito, con indicazione delle norme di legge e dei precedenti giurisprudenziali che si assumono rilevanti; h) conclusioni, con indicazione distinta di ciascuna questione pregiudiziale, preliminare e di merito e delle eventuali subordinate; i) indicazione specifica dei mezzi di prova e indice dei documenti prodotti, con la stessa numerazione e denominazione contenute nel corpo dell'atto, preferibilmente consultabili con collegamento ipertestuale; l) valore della controversia; m) richiesta di distrazione delle spese; n) indicazione del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. L'art. 3 lett. a) precisa che il ricorso deve avere un'estensione massima di 80.000 caratteri, salvi gli elementi esclusi dall'art. 4, e ferma restando (ex art. 5) la possibilità di superare detti limiti se la controversia presenta questioni di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti, ipotesi nella quale il difensore espone sinteticamente nell'atto le ragioni per le quali si è reso necessario il superamento dei limiti. Il richiamato Regolamento non trova applicazione, rispetto ai limiti dimensionali degli atti, nelle controversie di valore superiore a 500.000 euro.

[3] In tutti gli atti introduttivi di un giudizio, compresa l'azione civile in sede penale e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati, le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., in l. n. 111/2011).

[4] Sebbene la domanda sia rivolta nei confronti di tutti i congiunti che hanno partecipato all'impresa famigliare, la richiesta di condanna al pagamento dei diritti patrimoniali previsti dall'art. 230-bis c.c. deve essere rivolta esclusivamente nei confronti del titolare; ciò perché gli utili ed incrementi aziendali non configurano un diritto reale di comproprietà in favore di tutti i partecipanti all'impresa, ma costituiscono esclusivamente un diritto di credito che il singolo partecipante vanta nei confronti del titolare. Ciononostante, è necessaria la vocatio in ius di tutti i partecipanti per accertare la costituzione di un'impresa famigliare e per stabilire le rispettive quote di partecipazione. In tal senso la pronuncia del giudice che accerti la spettanza al ricorrente in una determinata percentuale di partecipazione agli utili in proporzione alla quantità e qualità dell'attività lavorativa prestata ha effetti costitutivi anche nei confronti degli altri compartecipi, incidendo sulla loro quota di partecipazione. Di qui la necessità che il contraddittorio sia esteso a tutti i compartecipi. 

[5] Trovando applicazione il rito del lavoro, vi è un onere di completezza degli atti introduttivi anche con riferimento alle richieste istruttorie, che devono essere formulate, a pena di decadenza, con gli stessi.

[6] Indicare le generalità e la residenza o domicilio delle persone in grado di rendere testimonianza per i fatti di causa.

[7] Occorre elencare i capitoli dell'esame testimoniale, eventualmente richiamandosi ai punti in cui è articolata la parte narrativa, premessa la locuzione “Vero che .... ”.

Commento

Il problema della natura individuale e plurisoggettiva dell'impresa familiare

L'impresa familiare è un istituto introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia l. n. 151/1975 con il quale il legislatore valorizza la partecipazione del coniuge e dei famigliari nell'impresa gestita da un loro congiunto, garantendo loro diritti patrimoniali, così superando il principio di presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese in favore di un parente, enucleato dalla giurisprudenza tradizionale.

 

