Cancellazione della società dal registro delle imprese ed estinzione: se la via vecchia era meglio di quella nuova

22 Settembre 2025

Il contributo analizza il revirement delle sezioni unite della Corte di cassazione sull'annosa questione del regime giuridico dei crediti della società estinta a seguito di cancellazione dal registro delle imprese. 

Massima

L'estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non comporta anche l'estinzione dei crediti della stessa, i quali costituiscono oggetto di trasferimento in favore dei soci, salvo che il creditore abbia inequivocamente manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito, comunicandola al debitore, e sempre che quest'ultimo non abbia dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare: a tal fine, non risulta tuttavia sufficiente la mancata iscrizione del credito nel bilancio di liquidazione, la quale non giustifica di per sé la presunzione dell'avvenuta rinunzia allo stesso, incombendo al debitore convenuto in giudizio dall'ex-socio, o nei confronti del quale quest'ultimo intenda proseguire un giudizio promosso dalla società, l'onere di allegare e provare la sussistenza dei presupposti necessari per l'estinzione del credito.

Il caso

La società a responsabilità limitata Cas.Dit. e i fideiussori della stessa chiamarono in giudizio il Banco di Napoli s.p.a. per sentir accertare l'illegittima applicazione d'interessi sulle poste passive di un conto corrente di cui la prima era intestataria, con conseguente condanna della convenuta alla restituzione delle somme indebitamente versate a tale titolo.   

Resistette l'Istituto. 

Il giudice di prime cure dichiarò cessata la materia del contendere in ordine alle domande proposte da Cas.Dit, motivando la scelta decisoria con il rilievo che la società era stata cancellata dal registro delle imprese, il che imponeva di ritenere che avesse rinunciato alla pretesa azionata. Rigettò invece le richieste dei garanti, posto che, a suo giudizio, essi non erano autonomamente legittimati alla ripetizione delle somme corrisposte dalla società alla Banca.

La Corte d'appello, investita dell'impugnazione avverso detta pronuncia, così provvide: dichiarò inammissibile il gravame di Cas.Dit in liquidazione; accolse parzialmente quello del socio unico, in favore del quale condannò il Banco di Napoli al pagamento della somma di Euro 456.746,48, con gli interessi legali dalla domanda; ritenne assorbita la domanda dei fideiussori.

In motivazione la Curia territoriale osservò, per quanto qui interessa:

a) che la cessazione della materia del contendere in ordine al rapporto processuale di cui era parte la società, era stata dichiarata a sproposito, considerato che la cancellazione dal registro delle imprese, pur determinando l'estinzione della società, e privandola quindi della capacità di stare in giudizio, non comportava l'interruzione del processo, ove l'evento, come nella specie, non fosse stato dichiarato né notificato dal suo procuratore, operando in tal caso la regola dell'ultrattività del mandato alle liti; in tale contesto – disse – la causa avrebbe dovuto essere decisa nel merito;

b) che la cancellazione non aveva affatto comportato l'implicita rinuncia al credito azionato, essendo a tal fine necessarie sia la comunicazione da parte del creditore della volontà di rimettere il debito, anche attraverso un comportamento univoco assolutamente concludente, sia la mancata dichiarazione da parte del debitore di non volerne profittare:

c) che nell'assenza di una previsione normativa di segno contrario, i diritti vantati dalla società estinta, non riportati nel bilancio finale di liquidazione, non potevano ritenersi rinunciati, ma transitavano tout court in capo ai soci;

d) che in quelli di Cas.Dit era subentrato, per successione, il socio unico.

La Banca, che dormiva sonni tranquilli, confidando nei principi di diritto enunciati dalle sezioni unite nel 2013, sui quali di qui a poco si tornerà, non ci stette e propose ricorso per cassazione.   

