L'inadeguatezza delle attuali azioni collettive e di classe nell'ambito della irreversibile crisi della giurisdizione civile
Bruno Spagna Musso
22 Settembre 2025
Il nostro sistema processuale civilistico, nonostante i continui e recenti interventi legislativi, non risulta “soddisfacente” in relazione alla sempre più pressante esigenza di rendere azionabile in giudizio posizioni sostanziali plurime, riguardante cioè più soggetti contemporaneamente; da un lato, infatti, è ormai acquisito alla nostra cultura dottrinaria e giurisprudenziale il dato sociale, anche riguardo alla tradizionale nozione di diritto soggettivo, come evidenziato dal sempre più accentuato rilievo dei diritti fondamentali (definiti anche sociali o collettivi, tra cui ad esempio il diritto alla salute ed il diritto al lavoro equamente retribuito) della persona, ma, dall'altro, ancora da mettere a punto è la tutela giurisdizionale a fronte dei cd. mass torts, vale a dire di condotte illecite (contrattuali o extra-contrattuali) plurioffensive (lesive di più soggetti).
Con riferimento a quest'ultimo aspetto, la soluzione adottata dal nostro legislatore (sulla base del modello europeo cd. Verbandsklage) è quella che possiamo definire della “collettivizzazione” degli interessi diffusi, vale a dire della costituzione in giudizio di una pluralità di soggetti mediante un ente esponenziale e rappresentativo degli stessi, preindividuato dal legislatore; palesi esempi normativi “storici” sono, in proposito, l'art. 18 della l.n. 349/86, che, in tema di tutela ambientale, prevedeva la costituzione in giudizio, nelle forme dell'intervento ad adiuvandum, di determinati enti (quali portatori degli interessi della collettività al corretto sviluppo del territorio), gli artt. 37 e 136 del Codice del Consumo nella formulazione precedente all'attuale e l'abrogato art. 3 della legge n. 281/98, avente ad oggetto l'originaria disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti: norme tutte che riconoscevano, per la tutela di interessi iperindividuali in materia di ambiente e consumo, la relativa legittimazione ad agire ad enti esponenziali (inserite nell'elenco di cui all'art. 5 a tutela degli interessi collettivi).
Il modello statunitense (disatteso) della c.d. class action
Sarebbe, però, auspicabile un tipo di azione collettiva non solo ispirata ma “modellata” sulla class action statunitense, vale a dire un'azione, accessibile a tutti e con costi minimi, iniziata da un soggetto che chiede al Tribunale di essere autorizzato ad agire per sé e per gli altri che si trovano nella medesima situazione; si tratta quindi di uno strumento funzionale all'interesse di quanti, avendo subito un identico danno, possano avvalersi dell'attività processuale condotta da un soggetto (named representative) anche nel loro interesse.
Attualmente siamo molto “lontani” da detto modello statunitense, di ampia diffusione.
Del resto, risulta lampante il ritardo da parte del nostro legislatore, sia nel prevedere, sia nel dare concreta attuazione, ad un facile accesso del gruppo alla sede giurisdizionale: basti pensare che il nucleo storico-normativo della class action, a parte alcune modifiche da parte degli Stati federali, è la Rule23 della Federal Rules of Civil Procedure, datata 1938.
Appare evidente che negli Stati Uniti il sistema della class action, riguardanti ampie categorie di soggetti, più correttamente individuabili nella nozione giuridica di status, risulta maggiormente immediato e diretto in quanto non richiede il tramite di un ente esponenziale bensì un unico soggetto che, agendo in giudizio senza esplicito conferimento di un potere in tal senso da parte di altri, estende comunque la conseguente tutela giurisdizionale anche a questi ultimi.
Già questi soli tratti caratterizzanti evidenziano ben lungi dalla complessa e farraginosa procedura italiana, la facile “praticabilità” del modello statunitense.
