Memoria difensiva avverso il ricorso per esercizio del diritto di prelazione (art. 230-bis c.c.)

Gustavo Danise
Aggiornato da Francesco Bartolini

Inquadramento

L'art. 230-bis c.c. assicura una tutela minimale ed inderogabile ai familiari che prestano attività lavorativa nell'impresa di un loro congiunto; attribuisce, in particolare, ai coniugi e familiari entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado, che prestano stabilmente attività lavorativa nell'impresa del loro congiunto, il diritto di partecipare alla ripartizione degli utili e di altre poste attive patrimoniali, nonché di partecipare alle decisioni amministrative e gestionali relative all'impresa. Il minimum di tutela previsto dalla norma è inderogabile pattiziamente; la quota di ognuno dei familiari aventi diritto non può essere alienata a soggetti esterni al nucleo familiare. A ciascun familiare che partecipa all'impresa familiare è garantito il diritto di prelazione ex art. 732 c.c.

Formula

TRIBUNALE CIVILE DI ...

- SEZ. LAV. -

MEMORIA DIFENSIVA EX ART. 416 C.P.C.1

Nell'ambito del giudizio iscritto al n. R.G. ... innanzi al Giudice Dr. ...

Per: Sig. ..., nato a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla via ... n. ... 2, elettivamente domiciliato in ... via ... n. ... presso lo studio dell'Avv. ... , C.F. …., PEC ….., che lo rappresenta e difende in forza di procura a margine/in calce al presente atto;

- resistente -

CONTRO

Sig.ra ... nata a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla via ... n. ..., elettivamente domiciliata presso lo studio dell'Avv. ...;

- ricorrente -

E NEI CONFRONTI DI

Sig. ..., nato a ... il ..., C.F. ... residente in ..., alla via ... n. ...,

- altro convenuto -

FATTO

Con ricorso depositato in data ..., la Sig.ra ... adiva Codesto Tribunale affinché accogliesse le seguenti conclusioni: “a. Riconoscere ed accertare la sussistenza di un'impresa famigliare tra la ricorrente ed il Sig. ... ai sensi dell'art. 230- bis c.c.; b. Accertare la violazione ad opera del Sig. ... del diritto di prelazione della ricorrente nell'acquisizione dell'attività commerciale ceduta al Sig. ...; c. Accertare la sussistenza del diritto di riscatto in favore della ricorrente, dando atto dell'offerta della stessa a versare il prezzo di acquisto e disporre i termini ed i modi del deposito della prefata somma in favore del Sig. ...; d. Condannare i resistenti al risarcimento dei danni patrimoniali secondo le rispettive responsabilità come sopra precisate; Con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente procedimento. Salvo ogni altro diritto”.

A supporto la ricorrente esponeva:

- di aver contratto matrimonio concordatario con il Sig. ... in data ...;

- che i due coniugi hanno rilevato e gestito insieme una pizzeria con sede legale in ... via ... n. ... denominata ...;

- che l'attività era intestata esclusivamente al Sig. ... ma la moglie vi ha sempre collaborato 3;

- che a seguito delle pressioni della moglie volte a regolarizzare la sua posizione nell'azienda, il Sig. ... ha acconsentito alla stipula di una scrittura privata inter partes in cui le ha riconosciuto il diritto di percepire ogni anno gli utili prodotti dalla pizzeria in misura del 49%, fermo restando che l'attività sarebbe rimasta intestata esclusivamente a lui;

- che dopo alcuni anni i coniugi si separarono di fatto e la moglie abbandonò la casa coniugale per trasferirsi altrove, cessando, quindi, di collaborare in pizzeria, attesa la situazione conflittuale che si era determinata con il marito;

- che in data ... la ricorrente si vide notificare il ricorso per separazione giudiziale presentato dal marito, nel cui corpo si riferisce la circostanza che il marito risulta disoccupato per aver ceduto la pizzeria al Sig. ....

Ciò premesso deduceva in diritto:

- che tra lei ed il marito si era costituita un'impresa famigliare; infatti, ella aveva collaborato nell'attività della pizzeria sin dall'inizio, pur non essendone socia, in quanto l'attività era intestata esclusivamente al marito, ed in assenza di un contratto di lavoro subordinato.

