Il concorso dell’amministratore privo di deleghe nel delitto di bancarotta fraudolenta per operazioni dolose
08 Ottobre 2025
Alla stesura del presente contributo ha collaborato l'Avv. Paolo Rossini Massima In tema di bancarotta fraudolenta, il concorso per omesso impedimento dell’evento dell’amministratore privo di delega è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del Consiglio di Amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la Società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà, nella forma del dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento, dovendosi infine accertare, sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, la sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega. Il caso Con il provvedimento in esame, la Corte di Cassazione affronta il tema della responsabilità del Presidente del Consiglio di Amministrazione di una società di capitali, privo di deleghe gestorie, per il reato di bancarotta fraudolenta ex art. 223, comma 2, n. 2, r.d. n. 267/1942, ritenuto, nel caso concreto, corresponsabile del dissesto della Società, dichiarata fallita nel 2015. La pronuncia risulta di particolare interesse poiché esclude, in termini netti ed univoci, la sussistenza di una responsabilità oggettiva per gli illeciti di natura penale in capo all'amministratore di una società di capitali - anche qualora rivesta la carica di Presidente del Consiglio di Amministrazione –, in ragione della sola posizione ricoperta. In particolare, nel caso di specie, i giudici del doppio grado di merito avevano, concordemente, ritenuto l'imputata responsabile del reato di bancarotta fraudolenta per operazioni dolose, individuate nel sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie, contributive e previdenziali, dal 2005 al 2012. La difesa dell'imputata proponeva ricorso per cassazione sostenendo, per quanto qui di interesse, l'insussistenza del delitto de quo, per carenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato; nonché lamentando che la Corte d'Appello di Firenze non avesse adeguatamente considerato la circostanza secondo cui, fino al giugno 2009, la ricorrente fosse sprovvista di poteri di gestione della Società e, pertanto, non potesse essere responsabile della menzionata operazione dolosa. La questione Al fine di comprendere il ragionamento svolto dai giudici di legittimità nella sentenza in commento, e, conseguentemente, individuare i confini della responsabilità penale degli amministratori privi di deleghe, si ritiene necessaria l'analisi della normativa di riferimento, in particolare il disposto dell'art. 2392 c.c. Secondo tale disposizione, invero, «gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze». La loro responsabilità è, inoltre, solidale «verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza di tali doveri», ma solo qualora, precisa la norma, non «si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori». Non solo. In capo agli amministratori senza delega, alla luce della riforma del diritto societario, non grava più un generale obbligo di vigilanza sulla gestione attuata dagli organi delegati, atteso che l'art. 2392, comma 2, c.c. non prevede più che siano «solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione», ma che lo siano solo ove, «a conoscenza di fatti pregiudizievoli», non abbiano «fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose». Pertanto, in via generale, è prescritto che tutti gli amministratori, con e senza deleghe, rispondano solidalmente per fatto proprio dei danni cagionati alla Società dall'inosservanza del generale dovere di diligenza. Tuttavia, qualora all'interno del Consiglio di amministrazione siano state conferite deleghe ad uno o più soggetti e l'atto negligente che ha cagionato il danno rientri nelle competenze oggetto di specifica delega, verrà meno la responsabilità solidale di tutti gli altri consiglieri sprovvisti della predetta attribuzione. Ad ogni modo, in un Consiglio di amministrazione che ha conferito al suo interno delle deleghe, gli amministratori non esecutivi risponderanno per i fatti pregiudizievoli commessi da un amministratore delegato, solo se a conoscenza della situazione e in assenza di qualsiasi comportamento in loro potere volto a evitarne la commissione. Da tale disposizione la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione ha tratto il principio, poi costantemente ribadito, secondo cui, ai fini dell'affermazione di responsabilità, è necessario che il consigliere privo di delega sia concretamente venuto a conoscenza di dati (c.d. segnali d'allarme) da cui desumere un evento pregiudizievole per la Società o, almeno, il rischio della verifica di detto evento e sia rimasto volontariamente inerte, così avallando le condotte mendaci o distrattive degli amministratori dotati di deleghe; dal momento che «la sussistenza di fattori di anomalia evidenti, se comporta in chi li colse un chiaro addebito per colpa, finanche grave, non consente di affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che l'inerzia, ciò nonostante serbata, da parte di chi sarebbe stato tenuto ad attivarsi, sia ex se espressiva della volontaria adesione all'evento pregiudizievole, rappresentato dalla condotta criminosa altrui» (in tal senso, Cass., sez. V, 13 giugno 2022, n. 33582). La soluzione giuridica Nel caso concreto, la Corte d’Appello aveva ritenuto sufficiente il mero dato formale della carica ricoperta, rilevando che, essendo