Il modello di azione di classe statunitense, infatti, a differenza di quelli entrati in vigore in Italia, risulta più efficace ai fini della tutela risarcitoria di una pluralità di soggetti (costituenti appunto una classe) per i torti subiti generalmente da imprese, in plurime fasi che lo contraddistinguono:
- presentazione del ricorso (filing of the complaint), in genere contro un'azienda o un'organizzazione;
- veloce accertamento dei requisiti dell'azione (class certification);
- notifica agli altri soggetti della class action (notice to class members);
- tentativo di accordo stragiudiziale, approvato dal giudice (settlement);
- vera e propria fase procedimentale, a seguito della quale il giudice decide sulla responsabilità del convenuto e sull'entità del risarcimento plurimo da corrispondere ai singoli soggetti (trial).
Da tener presente che nella fase iniziale, se vi sono più soggetti che intendono rappresentare la classe, è la Corte competente a selezionare “il più idoneo”, in virtù di determinati criteri, e comunque chi agisce entro venti giorni dal deposito dei relativi atti (c.d. complaint) ha l'onere di render nota (attraverso ad esempio l'annuncio sui giornali maggiormente diffusi) la richiesta di certification e di nomina a rappresentante degli altri componenti la classe; l'attivazione, poi, di detta certification, caratterizzata da una particolare attività di notifica svolta dalla Corte per informare tutti i potenziali componenti della classe dell'inizio di un'azione collettiva, determina alcuni rilevanti effetti procedurali, tra cui la sospensione dei termini di prescrizione e, soprattutto, l'automatica estensione degli effetti della sentenza a tutti i soggetti che rientrano nella classe, tranne la facoltà di esercizio del c.d. opt-out, che impedisce il formarsi del giudicato nei loro confronti.
Macroscopica a tal punto è la rilevante ed essenziale differenza in base alla quale, mentre nell'azione di classe italiana è il soggetto componente la classe a doversi rendere partecipe per far sì che gli effetti della sentenza si realizzino anche nei suoi confronti (mediante la c.d. adesione – opt in), negli Stati Uniti avviene esattamente l'opposto, in quanto il danneggiato, nell'ambito della classe, si avvarrà “automaticamente” degli effetti della sentenza, salva la possibilità di esercitare appunto il c.d. opt-out (cioè la richiesta di essere escluso dal giudicato).
La vigente disciplina nel nostro ordinamento delle c.d. azioni collettive e di classe – sistema “binario” e relative criticità
I recenti interventi legislativi, caratterizzanti l'attuale sistema disciplinare delle azioni iperindividuali, in particolare, il D.Lgs. 28/2023 (integrativo del d.lgs. 206 del 2005, introduttivo del Codice del Consumo e in a ttuazione della direttiva UE 2020/1828 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2020, relativa alle azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e che abroga la direttiva 2009/22/CE, ulteriormente aggiornata dalla legge n. 15/2025) e la legge n. 31/2019 (disciplinante la c.d. azione di classe nei confronti di imprese e di gestori di servizi pubblici e di pubblica utilità, sostitutiva del vecchio testo c.d. "Riforma Brunetta", di cui al decreto legislativo n. 150 del 2009) che hanno dato luogo, rispettivamente, alla disciplina di cui agli artt. da 140-tera 140-quaterdecies del Codice del Consumo nella sua attuale ed ultima formulazioneed alla disciplina degli artt. 840 bis e ss. del codice di procedura civile in tema di c.d. “Procedimenti collettivi”, risultano mal coordinati, disorganici e frutto di una politica legislativa da sempre scarsamente propensa ad estendere nel diritto processuale civile, ancora oggi in gran parte improntato ancora alla visione individualistica dello Stato liberale (di cui allo Statuto Albertino del Regno d'Italia entrato in vigore nel 1848 sino alla vigente Carta fondamentale), il dato solidaristico delle formazioni sociali e dei gruppi della Costituzione repubblicana.