Natura giuridica dell'impresa familiare

Il legislatore disciplina l'impresa familiare nell'art. 230-bis c.c. ma non ne offre una definizione. La discussione dottrinale e giurisprudenziale sul punto ha portato all'affermazione di due indirizzi contrapposti: l'uno che rinviene nell'impresa familiare una struttura plurisoggettiva; l'altro che sostiene abbia natura individuale. Questa seconda posizione è stata infine avallata dalle S.U. della Cassazione con la sentenza n. 23676/2014 per la quale il complesso dei diritti patrimoniali ed amministrativi è incompatibile con la disciplina normativa che governa i fenomeni societari; infatti il diritto alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, è ricollegato alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa, e non alla quota di partecipazione, come richiederebbe la disciplina societaria. Nessuna norma del diritto societario consente ad un socio di reclamare diritti sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, ivi compreso l'avviamento, quando la società opera regolarmente; in terzo luogo, ancor più confliggente con regole imperative del sottosistema societario appare il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio, tale da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario – integrato con la presenza dei familiari dei soci – nelle decisioni concernenti l'impiego degli utili, degli incrementi, della gestione straordinaria e degli indirizzi produttivi; e finanche la cessazione dell'impresa stessa: disciplina che contrasta con l'attribuzione delle responsabilità decisionali all'interno di una società, che le vedono riservate, di volta in volta, agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste (il più delle volte da norme inderogabili), in funzione del tipo societario, ma univoche nell'esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale. A tal proposito si è precisato che al fine di distinguere il rapporto subordinato reso da un familiare rispetto alla partecipazione all'impresa familiare si è precisato che la presenza di indici sintomatici quali l'osservanza di un orario di lavoro, nella specie coincidente con quello di apertura del negozio al pubblico –, la presenza costante, la corresponsione di un compenso a cadenze fisse possono condurre a configurare l'esistenza di rapporto di tipo subordinato e non mera partecipazione all'attività del familiare in virtù dei motivi di assistenza personale legati ad un'ipotetica impresa familiare (Cass. n. 4535/2018). Ed ancora, siffatta conclusione appare confortata dalla natura residuale dell'impresa familiare, che ne escluderebbe l'applicazione nel caso in cui sia configurabile tra i familiari un rapporto riconducibile ad uno schema societario. (in questo senso, Cass. n. 11533/2020 e Trib. Bergamo, sez. lav., 7 aprile 2020, n. 330). Dall'inciso “salvo che non sia configurabile un diverso rapporto” si ricava il carattere residuale della disposizione, nel senso che il complesso di diritti patrimoniali ed amministrativi previsto dalla norma trova applicazione se il rapporto di lavoro tra familiare ed imprenditore non sia inquadrabile in un altro istituto giuridico, nel qual caso il rapporto sarà regolato secondo la specifica disciplina giuridica per esso prevista (es. rapporto di lavoro subordinato; rapporto societario, anche di fatto, associazione in partecipazione, ecc.). Principi questi espressi icasticamente dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 24560/2015, la quale ha affermato che «L'impresa familiare di cui all'art. 230-bis c.c. appartiene solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, in ciò differenziandosi dall'impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, e dalla società, con la quale è incompatibile». Più di recente è stato precisato che la natura individuale dell'impresa familiare comporta che ne sia titolare soltanto l'imprenditore, in conseguenza la posizione degli altri familiari, che prestano il loro apporto sul piano lavorativo, assume rilevanza esclusivamente nei rapporti interni, restando esclusa la configurabilità di un'ipotesi di litisconsorzio necessario nei giudizi promossi da o contro il congiunto titolare dell'impresa (Cass. n. 10161/2021; Cass. n. 34222/2019).

La costituzione

I diritti sanciti per i familiari lavoratori nell'art. 230-bis c.c. costituiscono un minimum di tutela inderogabile in peius e derogabile solo in melius. L'inciso “salvo diverso rapporto” deve essere interpretato restrittivamente nel senso che è inibito all'imprenditore di configurare un tipo di rapporto lavorativo con il suo famigliare idoneo ad eludere la disciplina garantista prevista dalla norma, prevedendovi pattiziamente un livello inferiore di diritti (ad es. rapporto di lavoro gratuito, che resta oramai confinato in un'area limitata; si è precisato in giurisprudenza di merito che, qualora un'attività lavorativa sia stata svolta nell'ambito dell'impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all'impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare (Trib. Roma n. 1606/2019); ove ciò dovesse accadere, la clausola sarebbe nulla per violazione di una norma imperativa, e verrebbe sostituita dalla disciplina dell'art. 230-bis c.c. L'impresa familiare è un fenomeno giuridicamente rilevante non riconducibile ad uno schema giuridico tipizzato (la cui disciplina, altrimenti, troverebbe applicazione); non costituisce in altre parole una figura giuridica che si contrappone e distingue dalle tipologie codificate di società, da un lato, e dall'imprenditore individuale (art. 2082 ss. c.c.) dall'altro, ma rileva quale “fatto materiale” rilevante per l'attribuzione di diritti ai familiari dell'imprenditore per il sol fatto che questi prestano stabilmente attività lavorativa in favore del congiunto. Ne consegue che l'impresa familiare non necessita di alcun atto costitutivo; la sua costituzione si perfeziona automaticamente con la prestazione di attività lavorativa nell'impresa da parte di uno o più familiari, fermo restando, naturalmente, che i familiari possono consacrare in una scrittura privata la regolamentazione dei diritti (ad esempio la ripartizione degli utili) connessi alla prestazione lavorativa singolarmente prestata. Un accordo in tal senso, anche se consacrato in una scrittura privata, non ha efficacia costitutiva, ma semplicemente probatoria, e semplifica l'onere probatorio per il singolo familiare nel giudizio che dovesse intentare innanzi al giudice del lavoro nei confronti dell'imprenditore per conseguire gli utili a lui spettanti e che gli sono negati al momento dell'estinzione dell'impresa. L'art. 230-bis c.c., comma 3, trova applicazione con riferimento al coniuge, ai parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo, conseguendone che la prestazione lavorativa eseguita nell'impresa familiare da parenti oltre il terzo grado non rientra nel campo di applicazione della norma ed il suddetto parente dovrà attivare altri strumenti giuridici per tutelare il suo diritto alla retribuzione resa in assenza di contratto (come l'art. 2041 c.c.).

