Per la Cassazione è utilizzabile la telefonata (ascoltata dalla polizia) dell’indagato al difensore

13 Ottobre 2025

Afferma la Corte di cassazione che, nel caso di specie, si sia trattato di una conversazione «ascoltata casualmente dalla polizia giudiziaria», il cui contenuto è stato documentato; quindi «un ascolto del colloquio conseguente non ad una indebita violazione della riservatezza, quanto, piuttosto, al comportamento degli interlocutori».

La vicenda

Il Tribunale di Roma aveva confermato l'ordinanza con cui era stata disposta la misura della custodia in carcere nei riguardi di tale F. M., ritenuto gravemente indiziato del reato di cui all'art. 73, commi 4 e 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per avere detenuto illecitamente, in concorso con M. S., kg. 1,965 di hashish, suddivisa in 20 panetti e ulteriori g. 10 della medesima sostanza, nonché g.0,6 di cocaina rinvenuti in parte addosso e in parte all'interno di una diversa abitazione. L'indagato ha proposto ricorso per cassazione, articolando un unico motivo con cui deduce violazione di legge processuale prevista a pena di inutilizzabilità.

Si assume che la polizia avrebbe operato, nei giorni immediatamente precedenti l'arresto, tre appostamenti nei confronti dell'indagato da cui non sarebbe emerso alcunché e che gli indizi sarebbero costituiti da una parte, dal fatto che F. fosse possessore delle chiavi per entrare nell'abitazione della M. – con la quale il ricorrente era da poco convivente ma non residente – in cui fu trovata la sostanza stupefacente, e dall'altra, dal contenuto del colloquio tra l'indagato e il suo difensore in cui il primo avrebbe "parlato del ritrovamento di due kg. di stupefacente" (in questi termini si esprime il ricorso).

La droga sarebbe stata trovata su indicazione della M. che aveva rivendicato subito la paternità della sostanza stupefacente, mentre nella disponibilità dell'imputato non sarebbe stato trovato alcunché di riconducibile alla droga e nemmeno nella di lui autovettura; sulla persona del ricorrente fu trovata una sola dose di cocaina; la cocaina non fu trovata nella casa della M., ma in una diversa abitazione.

In tale contesto si colloca la conversazione tra l'indagato e il difensore riportata nel seguente modo nell'annotazione di polizia giudiziaria «il F. chiedeva se era possibile contattare telefonicamente l'avvocato di fiducia e durante la conversazione, alla nostra presenza, gli riferiva che erano stati rinvenuti kg. 2 di sostanza stupefacente di tipo hashish all'interno della abitazione della sua compagna, sostanza che al momento non era stata ancora pesata dagli operanti».

Sostiene il difensore che, al momento in cui effettuò la telefonata F. fosse già indagato; sul punto l'ordinanza sarebbe viziata e quella conversazione sarebbe inutilizzabile ai sensi dell'art. 103, comma 6, c.p.p.

La decisione

La Corte di cassazione ha ritenuto infondato il ricorso.

Premettono i giudici che la gravità degli elementi indiziari a carico del ricorrente risulta congruamente descritta nell'ordinanza impugnata e presenta elementi di resistenza anche indipendentemente dalle dichiarazioni che l'indagato ebbe modo di fare quando conversò con il difensore (cfr., pagg. 2-3 ordinanza impugnata), mentre, sul punto, il ricorso è silente.

La sentenza ricorda che la Corte di cassazione con molteplici pronunce – anche a Sezioni unite e non sempre recenti – ha stabilito principi funzionali ad attuare il percorso demolitorio intrapreso dalla parte che eccepisca la inutilizzabilità probatoria di un atto processuale.

In particolare, è consolidato il principio secondo cui è necessario, a pena di inammissibilità del motivo, che il ricorrente indichi l'incidenza degli atti specificamente affetti dal vizio sul complessivo compendio probatorio già valutato, sì da potersene inferire la decisività ai fini del provvedimento impugnato (Cass. pen., sez. un., 23 aprile 2009, n. 23868, Fruci, Rv. 243416; nello stesso senso, Cass. pen., sez. un, 16 luglio 2009, n. 39061, De Iorio, Rv. 244328; Cass. pen., sez. IV, 21 settembre 2018, n. 46478, Gullè, non massimata).

La Corte di cassazione ha indicato, negli anni, i limiti demolitori della pronuncia di legittimità: infatti, prima di annullare con rinvio il provvedimento su di un dato dimostrativo dichiarato inutilizzabile, è necessario procedere alla c.d. prova di resistenza, valutando se la motivazione "resti in piedi", nonostante l'eliminazione dell'elemento viziato. La regola viene considerata un corollario dell'interesse all'impugnazione: se il provvedimento non è basato sulla prova inutilizzabile, il ricorso, ancorché fondato nel merito, deve essere rigettato (Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 1998, n. 4265, Gerina, in motivazione; Cass. pen., sez. V, 15 luglio 2008, n. 37694, Rizzo, Rv. 241299; Cass. pen., sez. II, 11 maggio 2017, n. 30271, De Matteis, Rv. 270303).