L'azione civile, pertanto, quale originariamente disciplinata dal nucleo storico del Codice di procedura civile, datato 1940 e quindi antecedente alla nostra Costituzione, resta ancora oggi ancorata alla “cultura” della tutela del singolo individuo quale portatore di un autonomo diritto soggettivo e non, in virtù di una mai sufficiente attuazione dei principi costituzionali vigenti, alla tutela di interessi plurimi.
In sostanza, è sempre stata politicamente considerato con diffidenza l'accesso del gruppo anziché di un solo soggetto alle forme di tutela risarcitorie ed inibitorie nell'ambito del processo civile.
Ciò in quanto dare, in modo sollecito, immediato ed “aperto”, protezione ad una molteplicità di interessi lesi da condotte illecite plurioffensive a scapito di soggetti c.d. forti quali imprese, enti pubblici e anche Stato-apparato, avrebbe significato consentire, nella sperequata bilancia della attuale giustizia, una equiparazione mal tollerata e sempre ostacolata di tutele, in sede di decisioni politico-legislative, tra interessi della collettività e “potere” nelle sue varie ramificazioni ed estrinsecazioni.
Le c.d. azioni collettive non sono, quindi, regolate nel nostro ordinamento da una disciplina omogenea ed unitaria: già di per sé questa ingiustificabile “biforcazione” risulta limitativa di una tutela effettiva di interessi plurimi, quale categoria a sé stante rispetto a quelli di stampo prettamente individualistico, a parte, poi, gli innumerevoli “ostacoli” e le criticabili limitazioni nell'ambito delle singole discipline.
Infatti, in particolare:
1 ) nelle azioni a tutela degli interessi collettivi dei consumatori ex art. 140 ter e ss. Codice del Consumo:
a) legittimati attivi sono le associazioni di cui agli artt. 140 quater e quinques;
b) l'oggetto di tutela riguarda esclusivamente gli interessi c.d. collettivi dei consumatori da intendersi riconosciuti soltanto alle “persone fisiche” che agiscono per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale e artigianale o professionale eventualmente svolta;
c) le tipologie di azioni sono essenzialmente due: una finalizzata ad un provvedimento di tipo inibitorio ex art. 140 octies (vale a dire per far cessare una condotta omissiva o commissiva o per inibire la reiterazione di una condotta); l'altra tendente ad un provvedimento che con una nuova terminologia viene definito compensativo ex art. 140 novies (rivolta cioè rimediare al pregiudizio subito dal consumatore mediante il pagamento di una somma di danaro la riparazione, la sostituzione, la riduzione del prezzo, la risoluzione del contratto o il rimborso del prezzo pagato);
d) legittimato passivo è esclusivamente il professionista di cui all'ampia accezione dell'art. 140 ter.
2 ) Nei procedimenti collettivi (azioni di classe ex art. 840 bis e ss. c.p.c.):
a) la legittimazione attiva spetta alle associazioni e le c.d. organizzazioni senza scopo di lucro iscritte in appositi elenchi;
b) l'oggetto è la tutela della categoria dei c.d. diritti individuali omogenei (vale a dire lesi dalla medesima fonte di danno);
c) le tipologie di azioni sono inibitorie o risarcitorie;
d) legittimati passivi sono le imprese e gli enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità per atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle rispettive attività.
Per entrambe dette azioni da proporsi con ricorso è prevista la disciplina del rito semplificato di cognizione di cui alla recente (e per molti versi criticabile) riforma c.d. Cartabia, innanzi alla competente sezione specializzata in materia di impresa.
3 ) Tratto comune in entrambe dette discipline è l'evidente disincentivazione per chi agisce: plurime e dettagliate sono le ipotesi in esse previste di inammissibilità della domanda, di cui, rispettivamente, al comma 8 dell'art. 140 septies del Codice del Consumo e al comma 4 dell'art. 840 ter del Codice di procedura civile.