I presupposti

Il presupposto oggettivo consiste nella prestazione di lavoro in modo continuativo all'interno dell'impresa del convivente; quindi la norma non opera in caso di collaborazioni occasionali o saltuarie, ma per la collaborazione duratura che comporti un impegno costante del lavoratore volto a soddisfare un interesse durevole dell'imprenditore (Cass. n. 19925/2014; Cass. n. 20157/2005). Dalla formulazione della norma, non emerge che la prestazione di lavoro debba necessariamente essere svolta a tempo pieno, o con carattere di esclusività e prevalenza, dovendosi soltanto concretizzare in un apporto continuativo all'impresa da parte dei familiari. A tal fine è stato precisato che la continuità dell'apporto richiesto dall'art. 230-bis c.c. per la configurabilità della partecipazione all'impresa familiare non esige la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità dell'apporto (Cass. n. 13849/2002). Per altro verso, la prestazione può esplicarsi in qualunque attività manuale o intellettuale, di natura esecutiva o direttiva, senza però, sconfinare in una cogestione dell'impresa o in un rapporto di lavoro che presenti gli indici tipici della subordinazione, che farebbero sorgere un rapporto di tipo societario o di lavoro subordinato, esclusi dal campo di applicazione della norma. Dal campo di applicazione dell'art. 230-bis c.c. vanno escluse le attività lavorative rese dai familiari del congiunto in altre forme produttive, come ad es. la collaborazione nello studio professionale (commercialista, avvocato). La dimensione dell'impresa può indifferentemente essere piccola, media o grande, e l'oggetto sociale può essere di qualsiasi tipo, ad eccezione delle attività per le quali è prevista una particolare forma societaria (ad es. bancarie e assicurative). L'art. 230-bis c.c. equipara l'attività di lavoro svolta dal coniuge o familiare nella famiglia e quello svolto nell'impresa familiare. Si tratta di una previsione che esalta la nuova considerazione in cui viene tenuta la donna ed il lavoro casalingo nello spirito della riforma del 1975, ma che pone al contempo numerosi dubbi applicativi. Appare convincente l'impostazione secondo cui il diritto alla percezione degli utili dell'impresa del marito operi in favore della moglie casalinga allorquando l'assolvimento del lavoro domestico in via esclusiva e full time della sola moglie consenta l'inserimento a tempo pieno di un altro familiare nell'organizzazione dell'impresa o permetta anche allo stesso imprenditore di dedicarsi totalmente all'esercizio della sua impresa. Se da tali eventi scaturisce un incremento di produttività dell'azienda, anche la moglie deve goderne degli utili, dal momento che l'ha reso possibile sottraendo del tutto il marito o uno dei figli dall'assolvimento di compiti domestici, facendo recuperare tempo da dedicare all'azienda di famiglia. Affinché detta connessione operi, il lavoro casalingo della moglie non deve essere configurato quale adempimento del dovere di contribuzione alla famiglia ex art. 143, comma 3 c.c., ma deve risultare il frutto di un'autonoma scelta, che comporti da un lato la rinuncia preventiva della moglie a ricercare altre possibilità lavorative e, dall'altro, sia finalizzata ad agevolare l'attività nell'impresa di famiglia degli altri componenti del nucleo familiare (cfr. Cass. n. 89/1995).