- che dal riconoscimento dell'impresa familiare consegue l'estensione all'odierna ricorrente di tutti i diritti previsti dall'art. 230-bis c.c. tra cui è ricompreso al comma 5 il diritto di prelazione in caso di trasferimento d'azienda.

- che il comparente ha violato tale diritto, previsto opelegis, alienando l'attività commerciale ad un terzo, Sig. ... senza previamente notificarle la c.d. denuntiatio, necessaria per metterla in condizione di decidere se pareggiare l'offerta di acquisto formulata dal terzo.

Per l'effetto concludeva chiedendo che venisse riconosciuta l'impresa familiare; che venisse accertata la violazione del diritto di prelazione; che venisse accertata la legittimità del suo diritto di riscatto della pizzeria dal terzo acquirente offrendo già nel presente atto la somma che lui all'epoca aveva versato all'alienante Sig. ...; nonché chiedendo la condanna del marito al risarcimento del danno patrimoniale consistente nella mancata percezione dei proventi ed utili aziendali dal giorno dell'alienazione al terzo acquirente fino all'attualità; ed altresì la condanna dell'altro convenuto Sig. ... al risarcimento del danno patrimoniale per il ritardo nella riconsegna dell'attività commerciale, nel caso in cui decidesse di resistere in giudizio.

***

Con il presente atto si costituisce in giudizio il resistente, Sig. ..., marito della ricorrente, impugnando il ricorso avversario e contestando la domanda in quanto infondata in fatto e per i seguenti motivi di

DIRITTO

Il comparente e la ricorrente stipularono in effetti la scrittura privata in data ... in cui le si riconosceva la partecipazione agli utili della pizzeria in misura del 49%, ma dopo pochi mesi la Sig.ra ... smise di collaborare all'impresa a causa dei problemi coniugali con il marito, per i quali abbandonò persino la residenza coniugale. Successivamente, e parliamo di ben ... anni dopo, il Sig. ... telefonò alla ricorrente rappresentandole che aveva intenzione di cedere l'attività al Sig. ..., che era interessato all'acquisto ed aveva assistito a tale conversazione telefonica, dal momento che il loro rapporto matrimoniale era in crisi. Lei non oppose rifiuto, né gli chiese di ricevere la c.d. denuntiatio, non mostrando interesse all'ipotesi di riscattare la pizzeria. Solo a seguito di tale contegno della moglie, il comparente procedette alla vendita dell'esercizio commerciale al Sig. ... con scrittura privata del ... (All. 1). Con il contegno assunto durante la telefonata, la Sig.ra ha inteso rinunciare al diritto di prelazione accordatole dall'art. 230, comma 5, c.c. La sua risposta era infatti incompatibile con l'esercizio futuro del diritto di riscatto e ciò ha indotto il comparente a confidare sulla legittimità della vendita al terzo.

***

Alla luce di quanto suddetto, appare evidente l'assoluta legittimità della condotta del resistente, per cui le domande vanno integralmente rigettate.

P.T.M.

Voglia il Tribunale adito,

rigettare tutte le domande della ricorrente;

con vittoria di spese.

In via istruttoria: ci si oppone all'ammissione dei mezzi istruttori articolati exadverso, ivi compresa la CTU.

In via gradata, nella ipotesi di ammissione dei mezzi istruttori articolati da controparte, si chiede l'ammissione dell'interrogatorio formale della ricorrente e del resistente e la prova per testi sui seguenti capitoli di prova con i testi Sigg.ri ....

1) Vero che ...;

2) Vero che ...;

3) Vero che ....

Si deposita:

1. scrittura privata del ....

Luogo e data ...

Firma ...

PROCURA

Delego a rappresentarmi e difendermi nel presente giudizio l'Avv. ..., eleggendo domicilio nello studio dello stesso in ..., via ... e conferendo al medesimo ogni più ampia facoltà di legge.

Per autentica della sottoscrizione

Firma Avv. ...