Ne deriva una farraginosa e non uniforme regolamentazione in due settori del tutto autonomi e separati che evidenziano la volontà storica del legislatore di porre ostacoli e difficoltà a chi intende intraprendere le forme di tutela plurime in questione; la tecnica legislativa che contraddistingue tali norme è infatti quella di limitare i legittimati attivi, rendere esperibile dette tutele solo nei confronti di cerchie ristrette di legittimati passivi, “invitare” il giudicante, per i plurimi filtri previsti, a disattendere le istanze collettive sia preliminarmente mediante una pronuncia di inammissibilità sia rigettarle nel merito.
Del resto, ampliando la visuale di valutazione del vigente sistema processual-civilistico, tali novelle risultano in linea con l'ampliamento delle ipotesi di inammissibilità delle impugnazioni, con particolare riferimento all'appello, oltre che con la fortemente criticabile procedura camerale ex art. 380 bis c.p.c. quale purtroppo ormai “regola” nel giudizio di legittimità innanzi alla Corte di Cassazione.
In una realtà disciplinare quale quella oggi vigente in generale, nel variegato sistema di tutele individuali e plurime, emerge la nefanda politica legislativa di chiaro e forte restringimento della tutela della giurisdizione quale finalizzata ad evitare illeciti a rilevanza civilistica nei confronti dei cittadini, ben lungi dall'ampia e lungimirante previsione del nostro Costituente di cui all'art. 24 Cost. in base al quale “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. In sintesi, il legislatore ritiene erroneamente di risolvere l'annoso problema del rilevante numero di giudizi pendenti nelle nostre sedi giudiziarie facilitando il giudice nell'esprimersi con pronunce tendenti alla soppressione delle istanze di tutela soprattutto in via preliminare mediante ipotesi facilitate di inammissibilità o di rigetto nel merito, sino all'estrema fase della legittimità in Cassazione in cui i processi, come ormai è manifesto, non si celebrano ma si “smaltiscono”.
Figuriamoci se in un tal sistema in cui una mal funzionante e patologica giustizia è scarsamente incline ad accogliere istanze di giustizia, soprattutto individuali, le azioni di classe possano rappresentare “un'isola felice” di protezione di interessi collettivi.
La totale inadeguatezza della risposta legislativa all'esigenza sociale della tutela degli interessi iperindividuali nell'ambito della crisi ormai irreversibile della giurisdizione civile
Le attuali discipline normative in relazione a dette azioni "di classe" non solo, quindi, non danno una sufficiente risposta all'esigenza di tutele “allargate” alla collettività, al di fuori del rigido schematismo individuale della legittimazione ad agire, ma confermano ulteriormente l'irreversibile crisi della giurisdizione nel sistema civilistico di tutele, giurisdizione ormai sempre più “minata” da logiche formali nell'ambito di ipocrite scelte legislative che, in virtù dell'alibi della riduzione dei tempi, hanno come sotteso fine principale, più che la celebrazione dei processi, il loro “smaltimento”.
Infatti, la “logica” che viene perseguita, ben lungi dalla previsione costituzionale di cui al richiamato art. 24 Cost. (che nella prospettiva del Costituente tendeva a consentire un ampio ed efficace sistema generalizzato di tutela dei diritti soggettivi, anche plurimi), è quella di non agevolare il raggiungimento di una “decisione finale” (epilogo logico e “naturale” di un giusto processo) per più agevolmente addivenire a preliminari ordinanze di inammissibilità o improcedibilità che nulla hanno a che vedere con una maggiore efficienza del sistema giudiziario, favorendo un'ulteriore incostituzionale compromissione del diritto di difesa.