La Corte di cassazione, con orientamento consolidato (Cass. pen., sez. II, 18 novembre 2016, n. 7986, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218; Cass. pen., sez. VI, 5 febbraio 2014, n. 18764, Barilari, Rv. 259452; Cass. pen., sez. III, 2 ottobre 2014, n. 3207, dep. 2015, Rv. 262011) ha ribadito che, nei casi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità o la nullità di una prova dalla quale siano stati desunti elementi a carico, il motivo di ricorso deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l'espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento; gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano infatti irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento.

La sentenza annotata ritiene che, nel caso di specie, il motivo di ricorso sia generico, non avendo chiarito l'imputato quale sarebbe l'incidenza del dato ritenuto inutilizzabile rispetto al complessivo ragionamento probatorio e la sua incidenza e decisività rispetto alla decisione impugnata. In altre parole, il motivo di ricorso in esame, per come strutturato, esula dal percorso di una ragionata censura del percorso motivazionale del provvedimento impugnato e si risolve in una generalizzata critica difettiva ed inadeguata, che sostanzialmente non permette al giudice di percepire con certezza il contenuto delle censure.

Pertanto, ne consegue, già sotto tale profilo, l'infondatezza, ai limiti della inammissibilità, del motivo.

Relativamente alla utilizzabilità̀ della conversazione tra il ricorrente e l'avvocato da questi contattato nella immediatezza dei fatti, la sentenza evidenzia come, al di là dell'ambito che si voglia riconoscere all'art. 103 c.p.p., è indubbio che nel caso di specie non siano stati disposti né mezzi di ricerca della prova, né controlli sulla corrispondenza tra l'indagato e il difensore.

In particolare, nessun riferimento può essere compiuto alle intercettazioni regolate dagli artt. 266 e ss. c.p.p. che consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l'intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato.

Ritiene la sentenza che, nel caso di specie, si sia trattato di una conversazione “ascoltata casualmente dalla polizia giudiziaria”, il cui contenuto è stato documentato; un ascolto del colloquio conseguente non ad una indebita violazione della riservatezza, quanto, piuttosto, al comportamento degli interlocutori.

La Corte di cassazione ha già spiegato come nessun dubbio possa nutrirsi circa l'utilizzabilità̀ della descrizione che gli operanti facciano delle condotte tenute in loro presenza dall'indagato o da quanto dagli stessi appreso casualmente in loro presenza mentre l'indagato parla con una terza persona; si tratta di dichiarazioni che non sono in nessun modo stimolate dalla polizia giudiziaria, che, tuttavia, è testimone diretta di un fatto poi documentato (cfr., sul tema, Cass. pen., sez. II, 3 novembre 2016, n. 52539, Venneri, Rv. 268708).

In conclusione, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Osservazioni critiche

La pronuncia in esame lascia perplessi. L'unico dato certo è che si sia trattato indubbiamente di una conversazione telefonica tra indagato e suo difensore. Lascia perplessi anche l'affermazione della sentenza secondo cui la conversazione sarebbe stata «ascoltata casualmente dalla polizia giudiziaria», il cui contenuto è stato documentato. Non è chiaro, infatti, come si sia potuta verificare tale “casualità” e comunque nemmeno la polizia giudiziaria afferma di essere stata ammessa dall'indagato ad assistere alla telefonata, né che questa avvenne a voce talmente alta da poter essere sentita dalla stessa polizia giudiziaria.

Il problema (di fatto) da risolvere è se si tratta di una comunicazione alla quale l'indagato ha fatto assistere ed ascoltare la polizia giudiziaria oppure se questa ha surrettiziamente ascoltato la conversazione telefonica all'insaputa dello stesso indagato. Infatti, nel primo caso, si tratterebbe di affermazioni assimilabili ad una dichiarazione spontanea e l'art. 350, comma 77, c.p.p. ne vieta l'utilizzazione nel dibattimento, salvo per le contestazioni. Nel secondo caso, invece, si tratterebbe di una vera e propria attività investigativa atipica che, pur non potendosi equiparare ad una intercettazione (per mancanza sia del carattere occulto sia dell'impiego di strumenti di captazione), incide comunque sulla segretezza delle comunicazioni ed esige il rispetto della riserva di giurisdizione. Diverso sarebbe se l'indagato avesse parlato a voce alta al cospetto della polizia giudiziaria, consapevole della sua presenza, nel qual caso ne avrebbe consentito l'ascolto, nessuna segretezza avrebbe il dialogo e nessuna violazione dell'art. 15 Cost. si sarebbe consumata. Ma comunque, anche per la polizia giudiziaria, vige il divieto di ascolto delle comunicazioni tra indagato e difensore e avrebbe dovuto astenersi dall'ascoltare e comunque non verbalizzare il contenuto della conversazione riservata. Ed è noto che l’art. 191 c.p.p. prescrive l’inutilizzabilità per le prove “acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge".

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