Lamentò in primis che la domanda proposta in primo grado – la quale aveva ad oggetto esclusivamente la restituzione delle somme indebitamente percepite dalla Banca – fosse stata ritenuta ammissibile nonostante la mancata dimostrazione di circostanze come l'avvenuta estinzione del conto corrente e il pagamento di tutte le poste illegittime, che erano invece condizioni di ammissibilità dell'azione da verificare con riferimento alla data di instaurazione del giudizio.     

Peraltro – dedusse – escludendo che la cancellazione della Cas.Dit dal registro delle imprese avesse comportato la rinuncia alla pretesa azionata, la Corte territoriale era andata in contrasto frontale con il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, sacramentato in due pronunce delle sezioni unite del 2013, le quali avevano negato il trasferimento ai soci delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi.

Approdato il fascicolo dinanzi alla prima sezione civile della Corte, il collegio investito della trattazione del ricorso, con ordinanza interlocutoria del 13 giugno 2024, trasmise gli atti alla Prima Presidente. Rilevò segnatamente che in ordine alla configurabilità di una tacita rinuncia ai crediti della società non compresi nel bilancio finale di liquidazione, come effetto automatico della cancellazione dal registro delle imprese, con conseguente estinzione della società, in pendenza del giudizio volto a farli accertare, si erano registrate soluzioni non uniformi nella giurisprudenza di legittimità, di talché il punto controverso integrava una questione di massima meritevole dell'intervento nomofilattico delle sezioni unite. 

Le questioni e le soluzioni giuridiche

Prima di illustrare la soluzione adottata nell'arresto oggetto della presente riflessione, è opportuno ricapitolare gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità.

La storia dell'assetto dei rapporti giuridici sopravvissuti alla cancellazione delle società dal registro delle imprese è antica almeno quanto la disciplina stessa delle società e del registro delle imprese, nato con il codice del 1942 sulle ceneri di precedenti registri.

Prima della riforma del diritto societario, l'art. 2456 cod. civ. stabiliva che, dopo l'approvazione del bilancio finale di liquidazione, i liquidatori dovevano chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese (comma 1) e che dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti potevano far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, nonché nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento era dipeso da loro colpa (comma 2).

Benché la più accreditata dottrina (Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1987, 575; Galgano, Diritto commerciale, Le società, Bologna 1995/1996, 368; Campobasso, Diritto delle società, Torino 1999, 533), sostenesse il carattere costitutivo della cancellazione, la giurisprudenza, agganciandosi a un precedente del 1937 (Cass. civ. 28 giugno 1937, n. 2947) – che, al fine di tutelare il creditore da possibili liquidazioni fraudolente, gli aveva riconosciuto “integro il diritto di portare a termine il giudizio contro la società rappresentata dal liquidatore” – si era consolidata nel senso che  l'adempimento meramente formale della cancellazione non fosse sufficiente a determinare l'estinzione della società, essendo necessaria a tal fine anche la completa definizione dei rapporti giuridici pendenti.

La prima ricaduta pratica di tale orientamento era che, ove ce ne fossero di sopravvissuti alle operazioni di liquidazione, “il creditore, oltre che agire in via sussidiaria nei confronti dei soci "pro quota" ex art. 2456, secondo comma, cod. civ.”, ben potesse esperire (o continuare) l'azione diretta contro la società, in persona del liquidatore (cfr. Cass. civ. 18 agosto 2003, n. 12078).

I riformatori del 2003 intesero correggere d'imperio questa interpretazione, considerata, a torto o a ragione, sostanzialmente abrogativa del sistema del codice civile (Galgano, op. cit.), e affinché quelle teste calde dei giudici non ci riprovassero, integrarono il secondo comma dell'art. 2495 (che nella nuova numerazione, aveva preso il posto della precedente disposizione), con un incipit inequivocabile: «ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti… » ecc.