A dimostrazione di ciò, a parte quanto già rilevato in sede di c.d. azioni collettive, basti pensare:
a) in primo grado, al rigido contenuto dell'atto di citazione exart. 163 c.p.c., pena la nullità di quest'ultima per quanto statuito dall'art. 164 c.p.c.; al formalismo di cui al recente art. 167 c.p.c. avente ad oggetto la comparsa di costituzione del convenuto; alle “verifiche preliminari” di cui all'art. 171 bis; all'“incentivo” per l'attività del giudice di ordinare ex art. 183 quater il rigetto della domanda già nel corso del giudizio di primo grado all'esito dell'udienza di cui all'art. 183 c.p.c.;
b) in appello, all'improcedibilità dell'appello ex art. 348 c.p.c. e all'inammissibilità e manifesta infondatezza dell'appello ex art. 348 bis c.p.c.;
c) in cassazione, agli artt. 360 e 360 bis c.p.c.che ampliano notevolmente il potere del giudice di legittimità di pronunciare l'inammissibilità del ricorso e soprattutto agli artt. 380 bis e 380 bis 1.
Tali ultime due norme, nel far diventare “regola” la procedura camerale, hanno sancito, nella fase di legittimità, la fine della pubblica udienza, tranne rari casi, con palese violazione della pubblicità della stessa, del confronto tra le parti nella piena attuazione del principio del contraddittorio, nell'ambito di una ingiustificabile lesione della collegialità del giudizio (paradossalmente nella suprema sede giudiziaria in cui la stessa dovrebbe essere imprescindibile) per avvalorare la funzione tipica della Cassazione ai fini di una compiuta c.d. nomofilachia (indirizzo ermeneutico per gli altri giudici).
Disarmante se non intollerabile, in particolare, dal punto di vista della piena tutela dei diritti è l'ampia discrezionalità che viene riconosciuta, in via preliminare, ad un unico componente del Collegio, di formulare una sintetica proposta di definizione del giudizio, spesso mediante inopportuni standard decisionali (in virtù di non rigorose ipotesi di inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del o dei ricorsi), con l'incredibile “minaccia” di cui all'ultimo comma di cui all'art. 380 bis che, ove mai il ricorrente chieda la decisione collegiale, “la Corte definisce il giudizio in conformità della proposta, applicando il terzo e il quarto comma dell'art. 96 c.p.c.”, configurandosi, quindi, un'ipotesi di responsabilità aggravata, con ulteriore aggravamento delle spese a suo carico.
Tutto ciò occorre dirlo con forza, oltre a costituire un chiaro declino culturale e disciplinare della giurisdizione, dà luogo al moltiplicarsi di casi di “denegata giustizia” in cui prevale la logica del formalismo processuale rispetto all'effettiva tutela dei diritti in gioco.
Va denunciato quindi il reale e preponderante fine di impropriamente addivenire, così provvedendo, ad una diminuzione dei processi pendenti in tale sede di legittimità, senza “deciderli”.
In definitiva, mai come negli ultimi tempi il termine “riforma della giustizia” è stato abusato, trattandosi in realtà, sotto tale non adeguata etichetta, di una compressione ingiustificata della tutela dei diritti nel processo civile e della connessa difesa.
Vera riforma ma, a questo punto il pessimismo è d'obbligo, sarebbe quella tendente, nel potenziare strutture, personale e anche preparazione professionale dei giudici (la Scuola Superiore della Magistratura non è da sola ovviamente sufficiente) a consentire un facile accesso alla giustizia, ex art. 24 Cost., senza l'incostituzionale filtro economico di eccessivi importi a titolo di contributi unificati, per un processo civile celere nelle sue varie fasi e che giunga a conclusione col provvedimento tipico della giurisdizione, vale a dire la sentenza. È paradossale che per accedere alla giustizia si paghino somme eccessive allo Stato a fronte di un corrispondente “servizio” del tutto inadeguato alle esigenze individuali e collettive dei cittadini e, per quanto esposto, ingiusto.
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Sommario
Il modello statunitense (disatteso) della c.d. class action
La vigente disciplina nel nostro ordinamento delle c.d. azioni collettive e di classe – sistema “binario” e relative criticità
La totale inadeguatezza della risposta legislativa all'esigenza sociale della tutela degli interessi iperindividuali nell'ambito della crisi ormai irreversibile della giurisdizione civile