Genitori e figli: mezzi di correzione
10 Ottobre 2025
Partiamo dal considerare che la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che integra il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di abuso dei mezzi di correzione, la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l'agente è portatore, poichè l'uso sistematico di violenza fisica e morale, come ordinario trattamento del minorenne vittima del reato - anche se sorretto da animus corrigendi - configura il reato di cui all'art. 572 c.p. Di conseguenza, il nostro ordinamento non tollera le condotte del genitore che travalichino i limiti dell'uso dei mezzi di correzione, potendosi ritenere tali solo quelli per loro natura a ciò deputati, che tendano cioè alla educazione del figlio minore, quindi, allo sviluppo armonico della personalità, sensibile ai valori della tolleranza e della pacifica convivenza, senza travalicare nel ricorso sistematico a mezzi violenti che non si conciliano con tali obiettivi formativi. In considerazione del ruolo del genitore e della sua responsabilità nei confronti della figlia minore, non rappresenta una giustificazione valida il comportamento e il carattere aggressivo e ribelle del figlio minorenne, a maggior ragione se non emergono comportamenti violenti del figlio minore ai danni del genitore, se non come reazione alle percosse inflitte da quest'ultimo. Quanto poi alla mancanza di una situazione di “soccombenza”, si è già affermato in sede di legittimità che, rispetto alla struttura del reato di cui all'art. 572 c.p., non è consentito introdurre un ulteriore elemento costitutivo rappresentato dall'instaurazione di un rapporto di soggezione della persona offesa, proprio perché la norma richiede esclusivamente che siano poste in essere atti idonei a “maltrattare” e, quindi, a provocare una sofferenza morale o psichica che, tuttavia, non deve necessariamente comportare che la vittima risulti soggiogata dall'autore del reato. È del tutto irrilevante, pertanto, che la persona offesa dimostri una maggiore o minore capacità di resistenza, come pure il mantenimento di un'autonomia decisionale, posto che tali dati attengono essenzialmente ad un profilo strettamente soggettivo che, tuttavia, non inficiano l'idoneità della condotta illecita a determinare uno stato di sofferenza nella persona che la subisce. Nel delitto di maltrattamenti in famiglia, il dolo non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale sia finalizzata, fin dalla loro rappresentazione iniziale, la serie di condotte tale da scagionare le abituali sofferenze fisiche o morali della vittima, essendo, invece, sufficiente la sola consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima. E tale dolo non viene meno laddove le condotte siano state adottate per finalità educative. Proprio il ricorso a un metodo educativo improntato alla sopraffazione e al ricorso alla violenza costituisce il collante unificante, dal punto di vista del dolo, della condotta maltrattante. In tale prospettiva, quindi, non può essere approvato l'argomento difensivo che cerca di giustificare il metodo educativo “violento” del genitore quale reazione a comportamenti viziati, maleducati o provocatori del figlio minorenne, ponendo genitore e figlio in un rapporto di parità e di reciproche offese. |