[1] 1. Si rammenta che con DM del 7 agosto 2023, n. 110 recante “Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l'inserimento delle informazioni nei registri del processo, ai sensi dell'articolo 46 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile” pubblicato in GU Serie Generale n.187 del 11-08-2023 ed entrato in vigore in data 26/08/2023 sono stati indicati dal Ministero della Giustizia i criteri di redazione degli atti processuali delle parti private e dei Giudici. Si precisa nell'art. 3 che l'esposizione deve essere contenuta nel limite massimo di: a) 80.000 caratteri, corrispondenti approssimativamente a 40 pagine nel formato di cui all'art. 6, quanto all'atto di citazione e al ricorso, alla comparsa di risposta e alla memoria difensiva, agli atti di intervento e chiamata di terzi, alle comparse e note conclusionali, nonché agli atti introduttivi dei giudizi di impugnazione; b) 50.000 caratteri, corrispondenti approssimativamente a 26 pagine nel formato di cui all'art. 6, quanto alle memorie, alle repliche e in genere a tutti gli altri atti del giudizio; c) 10.000 caratteri, corrispondenti approssimativamente a 5 pagine nel formato di cui all'art. 6, quanto alle note scritte in sostituzione dell'udienza di cui all'art. 127-ter c.p.c., quando non è necessario svolgere attività difensive possibili soltanto all'udienza. Nel successivo art. 5 si precisa che i suddetti limiti dimensionali possono essere superati se la controversia presenta questioni di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti, ovvero nel caso di proposizione di una domanda riconvenzionale, di una chiamata di terzo, di un atto di integrazione del contraddittorio, di un atto di riassunzione o di un'impugnazione incidentale. Altro importante criterio di redazione degli atti è contenuto nell'art. 6 rubricato “tecniche redazionali” ove si invita l'utilizzo di caratteri di dimensioni di 12 punti; con interlinea di 1,5 e con margini orizzontali e verticali di 2,5 centimetri, con esclusione dell'inserimento di note.

[2] 2. In tutti gli atti introduttivi di un giudizio, compresa l'azione civile in sede penale e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati, le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., in l. n. 111/2011).

[3] 3. Le norme relative all'impresa familiare trovano applicazione con riferimento al coniuge, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo, conseguendone che la prestazione lavorativa eseguita nell'impresa familiare da parenti oltre il terzo grado non rientra nel campo di applicazione della norma ed il suddetto parente dovrà attivare altri strumenti giuridici per tutelare il suo diritto alla retribuzione resa in assenza di contratto (come l'art. 2041 c.c.).

Commento

Premessa

L'impresa familiare è un istituto introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia l. n. 151/1975 con il quale il legislatore valorizza la partecipazione del coniuge e dei famigliari nell'impresa gestita da un loro congiunto, garantendo loro diritti patrimoniali, così superando il principio di presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese in favore di un parente, enucleato dalla giurisprudenza tradizionale.