I diritti patrimoniali garantiti dalla norma

Occorre soffermarsi in primo luogo sul diritto al mantenimento che ha per oggetto la somministrazione di quanto necessario a soddisfare le normali esigenze di vita del familiare lavoratore, da intendersi non già nel ristretto senso di mezzi strettamente indispensabili, bensì di mezzi in grado di assicurare un'esistenza libera e dignitosa. Tale diritto, che deve essere prestato secondo le condizioni patrimoniali della famiglia dell'imprenditore fa sì che tutti i lavoratori familiari, anche se non conviventi con il datore e non facenti parte, in senso stretto, della sua famiglia, siano trattati in maniera egualitaria. Il mantenimento si estende alla famiglia dell'avente diritto ed è identico per tutti i familiari ed è proporzionato alla condizione patrimoniale della famiglia e non dell'impresa, indipendentemente dall'entità del rapporto lavorativo. Il mantenimento non ha natura corrispettiva, ma alimentare ed assistenziale ed il suo fondamento si basa sulla solidarietà familiare (cfr. Cass. n. 4057/1992). Infatti il dato letterale attribuisce corrispettività solo alla partecipazione agli utili ed agli incrementi aziendali in proporzione al lavoro prestato, differentemente dal mantenimento che spetta a tutti i familiari in misura paritaria secondo la condizione patrimoniale della famiglia nel suo complesso, e non secondo l'andamento aziendale. Per partecipazione agli utili deve intendersi la differenza di valore del patrimonio aziendale nel momento attuale rispetto ad un momento iniziale. Ancorché la norma non subordini espressamente la partecipazione agli utili al presupposto dell'accertamento dell'incremento della produttività aziendale per effetto dall'apporto procurato dall'attività lavorativa del convivente, la Corte di cassazione ritiene che si tratti di un presupposto necessario la cui prova spetta al famigliare ricorrente; recentemente la stessa S.C. con ord. n. 1401/2021, ha precisato che la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi del familiare va determinata, sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto, e non della sua effettiva incidenza causale sul loro conseguimento, in relazione al valore complessivo dell'impresa che si connota come entità dinamica soggetta a variazioni in funzione dell'andamento del mercato; ne deriva che, nella liquidazione della quota del familiare al momento della cessazione, va inclusa anche la rivalutazione di un fattore della produzione riferibile a cause estranee all'attività svolta dal partecipante, che si sia tradotto in un aumento di redditività dell'impresa medesima, ed analogamente i fattori di decremento dei beni che abbiano riflessi sulla produttività – conforme a Cass., sez. lav., n. 27108/2017. In giurisprudenza di merito si è orientato in tal senso il Tribunale Roma, con sentenza del 18 febbraio 2019). Si ritiene, altresì che non è obbligatoria la distribuzione periodica degli utili al termine di ogni esercizio finanziario ma possa essere differita ad un momento diverso, anche alla cessazione dell'impresa (cfr. Cass. n. 24560/2015). La percezione degli utili spettanti al convivente non ha la consistenza di un diritto reale, nel senso che non configura una situazione di contitolarità tra imprenditore e familiari nel momento della loro produzione, sebbene in tal senso parrebbe deporre il dettato letterale degli artt. 230-bis c.c., laddove parla di “partecipazione agli utili”; assume, diversamente, la consistenza di un diritto di credito nei confronti dell'imprenditore, che opera esclusivamente nei rapporti interni tra i familiari (cfr. Cass. n. 11921/1999). Tale opzione è ritenuta preferibile alla luce delle difficoltà pratiche che scaturiscono dall'altra impostazione e che possono così riassumersi: la contitolarità degli utili comporterebbe l'applicazione della disciplina sulla comproprietà (artt. 1100 ss.) compresa la facoltà per ciascun compartecipe di chiederne lo scioglimento in ogni momento o la cessione della quota a terzi o la liquidazione della quota; si tratta di disposizioni incompatibili coi principi e le regole che governano lo svolgimento di attività di