l’imputata Presidente del Consiglio d’amministrazione, aveva una «posizione preminente rispetto ai componenti del medesimo organo», e quindi avrebbe dovuto effettuare il «controllo sull’esercizio delle deleghe». Peraltro, come indicato dalla Suprema Corte, i Giudici di merito avevano fatto riferimento all’intero periodo oggetto di imputazione; il quale risultava, tuttavia, divisibile in due parti: la prima, chiusasi nel giugno 2009, durante la quale l’imputata era solo Presidente del Consiglio di Amministrazione della società fallita, senza delega alcuna e, per di più, la delega ad occuparsi (anche) del pagamento delle imposte era in capo ad un altro soggetto; la seconda, relativa al periodo immediatamente successivo, in cui la ricorrente è rimasta l’unica ad amministrare la Società. La Suprema Corte ha, pertanto, richiamato i propri arresti in materia, specificando come, al fine di ritenere dimostrato il dolo dell’amministratore non esecutivo, appaia necessario che egli abbia avuto effettiva conoscenza di fatti predatori ovvero di segnali di allarme di questi ultimi e non che le anomalie siano state semplicemente “conoscibili”. Ha ribadito altresì l’inesattezza di talune pronunce delle sezioni semplici, le quali hanno, talvolta, riconosciuto la responsabilità penale dell’amministratore, sulla scorta della semplice accettazione della carica, tale da comportare l’assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo, a nulla rilevando la breve durata dell’incarico ovvero l’assenza di deleghe operative. Sulla scorta di quanto evidenziato, è risultato di lampante evidenza per i Giudici che la Corte d’Appello non avesse adeguatamente motivato se l’imputata, nel periodo in cui era solo Presidente del Consiglio d’Amministrazione della Società - poi fallita -, in assenza di poteri gestori, avesse effettiva conoscenza dei fatti in contestazione (ossia il sistematico inadempimento dei debiti istituzionali) o, almeno, la certa percezione di segnali di allarme inequivocabili, dalla stessa volutamente ignorati, con accettazione del rischio che l’evento di bancarotta poi determinatosi si verificasse. La Suprema Corte ha, pertanto annullato la sentenza impugnata e rinviato ad altra sezione della Corte d’Appello di Firenze, dando mandato di verificare l’effettiva incidenza causale della condotta omissiva eventualmente ascrivibile alla Presidente nella fase in cui non aveva poteri gestionali. Osservazioni Nella consapevolezza del nuovo assetto normativo, mutato a seguito della riforma del diritto societario con il d.lgs. n. 6 del 2003, la giurisprudenza di legittimità ha delineato la possibile responsabilità penale (di natura dolosa) per fatti di bancarotta degli amministratori di società di capitali, privi di deleghe gestorie, nell'ambito di applicazione dell'art. 40, comma 2, c.p. Come noto, quello dei reati omissivi impropri è un modello di imputazione della responsabilità penale fondato sul combinato disposto tra la norma dettata dall'art. 40 cpv. c.p. e una disposizione incriminatrice che prevede un reato tipicamente commissivo e di evento. Il fulcro attorno al quale ruota tale tipologia di responsabilità è dato dall'esistenza, in capo ad un determinato soggetto – il garante – di uno specifico obbligo di attivarsi per impedire la realizzazione di fatti di reato; obbligo la cui fonte, rispetto alla tutela dell'interesse sociale da parte del singolo amministratore, è stata individuata nel sopra menzionato art. 2392 c.c. Ne consegue che il consigliere non operativo il quale, posto a conoscenza della realizzazione – imminente o in corso – di un reato da parte degli amministratori esecutivi, deliberatamente omette di attivarsi per impedirne la realizzazione, sarà chiamato a rispondere come concorrente nel reato exartt. 110 e 40 cpv. c.p. Tuttavia, ai fini della formulazione di un giudizio di responsabilità penale di tale natura, un passaggio tanto cruciale quanto complesso è rappresentato dal rigoroso accertamento dell'elemento soggettivo del reato, poiché la condotta omissiva, per assumere rilevanza penale, deve essere connotata da rappresentazione e volizione, quantomeno nella forma del dolo eventuale. Ai fini della prova del dolo di concorso, occorrerà, dunque, dimostrare la conoscenza e non la mera conoscibilità del comportamento illecito in atto, e tale prova dovrà essere raggiunta verificando se i segnali d'allarme siano stati effettivamente percepiti dall'amministratore privo di delega, rimanendo la loro astratta percepibilità confinata nel perimetro della colpa. Ebbene, alla luce delle considerazioni svolte, si ritiene opportuno ribadire quanto sia importante che il presupposto della penale responsabilità di un soggetto sia ancorato ad un'approfondita indagine della sussistenza dell'elemento soggettivo. Invero, la sentenza in commento non fa che riaffermare il rispetto del principio di soggettività, il quale statuisce come le fondamenta di un sistema penale misto (cioè oggettivo e soggettivo, quale è il nostro) debbano essere rinvenute non solo nei principi di materialità e di offensività del fatto, ma, altresì, nella ricerca dell'appartenenza anche psicologica del fatto stesso all'autore, in modo da scongiurare il pericolo di condanne basate su una responsabilità di posizione ovvero fondate su un rimprovero per colpa anziché per dolo, come richiesto per l'integrazione delle fattispecie di bancarotta di cui agli artt. 216 e 223 R.D. n. 267/1942. |