Natura giuridica dell’impresa familiare

Il legislatore disciplina l'impresa familiare nell'art. 230-bis c.c. ma non ne offre una definizione. La discussione dottrinale e giurisprudenziale sul punto ha portato all'affermazione di due indirizzi contrapposti: l'uno che rinviene nell'impresa familiare una struttura plurisoggettiva; l'altro che sostiene abbia natura individuale. Questa seconda posizione è stata infine avallata dalle S.U. della Cassazione con la sentenza n. 23676/2014 per la quale il complesso dei diritti patrimoniali ed amministrativi è incompatibile con la disciplina normativa che governa i fenomeni societari; infatti il diritto alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, è ricollegato alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa, e non alla quota di partecipazione, come richiederebbe la disciplina societaria. Nessuna norma del diritto societario consente ad un socio di reclamare diritti sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, ivi compreso l'avviamento, quando la società opera regolarmente; in terzo luogo, ancor più confliggente con regole imperative del sottosistema societario appare il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio, tale da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario - integrato con la presenza dei familiari dei soci - nelle decisioni concernenti l'impiego degli utili, degli incrementi, della gestione straordinaria e degli indirizzi produttivi; e finanche la cessazione dell'impresa stessa: disciplina che contrasta con le relative modalità di distribuzione delle responsabilità decisionali all'interno di una società, che le vedono riservate, di volta in volta, agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste (il più delle volte da norme inderogabili), in funzione del tipo societario, ma univoche nell'esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale. Ed ancora, siffatta conclusione appare confortata dalla natura residuale dell'impresa familiare, che ne escluderebbe l'applicazione nel caso in cui sia configurabile tra i familiari un rapporto riconducibile ad uno schema societario (in questo senso, ad es.: Trib. Bergamo, sez. lav., 7 aprile 2020, n. 330). Dall'inciso “salvo che non sia configurabile un diverso rapporto” si ricava il carattere residuale della disposizione, nel senso che il complesso di diritti patrimoniali ed amministrativi previsto dalla norma trova applicazione se il rapporto di lavoro tra familiare ed imprenditore non sia inquadrabile in un altro istituto giuridico, nel qual caso il rapporto sarà regolato secondo la specifica disciplina giuridica per esso prevista (es. rapporto di lavoro subordinato; rapporto societario, anche di fatto, associazione in partecipazione ecc.). I diritti sanciti per i familiari lavoratori nell'art. 230-bis c.c. costituiscono un minimum di tutela inderogabile in peius e derogabile solo in melius. L'inciso “salvo diverso rapporto” deve essere interpretato restrittivamente nel senso che è inibito all'imprenditore di configurare un tipo di rapporto lavorativo con il suo famigliare idoneo ad eludere la disciplina garantista prevista dalla norma, prevedendovi pattiziamente un livello inferiore di diritti (ad es. rapporto di lavoro gratuito); ove ciò dovesse accadere, la clausola sarebbe nulla per violazione di una norma imperativa, e verrebbe sostituita dalla disciplina dell'art. 230-bis c.c. L'impresa familiare è priva di definizione normativa; deve considerarsi, quindi, quale fenomeno giuridicamente rilevante non riconducibile ad uno schema giuridico tipizzato (la cui disciplina, altrimenti, troverebbe applicazione). Non costituisce in altre parole una figura giuridica che si contrappone e distingue dalle tipologie codificate di società, da un lato, e dall'imprenditore individuale (art. 2082 ss. c.c.) dall'altro, ma rileva quale “fatto materiale” rilevante per l'attribuzione di diritti ai familiari dell'imprenditore per il sol fatto che questi prestano stabilmente attività lavorativa in favore del congiunto.

Costituzione

L'impresa familiare non necessita di alcun atto costitutivo; la sua costituzione si perfeziona automaticamente con la prestazione di attività lavorativa nell'impresa da parte di uno o più familiari, fermo restando, naturalmente, che i familiari possono consacrare in una scrittura privata la regolamentazione dei diritti (ad es. la ripartizione degli utili) connessi alla prestazione lavorativa singolarmente prestata.

Un accordo in tal senso, anche se consacrato in una scrittura privata, non ha efficacia costitutiva, ma semplicemente probatoria e semplifica l'onere probatorio per il singolo familiare nel giudizio che dovesse intentare innanzi al Giudice del lavoro nei confronti dell'imprenditore per conseguire gli utili a lui spettanti e che gli sono negati al momento dell'estinzione dell'impresa. L'art. 230-bis, comma 3, c.c. trova applicazione con riferimento al coniuge, ai parenti entro il terzo grado ed affini entro il secondo, conseguendone che la prestazione lavorativa eseguita nell'impresa familiare da parenti oltre il terzo grado non rientra nel campo di applicazione della norma ed il suddetto parente dovrà attivare altri strumenti giuridici per tutelare il suo diritto alla retribuzione resa in assenza di contratto (come l'art. 2041 c.c.).

Prestazione lavorativa

Il presupposto oggettivo consiste nella prestazione di lavoro in modo continuativo all'interno dell'impresa del convivente; quindi la norma non opera in caso di collaborazioni occasionali o saltuarie, ma per la collaborazione duratura che comporti un impegno costante del lavoratore volto a soddisfare un interesse durevole dell'imprenditore (Cass. n. 19925/2014; Cass. n. 20157/2005). Dalla formulazione della norma, non emerge che la prestazione di lavoro debba necessariamente essere svolta a tempo pieno, o con carattere di esclusività e prevalenza, dovendosi soltanto concretizzare in un apporto continuativo all'impresa da parte dei familiari. A tal fine è stato precisato che la continuità dell'apporto richiesto dall'art. 230-bis c.c., per la configurabilità della partecipazione all'impresa familiare non esige la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità dell'apporto (Cass. n. 13849/2002). Per altro verso, la prestazione può esplicarsi in qualunque attività manuale o intellettuale, di natura esecutiva o direttiva, senza però, sconfinare in una cogestione dell'impresa o in un rapporto di lavoro che presenti gli indici tipici della subordinazione, che farebbero sorgere rispettivamente un rapporto di tipo societario o di lavoro subordinato, esclusi dal campo di applicazione della norma. Dal campo di applicazione dell'art. 230-bis c.c., vanno escluse le attività lavorative rese dai familiari del congiunto in altre forme produttive, come ad es. la collaborazione nello studio professionale (commercialista, avvocato). La dimensione dell'impresa può indifferentemente essere piccola, media o grande, e l'oggetto sociale può essere di qualsiasi tipo, ad eccezione delle attività per le quali è prevista una particolare forma societaria (ad es. bancarie e assicurative). L'art. 230-bis c.c., equipara l'attività di lavoro svolta dal coniuge o familiare nella famiglia e quello svolto nell'impresa familiare. Si tratta di una previsione che esalta la nuova considerazione in cui viene tenuta la donna ed il lavoro casalingo nello spirito della riforma del 1975, ma che pone al contempo numerosi dubbi applicativi. Appare convincente l'impostazione secondo cui il diritto alla percezione degli utili dell'impresa del marito operi in favore della moglie casalinga allorquando l'assolvimento del lavoro domestico in via esclusiva e full time della sola moglie consenta l'inserimento a tempo pieno di un altro familiare nell'organizzazione dell'impresa o permetta anche allo stesso imprenditore di dedicarsi totalmente all'esercizio della sua impresa. Se da tali eventi scaturisce un incremento di produttività dell'azienda, anche la moglie deve goderne degli utili, dal momento che l'ha reso possibile sottraendo del tutto il marito o uno dei figli dall'assolvimento di compiti domestici, facendo recuperare tempo da dedicare all'azienda di famiglia. Affinché detta connessione operi, il lavoro casalingo della moglie non deve essere configurato quale adempimento del dovere di contribuzione alla famiglia ex art. 143, comma 3, c.c., ma deve risultare il frutto di un'autonoma scelta, che comporti da un lato la rinuncia preventiva della moglie a ricercare altre possibilità lavorative e, dall'altro, sia finalizzata ad agevolare l'attività nell'impresa di famiglia degli altri componenti del nucleo familiare (cfr. Cass. n. 89/1995).

Diritti patrimoniali

Per quanto concerne il contenuto dei diritti previsti dalla norma, occorre soffermarsi in primo luogo sul diritto al mantenimento che ha per oggetto la somministrazione di quanto necessario a soddisfare le normali esigenze di vita del familiare lavoratore, da intendersi non già nel ristretto senso di mezzi strettamente indispensabili, bensì di mezzi in grado di assicurare un'esistenza libera e dignitosa. Tale diritto, che deve essere prestato secondo le condizioni patrimoniali della famiglia dell'imprenditore fa sì che tutti i lavoratori familiari, anche se non conviventi con il datore e non facenti parte, in senso stretto, della sua famiglia, siano trattati in maniera egualitaria. Il mantenimento si estende alla famiglia dell'avente diritto ed è identico per tutti i familiari ed è proporzionato alla condizione patrimoniale della famiglia e non dell'impresa, indipendentemente dall'entità del rapporto lavorativo. Il mantenimento non ha natura corrispettiva, ma alimentare ed assistenziale ed il suo fondamento si basa sulla solidarietà familiare (cfr. Cass. n. 4057/1992). Infatti il dato letterale attribuisce corrispettività solo alla partecipazione agli utili ed agli incrementi aziendali in proporzione al lavoro prestato, differentemente dal mantenimento che spetta a tutti i familiari in misura paritaria secondo la condizione patrimoniale della famiglia nel suo complesso, e non secondo l'andamento aziendale. Per partecipazione agli utili deve intendersi la differenza di valore del patrimonio aziendale nel momento attuale rispetto ad un momento iniziale. Ancorché la norma non subordini espressamente la partecipazione agli utili al presupposto dell'accertamento dell'incremento della produttività aziendale per effetto dall'apporto procurato dall'attività lavorativa del convivente, la Cassazione ritiene che si tratti di un presupposto necessario la cui prova spetta al famigliare ricorrente. Si ritiene, altresì che non è obbligatoria la distribuzione periodica degli utili al termine di ogni esercizio finanziario ma possa essere differita ad un momento diverso, anche alla cessazione dell'impresa (cfr. Cass. n. 24560/2015). La percezione degli utili spettanti al convivente non ha la consistenza di un diritto reale, nel senso che non configura una situazione di contitolarità tra imprenditore e familiari nel momento della loro produzione, sebbene in tal senso parrebbe deporre il dettato letterale degli artt. 230-bis e ter c.c., laddove parla di “partecipazione agli utili”; assume, diversamente, la consistenza di un diritto di credito nei confronti dell'imprenditore, che opera esclusivamente nei rapporti interni tra i familiari (cfr. Cass. n. 11921/1999). Tale opzione è ritenuta preferibile alla luce delle difficoltà pratiche che scaturiscono dall'altra impostazione e che possono così riassumersi: la contitolarità degli utili comporterebbe l'applicazione della disciplina sulla comproprietà (artt. 1100 ss.) ivi compresa la facoltà per ciascun compartecipe di chiederne lo scioglimento in ogni momento o la cessione della quota a terzi o la liquidazione della quota; si tratta di disposizioni incompatibili coi principi e le regole che governano lo svolgimento di attività di impresa. In secondo luogo occorre rimarcare che il diritto agli utili dei familiari è insuscettibile di una precisa quantificazione dipendendo da un criterio incerto (la proporzione al lavoro prestato) e tra l'altro variabile nel tempo (ogni anno la partecipazione agli utili può variare in misura dell'incremento o della riduzione del lavoro prestato); è necessario, quindi, che la liquidazione della partecipazione agli utili sia posticipata successivamente alla loro produzione, dopo aver valutato la consistenza della qualità e quantità del lavoro prestato in azienda da ogni singolo familiare; e questo modus operandi è strutturalmente incompatibile con la natura di diritto reale degli utili prodotti, che sorgerebbero nel momento stesso in cui si producono. Il credito potrà essere preteso dai familiari al momento della cessazione dell'impresa o di ogni singolo anno finanziario, se non è stato stabilito il reimpiego degli utili. In questo senso, ad es.: Trib. Fermo 10 settembre 2019, n. 149). Oltre che ai beni acquistati, i familiari hanno il diritto di partecipare, sempre in proporzione al lavoro prestato, agli incrementi dell'azienda, che ricomprende qualunque aumento di valore dell'azienda o dei singoli beni aziendali, ed all'avviamento, che rappresenta una qualità dell'azienda, suscettibile di valutazione economica, che consiste nella differenza tra la misura degli utili prodotti dall'impresa prima dell'inizio della collaborazione del familiare e la misura degli utili prodotti successivamente, il cui accertamento dovrà avvenire al momento della estinzione o alienazione dell'impresa o della cessazione della partecipazione del familiare, sorgendo proprio all'esito della suddetta attività di liquidazione il suo diritto di credito. Il diritto di credito previsto dall'art. 230-bis c.c. si prescrive nell'ordinario termine decennale che decorre dal giorno della sua maturazione (Cass. n. 20273/2010 e Cass. n. 16477/2009). Il criterio di determinazione della corresponsione degli utili e degli altri elementi patrimoniali richiamati nella norma è costituito dalla proporzione della quantità e qualità al lavoro prestato. Si tratta di un criterio vago che attribuisce al Giudice del lavoro adito un eccesso di discrezionalità nella commisurazione, che non solo comporta incertezze interpretative ed applicative in ordine ai singoli criteri che saranno utilizzati dal magistrato nella quantificazione, ma soprattutto arreca il rischio di disparità di trattamento da Tribunale a Tribunale per situazioni grossomodo analoghe. Sul punto si è precisato che non può essere utilizzato, come parametro, l'importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività che prescinde dall'entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell'impresa familiare e che, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell'impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all'apporto lavorativo effettivamente prestato (Cass. n. 20574/2008, conforme a Cass. n. 6631/2007 e Cass. n. 1332/1999). In caso di mancanza di accordo sulla ripartizione delle quote, il familiare che agisce in giudizio per vedersi attribuita la partecipazione agli utili spetta al famigliare ricorrente l'onere di provare la consistenza del patrimonio familiare, l'ammontare degli utili da distribuire e l'entità della sua quota di partecipazione in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (Cass. n. 9683/2003Cass. n. 17057/2008; confermata successivamente da Cass. sez. lav., ord. n. 27966/2018).