La giurisprudenza, dopo qualche iniziale tentennamento, si adeguò all'orientamento imposto dal legislatore, che fu definitivamente formalizzato nelle due pronunce delle sezioni unite del 2013 innanzi menzionate. Tali arresti, sull'abbrivio di tre precedenti del 2010 – che avevano tra l'altro chiarito come la regola dell'estinzione conseguente alla cancellazione operasse anche con riferimento alle società di persone (Cass. civ. sez. un. 22 febbraio 2010, nn. 4060, 4061 e 4062) – enunciarono i seguenti principi:

“Dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003, qualora all'estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale:

a) l'obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate", fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali;

b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo”.

Con riferimento ai rapporti attivi – che sono quelli che qui interessano e la cui sorte non è stata espressamente disciplinata dal legislatore della riforma societaria – le sezioni unite ritennero dunque che la scelta della società di cancellarsi dal registro senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della quale il liquidatore aveva (o avrebbe ragionevolmente dovuto avere) contezza, fosse da intendere come una tacita e univoca manifestazione di volontà abdicativa. Onde si parlò spesso di una presunzione quasi assoluta di rinuncia (così anche l'ordinanza di rimessione), alla stregua di una qualificazione piuttosto singolare, posto che tra presunzione assoluta e presunzione relativa tertium non datur

I punti critici di tale impostazione, alcuni dei quali sono stati ripresi nel provvedimento interlocutorio della prima sezione, furono subito individuati dalla dottrina.

A parte l'invincibile fluidità della categoria delle “mere pretese”, che nella dogmatica giuridica costituirebbero un autentico mistero (M.S. Spolidoro, Effetti sostanziali della cancellazione delle società: sopravvenienze attive e passive, in Riv. Soc., 2017, 923), vennero tra l'altro evidenziati gli effetti potenzialmente perniciosi dell'esegesi proposta nei confronti non solo dei soci, ma degli stessi creditori, privati della possibilità di soddisfarsi su una posta attiva, in ragione di una scelta abdicativa ad essi estranea e alla quale neppure avrebbero potuto opporsi (G. Guizzi, Le Sezioni Unite, la cancellazione della società e il «problema» del soggetto: qualche considerazione critica, in Soc., 2013, 562 ss.).  

La giurisprudenza, dal canto suo, cominciò una lenta opera di erosione dei principi enunciati dalle sezioni unite del 2013.

Aprì le batterie una sentenza della terza sezione, non massimata, che ebbe cura di evidenziare come presupposto irrinunciabile per l'operatività della presunzione di una volontà remissiva, fosse la conoscenza in capo al liquidatore della posta attiva non compresa nel bilancio finale (Cass. civ., 26 agosto 2014, n. 18250).

Siffatta prospettiva fu ripresa alcuni anni dopo dalle stesse sezioni unite, in un arresto in cui l'applicazione del principio della mancata trasmissione ai soci delle mere pretese e dei diritti incerti o illiquidi venne espressamente limitata, con riguardo ai crediti risarcitori da illecito extracontrattuale, all'ipotesi in cui la società, al tempo della cancellazione, fosse in grado, con l'ordinaria diligenza, di avere conoscenza non solo del danno ma anche del fatto contra ius e della derivazione causale del primo dal secondo, posto che “la presunzione di una volontà dismissiva della società … non può prescindere dalla conoscenza o conoscibilità del diritto rinunciato” (Cass. civ. sez. un. 18 dicembre 2020, n. 29108).  

Fu poi negato che l'estinzione di una società determinata dall'avvenuta sua cancellazione dal registro delle imprese, ufficiosa o volontaria che fosse, comportasse il venir meno dell'interesse alla decisione di un giudizio pendente, intrapreso dal liquidatore: e ciò sia in quanto l'instaurazione e la prosecuzione di quel giudizio non consentiva di ritenere che la società avesse rinunciato alla pretesa ivi azionata, sia in quanto non poteva disconoscersi l'interesse dei soci a determinare l'entità del rapporto giuridico facente capo all'ente estinto (cfr. Cass. civ. 25 ottobre 2016, n. 21517; Cass. civ. 6 aprile 2018, n. 8582).  