impresa. In secondo luogo occorre rimarcare che il diritto agli utili dei familiari è insuscettibile di una precisa quantificazione dipendendo da un criterio incerto (la proporzione al lavoro prestato) e tra l'altro variabile nel tempo (ogni anno la partecipazione agli utili può variare in misura dell'incremento o della riduzione del lavoro prestato); è necessario, quindi, che la liquidazione della partecipazione agli utili sia posticipata successivamente alla loro produzione, dopo aver valutato la consistenza della qualità e quantità del lavoro prestato in azienda da ogni singolo familiare; e questo modus operandi è strutturalmente incompatibile con la natura di diritto reale degli utili prodotti, che sorgerebbero nel momento stesso in cui si producono. Il credito potrà essere preteso dai familiari al momento della cessazione dell'impresa o di ogni singolo anno finanziario, se non è stato stabilito il reimpiego degli utili (in questo senso, in giurisprudenza di merito Trib. Fermo 10 settembre 2019, n. 149). Oltre che ai beni acquistati, i familiari hanno il diritto di partecipare, sempre in proporzione al lavoro prestato, agli incrementi dell'azienda, che ricomprendono qualunque aumento di valore dell'azienda o dei singoli beni aziendali, ed all'avviamento, che rappresenta una qualità dell'azienda, suscettibile di valutazione economica, che consiste nella differenza tra la misura degli utili prodotti dall'impresa prima dell'inizio della collaborazione del familiare e la misura degli utili prodotti successivamente, il cui accertamento dovrà avvenire al momento della estinzione o alienazione dell'impresa o della cessazione della partecipazione del familiare, sorgendo proprio all'esito della suddetta attività di liquidazione il suo diritto di credito. Il diritto di credito previsto dall'art. 230-bis c.c. si prescrive nell'ordinario termine decennale che decorre dal giorno della sua maturazione (Cass. n. 20273/2010 e Cass. n. 16477/2009). Sotto il profilo fiscale, è stato evidenziato in giurisprudenza: che in materia di impresa familiare, il reddito percepito dal titolare, che è pari al reddito conseguito dall'impresa al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, costituisce un reddito d'impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori, che non sono contitolari dell'impresa familiare, costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all'imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall'imprenditore; ne consegue che, dal punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell'impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito “pro quota” agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d'impresa (Cass. V, ord. n. 9198/2022); che, per quanto concerne gli oneri deducibili dal reddito delle persone fisiche, il titolare dell'impresa familiare che versi contributi previdenziali nell'interesse dei collaboratori ha soltanto diritto di rivalsa nei confronti del beneficiato, potendo invece portare in deduzione il relativo importo unicamente nelle ipotesi in cui il collaboratore sia un familiare indicato nell'art. 433 c.c. e a condizione che sia persona a suo carico (Cass. V, n. 34168/2019); che in materia di impresa familiare, poiché non esiste alcun contratto sociale né un vincolo societario tra il titolare dell'impresa e i suoi collaboratori, la liquidazione del diritto di partecipazione all'impresa, afferendo alla sfera personale dei soggetti di tale rapporto, non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal d.P.R. n. 917/1986, sicché l'importo attribuito non è soggetto ad Irpef in capo al soggetto percipiente, non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito di impresa, per mancanza del requisito di inerenza previsto dall'art. 109, comma 5, del t.u.i.r. (Cass., ord. n. 40937/2021); che ai fini della liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa in favore del titolare di un'impresa familiare, dall'utile prodotto dalla stessa va detratta la quota spettante al familiare collaboratore, non potendo quest'ultima qualificarsi come costo nella determinazione del reddito dell'impresa medesima (Cass., ord. n. 3856/2023).