Il Giudice del lavoro può, in sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti, differenziare la posizione dell'imprenditore, in conseguenza delle maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la sua collaborazione in azienda (Cass. n. 1917/1999).

Diritti sociali

L'art. 230-bis c.c., al comma 1, attribuisce al familiare-lavoratore il diritto di partecipare alle scelte concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi, nonché a quelle inerenti alla gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell'impresa. Detto diritto è riconosciuto a tutti i familiari che collaborano nell'impresa, che dispongono di un voto a testa, a prescindere dalla quantità e qualità dell'apporto lavorativo di ciascuno. I familiari che non hanno capacità di agire sono rappresentati nel voto dal loro rappresentante legale. Non partecipa invece alla decisione (e quindi è privo di diritto di voto) l'imprenditore che la legge configura come destinatario delle decisioni prese dai familiari. Nessuna formalità è richiesta dalla legge per la formazione della volontà di questi ultimi; è da escludere pertanto la necessità di indire un'assemblea (organo che nemmeno sussiste nelle società di persone). Il familiare potrà così esprimere la sua opinione in qualsiasi momento e con qualsiasi modalità, anche tacitamente o per facta concludentia. Diversamente i familiari che lavorano nell'impresa non hanno poteri gestori; la gestione e l'amministrazione dell'impresa spetta unicamente all'imprenditore; in mancanza di forme di pubblicità della partecipazione dei familiari, l'imprenditore è anche l'unico soggetto che può intrattenere rapporti coi terzi, assumendone le relative obbligazioni; ed i rapporti tra lui e i familiari rimarranno confinati nella sfera dei rapporti interni, non spiegando alcuna efficacia all'esterno. Nel caso in cui l'imprenditore disattenda la decisione assunta a maggioranza di ripartire gli utili prodotti dall'impresa, destinandoli con decisione unilaterale all'acquisto di beni per l'incremento aziendale, gli acquisti sono fatti salvi, non potendo i familiari opporre ai terzi la deliberazione contraria assunta a maggioranza, perché essa ha un'efficacia meramente interna; potranno però agire contro l'imprenditore per il risarcimento dei danni scaturiti dalla violazione del deliberato maggioritario. Tale discorso vale anche per la più importante e incisiva decisione collettiva, ossia la cessazione dell'impresa; anche se essa viene adottata dalla maggioranza dei familiari contro il voto contrario dell'imprenditore, tale deliberazione non obbliga l'imprenditore a chiudere l'azienda; né, di converso, il voto dei familiari di mantenimento dell'impresa potrà obbligare il titolare a continuarla contro la sua volontà, se ritiene che l'impegno, di cui lui è unico responsabile, sia divenuto troppo gravoso. Anche in tal caso l'inottemperanza alla deliberazione assunta a maggioranza lo esporrà alla richiesta dei familiari di risarcimento dei danni che ne saranno conseguiti (Cass. n. 1917/1999 e Cass. n. 10412/1995). Le uniche norme giuridiche in cui la partecipazione dei familiari all'impresa individuale di un loro congiunto rileva anche nei rapporti esterni sono le seguenti. Il comma 4 dell'art. 5, d.P.R. n. 917/1986, dispone: «I redditi delle imprese familiari di cui all'art. 230-bis c.c., limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La presente disposizione si applica a condizione: a) che i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo d'imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa in modo continuativo e prevalente, nel periodo d'imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente”. Alle disposizioni citate si aggiungono le norme sull'assicurazione previdenziale degli artigiani (l. n. 463/1959) o degli esercenti attività commerciali (l. n. 613/1966) che prevedono l'applicazione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti rispettivamente degli artigiani o degli esercenti attività commerciali anche al coniuge, ai familiari, nonché, in seguito all'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 485/1992) agli affini entro il secondo grado.

Scioglimento del rapporto

Lo scioglimento del rapporto col singolo partecipante potrà derivare dalla morte del titolare, del lavoratore, per impossibilità definitiva di prestare il lavoro per motivi di età, salute, invalidità ecc. (un'impossibilità solo momentanea, anche se prolungata, avrebbe solo la conseguenza di incidere sulla partecipazione all'impresa, diminuendo la quantità del lavoro prestato), nonché dalla perdita della qualità di familiare. Quando si estingue la singola partecipazione, il familiare ha diritto alla liquidazione della quota di utili e di incrementi dell'azienda, commisurati alla qualità e quantità del lavoro prestato. La prestazione di lavoro può poi estinguersi per recesso del lavoratore o dell'imprenditore. Si ritiene che il familiare lavoratore possa decidere di abbandonare il lavoro senza onere di preavviso (ed anzi con un diritto al risarcimento quando il recesso sia giustificato dalla condotta dell'imprenditore) e che ben può configurarsi il recesso tacito (quando l'interessato trovi un'altra attività lavorativa incompatibile con la precedente); di contro, il recesso dell'imprenditore sarebbe lecito solo in presenza di giusta causa (che può consistere anche nel solo interesse della famiglia o dell'impresa familiare). In ogni caso la mancanza di giusta causa non rende inefficace il recesso, né può avere come conseguenza il mantenimento coatto del rapporto; l'unico effetto è l'obbligo di risarcire il danno cagionato al lavoratore. La valutazione della partecipazione va fatta al momento della cessazione dell'impresa o del singolo rapporto. Può poi procedersi alla liquidazione della partecipazione, malgrado il familiare continui ad esercitare il proprio lavoro nell'impresa anche quando l'azienda sia alienata da un imprenditore ad un altro familiare, piuttosto che ad un terzo estraneo.

Prelazione

L'art. 230-bis, comma 5, c.c., concede ai familiari-lavoratori la prelazione legale sull'azienda in caso di suo trasferimento o di divisione ereditaria, in tal modo tutelando il loro interesse alla prosecuzione dell'attività in ambito familiare. D'altra parte, la prelazione comporta un minimo sacrificio per l'imprenditore: questi infatti rimane libero di disporre della sua azienda alienandola al prezzo che vorrà, con il solo limite di preferire i familiari a parità di condizioni offerte da terzi. Come si è anticipato, titolari del diritto di prelazione sono tutti i familiari-lavoratori, a prescindere dalla quantità e dalla qualità del lavoro prestato; l'esercizio potrà essere congiunto, ovvero disgiunto, quando solo alcuni vi abbiano interesse. Oggetto della prelazione è l'azienda nel suo complesso; ne consegue che la prelazione non opera, ove il trasferimento abbia ad oggetto singoli cespiti, salvo che l'importanza del bene sia tale da identificarlo praticamente con l'azienda (si fa l'esempio del fondo nel caso di impresa agricola). È ammissibile la prelazione su un ramo dell'azienda, stante l'idoneità dello stesso allo svolgimento dell'attività. La disciplina del diritto di prelazione è mutuata dall'art. 732 c.c., cui l'art. 230-bis c.c., fa espresso richiamo; ne consegue che l'imprenditore che intende alienare l'azienda deve notificare ai familiari-lavoratori la proposta di alienazione, indicandone il prezzo. Per quanto concerne il limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell'art. 230-bis c.c., lo si fa coincidere, in virtù del rinvio all'art. 732 c.c., con il momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l'impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto (Cass. sez. lav., n. 17639/2016; principio confermato successivamente in Ordinanza n. 14692/2021). Una volta accertata la partecipazione all'attività, occorre che si concretizzi il trasferimento d'azienda affinché il familiare partecipe possa essere messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto di prelazione (Cass. n. 10147/2017).

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