Si arrivò così alle sentenze del 2020, che attraverso il recupero dello statuto civilistico dell'istituto della remissione del debito, negarono che i crediti di una società commerciale estinta potessero ritenersi rinunciati per il solo fatto che non fossero stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, salvo che il creditore avesse manifestato, anche attraverso un comportamento concludente, la volontà di rimettere il debito comunicandola al debitore e sempre che quest'ultimo non avesse dichiarato, in un congruo termine, di non volerne profittare (Cass. civ. 22 maggio 2020, n. 9464; Cass. civ. 14 dicembre 2020, n. 28439; Cass. civ. 31 dicembre 2020, n. 30075).

Gli esposti accomodamenti faticosamente elaborati dalle sezioni semplici, subirono però una brusca virata nel 2023, con la secca riproposizione – senza  se e senza ma, è il caso di dire – dell'asserto secondo cui, “a seguito della cancellazione di una società dal registro delle imprese, la successione dei soci non opera in relazione ai crediti illiquidi e inesigibili non compresi nel bilancio finale di liquidazione, i quali si presumono tacitamente rinunciati, salva la prova contraria da parte di colui che intenda far valere la corrispondente pretesa” (Cass. civ. 18 luglio 2023, n. 21071).

Come si è accennato innanzi, l'ordinanza di rimessione, oltre a dar conto dello stato dell'arte della giurisprudenza di legittimità, ricapitolandone gli accidentati percorsi, ha evidenziato le più vistose criticità dell'opzione ermeneutica fatta propria dalle sezioni unite, segnatamente evidenziando:

a) la torsione insita in una distinzione operata sulla base di un elemento errato, quale la pretesa idoneità (o inidoneità) della posta creditoria a essere iscritta nel bilancio finale, in contrasto con il principio contabile generale per cui ogni credito, ancorché illiquido o incerto, va iscritto (e quindi può essere iscritto) in bilancio al valore presumibile di realizzo (art. 2426 cod. civ.);

b) l'insostenibilità dogmatica dell'automatica riconduzione di una formalità pubblicitaria, quale la cancellazione dal registro delle imprese, alla fattispecie della rinuncia, pur in presenza di circostanze logicamente con questa incompatibili, come la coltivazione del giudizio per l'accertamento del credito da parte del liquidatore;

c) l'irrazionalità delle ricadute della predicata remissione, destinata a privare i creditori di una possibile posta attiva “in esito a una scelta abdicativa a loro estranea”.

Osservazioni

Del primo motivo di ricorso il collegio si è agevolmente sbarazzato rilevando che, a tacer d'altro, nel corso del giudizio gli attori avevano modificato la domanda originariamente proposta, sostituendo la richiesta di condanna della Banca alla restituzione delle somme indebitamente trattenute con quella di rideterminazione del saldo del conto corrente, previa espunzione degli importi illegittimamente addebitati a titolo d'interessi, capitalizzazione trimestrale e commissione di massimo scoperto. Siffatta  modificazione – ha rilevato la Corte – pur avendo avuto luogo soltanto con l'atto di appello, non si poneva in contrasto con l'art. 345 c.p.c., non avendo comportato l'introduzione di una domanda nuova, caratterizzata da un oggetto e da un titolo diversi da quelli originari, ma solo una riduzione del petitum

Tanto statuito sulla questione prospettata nel primo mezzo – pacificamente qualificabile in termini di ius litigatoris – la Corte è passata a esaminare quella ascrivibile allo ius constitutionis, e cioè alla funzione nomofilattica di sua esclusiva pertinenza.

E sul punto, ricapitolati i termini del contrasto, ha osservato che “ciò che accomuna le due tesi affermatesi nella giurisprudenza di legittimità è il rifiuto dell'automatismo insito nel meccanismo teorizzato dalle Sezioni Unite, in virtù del quale, per le mere pretese e per i crediti incerti o illiquidi, il mancato inserimento nel bilancio di liquidazione risulterebbe di per sé sufficiente ad escluderne la trasmissione ai soci, implicando una rinuncia al diritto, che comporterebbe una presunzione juris et de jure di estinzione, anche nel caso in cui sia pendente un giudizio promosso dalla società per il suo accertamento”.

In tale contesto la differenza tra i due orientamenti viene dal collegio ridotta al fatto che, “mentre per il primo la regola è che il diritto si trasmette ai soci, nonostante la mancata inclusione nel bilancio di liquidazione”, costituendo l'estinzione un'eccezione, che dev'essere rigorosamente allegata e provata da chi intenda farla valere, e quindi dalla controparte dell'ex-socio (così le pronunce della prima sezione), “per il secondo la mancata inclusione nel bilancio di liquidazione rende applicabile, almeno per le mere pretese e i crediti incerti o illiquidi, una presunzione (semplice) di estinzione, che pone a carico dell'ex-socio che intenda azionare un diritto della società o proseguire un giudizio dalla stessa iniziato l'onere di allegare e provare di essere subentrato nella titolarità del diritto fatto valere” (l'orientamento della terza).  

 Tra le due contrapposte tesi, gli ermellini, precisato che non era in discussione la qualificazione della vicenda conseguente alla cancellazione in termini di fenomeno successorio, hanno optato per la prima, per quella cioè che, a fronte della mancata inclusione di una posta attiva nel bilancio finale di liquidazione, nega l'operatività di una presunzione di rimessione. E hanno spiegato la loro decisione con le ragioni qui di seguito elencate:   

a) le incertezze applicative connesse all'individuazione dei diritti suscettibili di estinzione, stante l'indeterminatezza della distinzione tra i diritti veri e propri e categorie di incerta catalogazione quali le mere pretese, ancorché azionate ed azionabili in giudizio, i diritti litigiosi o illiquidi, le ragioni di credito;

b) la difficoltà d'individuare le modalità d'iscrizione in bilancio delle mere pretese, al fine di evitarne l'estinzione e di garantirne la trasmissione ai soci, trattandosi spesso di poste attive meramente potenziali, in quanto connesse a situazioni già presenti alla data di bilancio ma la cui esistenza è destinata a essere confermata soltanto all'avverarsi o meno di uno o più eventi futuri e incerti “che non ricadono nell'ambito del controllo della società (OIC n. 31, par. 11)”: poste come tali non iscrivibili, “in ossequio al principio della prudenza (OIC n. 31, par. 48)”

c) l'invincibile asimmetria tra la disciplina civilistica della rinuncia al credito o della remissione del debito, “che richiede una manifestazione di volontà (o, a tutto voler concedere, un comportamento univocamente rivolto a tale effetto) specificamente portata a conoscenza del singolo creditore” e un comportamento meramente omissivo quale la mancata inclusione del credito nel bilancio di liquidazione, non rivolto a un destinatario determinato, tanto più che la volontà di rimettere il debito presuppone in primo luogo la consapevolezza della sua esistenza da parte del creditore (cfr. Cass., Sez. III, 14/07/ 2006, n. 16125) e che, essendo la remissione un negozio unilaterale recettizio, è necessario individuare nel deposito del bilancio finale di liquidazione non solo l'adempimento della formalità della comunicazione della volontà abdicativa del creditore al debitore, ma altresì il momento in cui questi ne acquista conoscenza;

d) l'irrazionalità di una soluzione foriera di possibili pregiudizi per i creditori sociali, i quali, “pur vedendo ridotto il valore patrimoniale complessivamente destinato alla soddisfazione dei loro diritti, in misura pari al valore della pretesa o del credito incerto o illiquido, non hanno alcun mezzo di tutela a fronte della cancellazione della società, non potendo proporre reclamo avverso il bilancio finale di liquidazione, né domanda di revoca dell'iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, e non disponendo di strumenti di conoscenza in ordine all'esistenza ed all'incasso da parte degli ex-soci di crediti originariamente spettanti alla società”.

Di qui l'enunciazione dei principi racchiusi nella massima innanzi riportata.

Conclusioni

Non può non apprezzarsi lo sforzo di razionalizzazione messo in campo dalle sezioni unite su una problematica particolarmente scivolosa e complessa: affermare che i soci subentrano in tutte le poste attive, anche in quelle non iscritte nel bilancio finale di liquidazione, in quanto mere pretese o diritti illiquidi, salvo la prova di una volontà remissiva della società, a carico dell'obbligato, rappresenta indubbiamente una notevole semplificazione.  

Restano nondimeno irrisolte tutte le criticità connesse a una soluzione normativa che ha inteso castigare la fronda giurisprudenziale materializzatasi, per molti decenni, prima della riforma del diritto societario, nell'assunto che la cancellazione della società dal registro delle imprese avesse una portata meramente dichiarativa, non già costitutiva, rispetto all'estinzione, posto che tale effetto si determinava solo a seguito dell'effettiva cessazione di tutti i rapporti derivanti dall'attività della società o ad essa connessi (tra le tante Cass. civ. 5 settembre 1996 n. 8099; Cass. civ. 18 agosto 2003, n. 12078, innanzi citata).

Peraltro l'opzione ermeneutica che di quella fronda era alla base aveva una legittimazione sistematica di tutto rispetto: essa nasceva invero dall'esigenza di preservare nel tempo l'autonomia patrimoniale della società per evitare le ingovernabili ricadute connesse alla sua intempestiva dissoluzione.

E, a non a caso, nel nuovo assetto, queste ricadute permangono tutte.

È sufficiente all'uopo considerare che, pur nel miglioramento della tutela dei creditori sociali costituita dalla sconfessione della lettura in chiave abdicativa della mancata inclusione di una posta attiva nel bilancio finale di liquidazione, resta aperta e irrisolta l'eventualità che, a seguito dell'estinzione della società e del conseguente fenomeno successorio in favore dei soci superstiti, questi continuino a coltivare le sopravvenienze attive nei confronti dei terzi e a ottenere dagli stessi soddisfazione, senza che i creditori nulla ne sappiano. Non è infatti previsto alcuna forma di rendicontazione e di pubblicità quanto all'emersione e alla sorte sia di sopravvivenze che di sopravvenienze attive riferibili alla cessata attività sociale.  

Sotto altro, concorrente profilo va poi osservato che, venuto meno, a seguito della cancellazione, il vincolo di destinazione sui beni costituenti il patrimonio sociale, i creditori sociali rimasti insoddisfatti si trovano esposti al concorso con i creditori personali degli ex soci, mancando strumenti giuridici per separare, all'interno del patrimonio di questi, quanto abbiano incamerato a seguito della dissoluzione della compagine.

In tale contesto parte della dottrina ha affermato che il vincolo sulle poste attive del patrimonio sociale permane anche se la persona giuridica più non esiste, individuando il mezzo per raggiungere tale effetto, ora nella possibilità di chiedere e ottenere la cancellazione della cancellazione (M.S. Spolidoro, op. cit. 924); ora in quella di esperire l'azione di ingiustificato arricchimento (F. Godio, Fusione ed estinzione di società di capitali e processi pendenti, Padova 2020, 218); ora in una sorta di ultrattività del programma sociale da ricondurre allo stesso contratto di società (G. Niccolini, Contributo allo studio del bilancio finale di liquidazione delle società di capitali, Torino, 2019, 178).

Così stando le cose, viene da chiedersi se l'orientamento della giurisprudenza ante riforma era veramente da buttar via; se la scelta di sancire expressis verbis che con la cancellazione cala la pietra tombale sui rapporti sociali pendenti, sia stata una buona idea e se il legislatore del 2003 abbia, in questo come in altri casi, perso un'ottima occasione per starsene zitto. 

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