La liquidazione degli utili

Il criterio di determinazione della corresponsione degli utili e degli altri elementi patrimoniali richiamati nella norma è costituito dalla proporzione della quantità e qualità al lavoro prestato. Si tratta di un criterio vago che attribuisce al giudice del Lavoro adito un eccesso di discrezionalità nella commisurazione, che non solo comporta incertezze interpretative ed applicative in ordine ai singoli criteri che saranno utilizzati dal magistrato nella quantificazione, ma soprattutto arreca il rischio di disparità di trattamento da Tribunale a Tribunale per situazioni grossomodo analoghe. Sul punto si è precisato che non può essere utilizzato, come parametro, l'importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività che prescinde dall'entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell'impresa familiare e che, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell'impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all'apporto lavorativo effettivamente prestato (Cass. n. 20574/2008, conforme a Cass. n. 6631/2007 e Cass. 1332/1999). In caso di mancanza di accordo sulla ripartizione delle quote, il familiare che agisce in giudizio per vedersi attribuita la partecipazione agli utili spetta al famigliare ricorrente l'onere di provare la consistenza del patrimonio familiare, l'ammontare degli utili da distribuire e l'entità della sua quota di partecipazione in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (Cass. n. 9683/2003; Cass. n. 17057/2008; Cass., sez. lav., ord. n. 27966/2018). Il giudice del lavoro può, in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti, differenziare la posizione dell'imprenditore, in conseguenza delle maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la sua collaborazione in azienda (Cass. n. 1917/1999).

 

Convivenza di fatto

Un'ultima annotazione riguarda il problema dell'estensione della disciplina dettata nell'art. 230-bis c.c. ai familiari del partner che abbia instaurato un'unione di fatto con l'imprenditore.

Le pronunce giurisprudenziali più risalenti avevano postulato l'inapplicabilità della disciplina dell'impresa familiare, modulata sul presupposto dell'esistenza di una famiglia legittima, al convivente di fatto, considerato estraneo rispetto alla nozione della famiglia fondata sul matrimonio (Cass. nn. 4204/1994, 22405/2004). L'introduzione dell'art. 230-ter ad opera della l 20 maggio 2016, n. 76, ha segnato una svolta normativa che ha condotto ad attribuire i diritti derivanti dalla partecipazione all'impresa familiare anche ai conviventi di fatto. L'innovazione era stata anticipata da alcune pronunce della Corte Costituzionale e, segnatamente, delle sentenze nn. 476/1987, 170/1994, 485/1992  e, prima ancora, dalla sentenza n. 237/1986 ove si era precisato che l'art. 2 della Costituzione doveva essere riferito  anche “ .... alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità .... La Corte di cassazione, nel recepire i principi espressi dalle dette pronunce aveva riconosciuto che  “ .... l'introduzione dell'istituto dell'impresa familiare rispondeva alla meritoria finalità di dare tutela al lavoro comunque prestato negli aggregati familiari ....” con l'attribuire rilevanza giuridica al rapporto di convivenza more uxorio.  Non si trattava, si è precisato,  “ .... di porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio ma di riconoscere un diritto della convivente more uxorio e di ripristinare ragionevolezza all'interno di un istituto che non poteva considerarsi eccezionale quanto piuttosto avente una funzione suppletiva, essendo diretto ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari. Del resto, aggiungeva la Suprema Corte, l'esclusione del convivente more uxorio che per lungo tempo abbia lavorato nell'impresa familiare dell'altro convivente appariva in contrasto non solo con gli artt. 2 e 3 Cost. (come interpretati in materia dalla Corte Costituzionale) ma soprattutto con con il diritto dell'Unione Europea e con la giurisprudenza della Corte EDU. In definitiva, l'esclusione del solo – o della sola ... convivente more uxorio dalla applicazione dell'art. 230-bis c.c. risultava non corrispondente alla “inclusiva” ratio dell'istituto rapportata alle mutate condizioni di vita, nel suddetto ambito materiale.

Il favor interpretativo verso la considerazione della convivenza di fatto nell'ambito dell'impresa familiare ha raggiunto un ulteriore punto di sviluppo. La Corte costituzionale (25 luglio 2024, n. 148) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, comma 3, nella parte in cui non prevede come familiare anche il “convivente di fatto” e come impresa familiare quella cui collabora anche il “convivente di fatto” e, in via conseguenziale, l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter c.c. che riconosce al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta. La tutela del lavoro rappresenta un mezzo essenziale per garantire la dignità di ciascun individuo, sia come singolo che come parte integrante della società, in particolare della famiglia: per questo motivo è irragionevole l'esclusione del convivente di fatto nell'impresa familiare.

L'art. 1, comma 13, l. 20 maggio 2016, n. 76, ha esteso alle unioni civili tra persone dello stesso sesso la normativa riguardante l'impresa familiare.

 

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario