Ricorso del convivente di fatto per il riconoscimento degli utili dell'impresa familiare (art. 230-ter c.c.)

Gustavo Danise
Aggiornato da Francesco Bartolini

Inquadramento

L'art. 230-ter c.c. introdotto dalla l. n. 76/2016 assicura una tutela minimale ed inderogabile al partner che conviva stabilmente con l'imprenditore che collabori all'impresa prestandovi in modo continuativo attività lavorativa. Gli attribuisce, in particolare, il diritto di partecipare alla ripartizione degli utili, ai beni acquistati con essi, agli incrementi dell'azienda e all'avviamento. Questo livello di tutela è inderogabile pattiziamente.

Formula

TRIBUNALE CIVILE DI .... 1 SEZIONE LAVORO

RICORSO EX ART. 414 C.P.C. 2 IN RELAZIONE ALL'ART. 230-TER C.C.

Per la Sig. .... nato a .... il ...., C.F. .... residente in ...., alla via .... n. .... 3, ed elettivamente domiciliata in .... via .... n. .... presso lo studio dell'Avv. .... (C.F. …., PEC ….) sito in .... dal quale è rappresentato e difeso come da procura in calce al presente atto.

- ricorrente -

CONTRO

Sig. .... nato a .... il ...., C.F. .... residente in ...., alla via .... n. ....;

- resistente -

FATTO

– La ricorrente è stata convivente more uxorio del Sig. .... dal 20 .... al 20 .... coabitando con lui presso l'appartamento sito in .... via .... n. .... di proprietà esclusiva del compagno;

– A seguito di una serie di incomprensioni personali, la convivenza è cessata e la Sig.ra .... ha lasciato l'appartamento ove coabitava con il partner;

– Durante gli anni di convivenza la Sig.ra ha collaborato in modo continuativo e prevalente all'impresa individuale del marito che opera nel settore del .... con sede in .... via .... n. .... denominata ....;

– Con scrittura privata del .... il Sig. .... titolare del predetto esercizio commerciale, riconosceva alla compagna il 33% degli utili annui prodotti

DIRITTO

La collaborazione continuativa nell'attività commerciale del compagno dà diritto alla ricorrente alla partecipazione degli utili proporzionata alla quantità del lavoro prestato ai sensi dell'art. 230-ter c.c. Dai fatti sopra descritti si evince la sussistenza dei presupposti per l'accoglimento della domanda, ivi compresa la residualità della disposizione, non essendo configurabile tra le parti un rapporto societario di fatto o un rapporto che presentasse i profili della subordinazione.

Più in particolare, la ricorrente non rispettava un orario predeterminato, né era assoggettata al potere direttivo o disciplinare del titolare; né svolgeva mansioni specifiche e dettagliate. Ella era un alter ego dell'ex compagno; lo sostituiva quando era necessario anche nei rapporti con i terzi, ma sempre in suo nome e per suo conto; assumeva decisioni relative alla gestione della ....; lo coadiuvava nella contabilità e nella gestione della cassa con un elevato grado di autonomia, pari quasi a quello del titolare.

Non si è trattato altresì di un fenomeno societario, neppure di fatto, perché soltanto il compagno aveva investito somme di denaro per il funzionamento dell'attività; solo lui concludeva accordi coi terzi, assumendo le obbligazioni e riscuotendo i crediti.

La prova inconfutabile della partecipazione della sig.ra all'impresa individuale dell'ex compagno è costituita dalla scrittura privata del .... in cui il titolare, Sig. .... le riconosce il diritto di partecipazione agli utili in misura del 33%.

La domanda è pertanto fondata e merita accoglimento.

***

TUTTO QUANTO SOPRA PREMESSO E CONSIDERATO

tanto in fatto quanto in diritto, la Sig.ra ....

RICORRE

All'intestato Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, affinché, fissata l'udienza di discussione a norma dell'art. 415, comma 2, c.p.c., voglia accogliere le seguenti conclusioni:

Riconoscere ed accertare la sussistenza di un'impresa famigliare tra lei ed il Sig. ....;

Riconoscere a favore della ricorrente una partecipazione agli utili dell'impresa familiare, nel periodo in cui è perdurata la collaborazione, pari al 33%, agli acquisti ed incrementi aziendali, nonché all'avviamento.

Con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente procedimento. Salvo ogni altro diritto.

IN VIA ISTRUTTORIA 4

Si producono i seguenti documenti

.....

Si richiede l'esame testimoniale delle seguenti persone informate sui fatti per cui è causa 5 :

.....

L'esame verterà sui seguenti capitoli 6 :

....

(elencare i capitoli dell'esame testimoniale, eventualmente richiamandosi ai punti in cui è articolata la parte narrativa, premessa la locuzione “Vero che .... ”).

Si chiede sin d'ora l'espletamento di una CTU contabile che accerti gli utili prodotti negli anni da .... a .... e quantifichi l'avviamento aziendale.

Il sottoscritto Avv. .... ai sensi dell'art. 9 comma 1-bis del d.P.R. n. 115/2002 dichiara che il contributo unificato è dovuto in misura della metà, trattandosi di controversia di lavoro, delle cause di valore indeterminabile ed è pari ad Euro 259,00.

Luogo e data ....

Firma Avv. ....

PROCURA

Delego a rappresentarmi e difendermi nel presente giudizio l'Avv. ...., eleggendo domicilio nello studio dello stesso in ...., via .... e conferendo al medesimo ogni più ampia facoltà di legge.

Per autentica della sottoscrizione ....

Firma Avv. ....

[1] [1]La domanda si incardina con ricorso innanzi al giudice del lavoro competente secondo uno dei criteri dettati nell'art. 413, comma 2, c.c.

[2] [2]In base all'art. 2 del d.m. 7 agosto 2023, n. 110 “Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l'inserimento delle informazioni nei registri del processo, ai sensi dell'articolo 46 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile”, al fine di assicurare la chiarezza e la sinteticità degli atti processuali in conformità a quanto prescritto dall'art. 121 c.p.c., i ricorsi sono redatti con la seguente articolazione: a) intestazione, contenente l'indicazione dell'ufficio giudiziario davanti al quale la domanda è proposta e della tipologia di atto; b) parti, comprensive di tutte le indicazioni richieste dalla legge; c) parole chiave, nel numero massimo di venti, che individuano l'oggetto del giudizio; d) nelle impugnazioni, estremi del provvedimento impugnato con l'indicazione dell'autorità giudiziaria che lo ha emesso, la data della pubblicazione e dell'eventuale notifica; e) esposizione distinta e specifica, in parti dell'atto separate e rubricate, dei fatti e dei motivi in diritto, nonché, quanto alle impugnazioni, individuazione dei capi della decisione impugnati ed esposizione dei motivi; f) nella parte in fatto, puntuale riferimento ai documenti offerti in comunicazione, indicati in ordine numerico progressivo e denominati in modo corrispondente al loro contenuto, preferibilmente consultabili con apposito collegamento ipertestuale; g) con riguardo ai motivi di diritto, esposizione delle eventuali questioni pregiudiziali e preliminari e di quelle di merito, con indicazione delle norme di legge e dei precedenti giurisprudenziali che si assumono rilevanti; h) conclusioni, con indicazione distinta di ciascuna questione pregiudiziale, preliminare e di merito e delle eventuali subordinate; i) indicazione specifica dei mezzi di prova e indice dei documenti prodotti, con la stessa numerazione e denominazione contenute nel corpo dell'atto, preferibilmente consultabili con collegamento ipertestuale; l) valore della controversia; m) richiesta di distrazione delle spese; n) indicazione del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. L'art. 3 lett. a) precisa che il ricorso deve avere un'estensione massima di 80.000 caratteri, salvi gli elementi esclusi dall'art. 4, e ferma restando (ex art. 5) la possibilità di superare detti limiti se la controversia presenta questioni di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti, ipotesi nella quale il difensore espone sinteticamente nell'atto le ragioni per le quali si è reso necessario il superamento dei limiti. Il richiamato Regolamento non trova applicazione, rispetto ai limiti dimensionali degli atti, nelle controversie di valore superiore a 500.000 euro.

[3] [3]In tutti gli atti introduttivi di un giudizio, compresa l'azione civile in sede penale e in tutti gli atti di prima difesa devono essere indicati, le generalità complete della parte, la residenza o sede, il domicilio eletto presso il difensore ed il C.F., oltre che della parte, anche dei rappresentanti in giudizio (art. 23, comma 50, d.l. n. 98/2011, conv., con modif., in l. n. 111/2011).

[4] [4]Trovando applicazione il rito del lavoro, vi è un onere di completezza degli atti introduttivi anche con riferimento alle richieste istruttorie, che devono essere formulate, a pena di decadenza, con gli stessi.

[5] [5]Indicare le generalità e la residenza o domicilio delle persone in grado di rendere testimonianza per i fatti di causa.

[6] [6]Occorre elencare i capitoli dell'esame testimoniale, eventualmente richiamandosi ai punti in cui è articolata la parte narrativa, premessa la locuzione “Vero che .... ”.

Commento

Introduzione

La diffusione del fenomeno della convivenza di fatto richiedeva una regolamentazione giuridicamente efficace, sia per quanto concerne gli aspetti dei rapporti personali sia di quelli patrimoniali, ivi compreso il riconoscimento di diritti in favore del convivente more uxorio che presti attività lavorativa nell'interesse e nell'impresa del compagno. L'esigenza di un intervento normativo in tal senso fu avvertita dal legislatore già nel 2007, allorché venne resa oggetto di un disegno di legge rimasto senza esito; ma l'intento di accordare un riconoscimento giuridico ai conviventi more uxorio ha poi trovato attuazione con la l. n. 76/2016, sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”. Questo provvedimento ha introdotto una disciplina duplice. Con la disposizione dettata dall’art. 1, comma 46, ha introdotto nel codice civile l'art. 230-ter, che recita “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.

Con lo stesso art. 1, comma 13, ha esteso la disciplina dell’impresa familiare alle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Infine, la Corte costituzionale (25 luglio 2024, n. 148) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, comma 3, nella parte in cui non prevede come familiare anche il “convivente di fatto” e come impresa familiare quella cui collabora anche il “convivente di fatto” e, in via conseguenziale, l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter c.c. che riconosce al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta. La tutela del lavoro rappresenta un mezzo essenziale per garantire la dignità di ciascun individuo, sia come singolo che come parte integrante della società, in particolare della famiglia: per questo motivo è irragionevole l’esclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.

Presupposti oggettivi e soggettivi

I diritti di partecipazione agli utili sorgono per il convivente in presenza di due presupposti costitutivi, uno soggettivo e l'altro oggettivo. Il primo consiste nella sussistenza di un rapporto di convivenza more uxorio tra il prestatore di lavoro e l'imprenditore. La definizione di “convivenza di fatto” è contenuta nel comma 36 dell'art. 1, l. n. 76/2016, che recita: “si intendono per conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile” come integrata dal successivo comma 37, secondo cui “per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica prevista dall'art. 4 d.P.R. n. 223/1989”. Tale dichiarazione ha natura probatoria e non costitutiva. Ne consegue che i diritti dell'art. 230-ter c.c. spettano al convivente di fatto che collabori nell'impresa familiare per il sol fatto di aver instaurato una convivenza stabile e duratura con l'imprenditore, la cui prova sarà agevolata, in un eventuale giudizio, dalla esibizione della dichiarazione anagrafica di cui all'art. 4 d.P.R. n. 223/1989, che ha appunto efficacia solo probatoria; ma, ove difetti tale dichiarazione, il convivente potrà provare anche in altro modo (con prova testimoniale), la stabilità del rapporto di vita comune. Il secondo presupposto costitutivo consiste nella prestazione stabile di lavoro all'interno dell'impresa del convivente, definizione sostanzialmente analoga alla formulazione dell'art. 230-bis c.c. La locuzione “stabilmente” richiede che la collaborazione non sia occasionale o saltuaria, ma deve perdurare nel tempo e comportare un impegno costante del lavoratore volto a soddisfare un interesse durevole del destinatario. Dalla definizione non emerge che la prestazione di lavoro debba necessariamente essere svolta a tempo pieno, o con carattere di esclusività e prevalenza, dovendosi soltanto concretizzare in un apporto continuativo all'impresa del convivente. La prestazione può esplicarsi in qualunque attività manuale o intellettuale, di natura esecutiva o direttiva, senza però sconfinare in una cogestione dell'impresa, che farebbe sorgere un rapporto di tipo societario, escluso dal campo di applicazione dell'art. 230-ter c.c. In particolare, stante il carattere residuale della disposizione, l'apporto collaborativo del convivente può consistere solo in prestazioni inquadrabili in un rapporto di lavoro autonomo; la disciplina dell'art. 230-ter c.c. sarebbe, infatti, incompatibile con prestazioni che presentino indici di subordinazione (in relazione alle quali il convivente che ne pretende il compenso deve agire in giudizio dimostrando la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con il convivente imprenditore, sebbene non contrattualizzato, al fine di conseguirne il diritto alla retribuzione secondo la disciplina giuridica specificamente applicabile al tipo di rapporto), mutuando la stessa conclusione emersa in seno all'analogo dibattito che si è aperto sulla questione con riferimento all'art. 230-bis c.c. Tale conclusione è giustificata dal dettato letterale della norma, con particolare riferimento alla tipologia di diritti patrimoniali spettanti al convivente, che consistono nella “partecipazione agli utili dell'impresa familiare; ai beni acquistati con essi; agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento”. Si tratta di diritti patrimoniali incompatibili con quelli che scaturiscono da un rapporto lavorativo di tipo subordinato, come la retribuzione, l'accantonamento del TFR, la tredicesima mensilità, ecc. Per l'effetto, l'art. 230-ter c.c. deve ritenersi inapplicabile anche alle prestazioni riconducibili ad un rapporto di lavoro coordinato e continuativo, attesa l'equiparazione di disciplina tra le due figure prevista dal d.lgs. n. 81/2015. La dottrina offre un'interpretazione restrittiva del concetto di “impresa”, escludendo l'applicazione dell'art. 230-ter c.c. alle attività lavorative del convivente prestate in altre forme produttive, come ad es. la collaborazione nello studio professionale del convivente (commercialista, avvocato), analogamente a quanto avviene per l'art. 230-bis c.c. Anche in tal caso la conclusione è fondata sul dato letterale, in quanto l'art. 230-ter c.c. richiede necessariamente l'esistenza di un'impresa tipica, se si deve dare un senso ai concetti di partecipazione agli utili, ai beni e agli incrementi dell'azienda, all'avviamento. Ciò chiarito, la dimensione dell'impresa può indifferentemente essere piccola, media o grande, e l'oggetto sociale può essere di qualsiasi tipo, ad eccezione delle attività per le quali è prevista una particolare forma societaria (ad es. bancarie e assicurative). L'art. 230-ter c.c. è applicabile esclusivamente in ipotesi di partecipazione ad imprese individuali.

Contenuto dei diritti patrimoniali

Venendo ora al contenuto dei diritti patrimoniali attribuiti dalla norma in commento, occorre soffermarsi in primo luogo sulla partecipazione agli utili, per tali intendendosi le differenze di valore del patrimonio aziendale nel momento attuale rispetto ad un momento iniziale. Ancorché la norma non subordini espressamente la partecipazione agli utili al presupposto dell'accertamento dell'incremento della produttività aziendale per effetto dall'apporto procurato dall'attività lavorativa del convivente, la Cassazione ha ritenuto, in sede di interpretazione dell'art. 230-bis c.c., che si tratti di un presupposto necessario la cui prova spetta al famigliare ricorrente. Il criterio di determinazione della corresponsione degli utili e degli altri elementi patrimoniali richiamati nella norma è costituito dalla commisurazione del lavoro prestato. Si tratta del vero nodo gordiano della formulazione, in quanto il legislatore offre solo un criterio vago ed indeterminato, un principio astratto privo di indicazioni e parametri per la liquidazione concreta (analoghi problemi ha suscitato anche la formulazione dell'art. 230-bis c.c.). Naturalmente, il primo criterio di liquidazione degli utili è l'accordo delle parti (ad es. l'imprenditore riconosce al suo convivente il 33% degli utili prodotti dall'impresa ogni anno, come nel caso ipotizzato nella formula). Il problema della quantificazione degli utili si pone, pertanto, in ipotesi di mancato accordo tra i conviventi e di azione in sede giudiziale. Spetta, in questo caso, al giudice del Lavoro il compito di interpretare ed arricchire di contenuti concreti il criterio astratto della commisurazione del lavoro prestato. Naturalmente tale parametro richiede che la quantificazione debba essere fondata sulla valutazione della quantità e qualità del lavoro prestato in azienda, e debba rispettare il principio di proporzionalità; e naturalmente spetta al convivente di fatto ricorrente provare in giudizio non solo l'apporto lavorativo prestato ma anche l'esistenza di utili conseguiti dall'impresa o di beni acquistati con tali utili o di incrementi conseguiti dall'azienda, anche grazie al proprio apporto lavorativo (App. Roma 9 novembre 2018). La difficoltà pratica posta dalla formulazione della norma consiste nell'attribuzione di un eccesso di discrezionalità al giudicante, che non solo comporta incertezze interpretative ed applicative in ordine ai singoli criteri che saranno utilizzati dal magistrato nella quantificazione, ma soprattutto arreca il rischio di disparità di trattamento da Tribunale a Tribunale per situazioni grossomodo analoghe. Altra questione interpretativa di notevole importanza, sorta già nel dibattito relativo all'art. 230-bis c.c., attiene alla natura giuridica del diritto alla percezione degli utili spettanti al convivente. Si contendono il campo due diverse ipotesi ricostruttive: secondo la prima tale diritto avrebbe la consistenza di un diritto reale, nel senso che si creerebbe una situazione di contitolarità tra imprenditore, familiari e conviventi nel momento della loro produzione. L'altra ipotesi lo configura come un diritto di credito nei confronti del convivente imprenditore. Tale opzione è nettamente preferibile alla luce delle difficoltà pratiche che scaturiscono dall'altra e che possono così riassumersi: la contitolarità degli utili comporterebbe l'applicazione della disciplina sulla comproprietà (artt. 1100 ss.) ivi compresa la facoltà per ciascun compartecipe di chiederne lo scioglimento in ogni momento o la cessione della quota a terzi o la liquidazione della quota; si tratta di disposizioni incompatibili con i principi e le regole che governano lo svolgimento di attività di impresa; in secondo luogo, la mancata previsione di forme pubblicitarie attestanti la collaborazione del convivente nell'impresa comporterebbe un'intollerabile situazione di incertezza nei rapporti coi terzi, soprattutto in caso di acquisti compiuti dall'imprenditore con i proventi e gli utili aziendali; infatti, dal momento che il convivente non può partecipare alle decisioni sull'utilizzo degli utili, appare difficile sostenere che l'imprenditore agisca anche come suo mandatario senza rappresentanza; ed infine occorre rimarcare che il diritto agli utili del convivente è insuscettibile di una precisa quantificazione dipendendo da un criterio incerto (la commisurazione al lavoro prestato) e tra l'altro variabile nel tempo (ogni anno la partecipazione agli utili può variare in misura dell'incremento o della riduzione del lavoro prestato); è necessario, quindi, che la liquidazione della partecipazione agli utili sia posticipata successivamente alla loro produzione, dopo aver valutato la consistenza della qualità e quantità del lavoro prestato in azienda dal convivente; e questa necessità è strutturalmente incompatibile con la natura di diritto reale degli utili prodotti che sorgerebbe nel momento stesso in cui gli utili sono prodotti. Preferibile, quindi, è l'impostazione che configura il diritto agli utili come un diritto di credito, che opera esclusivamente nei rapporti interni tra i due conviventi come precisato dalle Cass. S.U., n. 23676/2014 cui si è conformata Cass. V, ord. n. 34222/2019. Il credito potrà essere preteso dal convivente al momento della cessazione dell'impresa o di ogni singolo anno finanziario, se non è stato stabilito il reimpiego degli utili. Oltre che ai beni acquistati, il convivente lavoratore ha il diritto di partecipare, sempre in considerazione del lavoro prestato, agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento. L'espressione “incrementi” deve essere intesa in senso ampio, ricomprendendovi qualunque aumento di valore dell'azienda o dei singoli beni aziendali. Per quanto concerne l'avviamento, esso consiste nel maggior valore attribuibile all'impresa rispetto alla somma dei valori di mercato dei beni che lo compongono e che è costituito da un insieme di elementi immateriali che contribuiscono a rendere apprezzabile la sua presenza sul mercato. La sua determinazione di termini pecuniari dovrà avvenire al momento della estinzione o alienazione dell'impresa o della cessazione della partecipazione del convivente, sorgendo proprio all'esito della suddetta attività di liquidazione il diritto di credito del convivente.

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