La morte della confisca italiana di prevenzione: la Corte EDU esige che sia collegata al profitto del reato

16 Ottobre 2025

Per la Corte EDU la confisca italiana di prevenzione contrasta con il Protocollo n. 1 alla Cedu sulla proprietà privata perché, nel caso concreto, fu imposta in modo arbitrario e manifestamente irragionevole in quanto i giudici italiani non hanno accertato alcun nesso tra le attività criminali del proposto e i beni confiscati.

La sentenza

Rivoluzionaria sentenza quella in esame perché la Corte EDU ha dichiarato che la confisca italiana di prevenzione contrasta con l'art. 1, par. 1, del Protocollo n. 1 alla Cedu, sulla protezione della proprietà, a causa, nella fattispecie concreta, del significativo lasso di tempo trascorso dalla commissione dei reati presupposto su cui si basava la confisca e delle carenze nelle decisioni dei tribunali nazionali gravi e manifestamente incompatibili con le limitazioni e le garanzie stabilite dal diritto interno e dalla giurisprudenza, oltre che per la mancata dimostrazione da parte delle autorità nazionali di un nesso tra le attività criminali del primo ricorrente e i beni confiscati, con la conseguenza di un mancato raggiungimento di un giusto equilibrio tra l'interesse pubblico perseguito dalla misura in questione e i diritti individuali dei ricorrenti.

La riconosciuta conformità della confisca italiana di prevenzione al principio di legalità

La Corte ribadisce che il primo e più importante requisito dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 è che qualsiasi interferenza da parte di un'autorità pubblica con il pacifico godimento dei beni debba essere legittima: la seconda frase del primo comma autorizza la privazione dei beni solo «alle condizioni previste dalla legge» e il secondo comma riconosce che gli Stati hanno il diritto di controllare l'uso dei beni applicando le «leggi». Inoltre, lo Stato di diritto, uno dei principi fondamentali di una società democratica, è insito in tutti gli articoli della Convenzione (cfr. Lekić c. Slovenia [GC], n. 36480/07, § 94, 11 dicembre 2018).

L'esistenza di una base giuridica nel diritto interno non è di per sé sufficiente a soddisfare il principio di legalità. Inoltre, la base giuridica deve avere una certa qualità, ovvero deve essere sufficientemente accessibile, precisa e prevedibile nella sua applicazione e nelle sue conseguenze (cfr. Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano c. Italia [GC], n. 38433/09, § 187, CEDU 2012), compatibile con lo Stato di diritto e fornire garanzie procedurali sufficienti contro l'arbitrarietà (cfr. Vistiņš e Perepjolkins cc.Lettonia [GC], n. 71243/01, § 96, 25 ottobre 2012). Il requisito della legittimità richiede anche il rispetto delle disposizioni pertinenti del diritto interno (cfr. East West Alliance Limited c. Ucraina, n. 19336/04, § 167, 23 gennaio 2014; Dimitrovi c. Bulgaria, n. 12655/09, § 44, 3 marzo 2015; e Zlínsat, spol. S r.o. c. Bulgaria, n. 57785/00, §§ 97-98, 15 giugno 2006).

Nel caso di specie, la Corte osserva innanzitutto che le parti non hanno contestato il fatto che la misura contestata avesse un fondamento nel diritto interno, in particolare nell'articolo 24 § 1 del decreto n. 159/2011, e che fosse accessibile. Il disaccordo tra le parti riguardava piuttosto il rispetto delle condizioni e delle limitazioni imposte dal diritto interno, come interpretato dalla giurisprudenza nazionale pertinente, al fine di applicare la confisca contestata, con particolare riferimento: i) alla natura e alla gravità dei reati la cui commissione giustificava la constatazione che la persona in questione rappresentava un pericolo per la società, comportando la presunzione che i beni acquisiti durante tale periodo fossero il prodotto di attività illecite, e ii) alla delimitazione temporale dei beni che, nella misura in cui erano stati acquisiti durante il periodo in cui la persona in questione aveva commesso reati, potevano essere confiscati.

La Corte ritiene che, nel caso di specie, la questione se la misura controversa sia stata imposta nel rispetto delle condizioni e delle limitazioni stabilite dal diritto interno e dalla giurisprudenza nazionale e se sia quindi compatibile con il principio di legalità sia strettamente connessa alla questione se la misura fosse proporzionata rispetto agli obiettivi legittimi perseguiti.

La sentenza esamina pertanto tali questioni congiuntamente.

La questione se la misura sia stata adottata nell'interesse pubblico o generale

65. Indipendentemente dalla norma applicabile dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, qualsiasi interferenza da parte di un'autorità pubblica nel pacifico godimento dei beni può essere giustificata solo se serve un interesse generale legittimo. Il principio di «equo equilibrio» insito nell'articolo 1 del Protocollo n. 1 presuppone di per sé l'esistenza di un interesse generale della collettività (cfr. The J. Paul Getty Trust and Others, § 335, con ulteriori riferimenti).

In altri casi riguardanti la confisca, in assenza di una condanna penale, di beni presunti acquisiti illecitamente, la Corte ha ritenuto che la misura in questione fosse stata attuata in conformità con l'interesse generale di garantire che l'uso dei beni in questione non procurasse vantaggi ai ricorrenti a scapito della collettività (cfr. Gogitidze e altri, § 103, e Telbis e Viziteu, § 74). Per quanto riguarda in particolare la misura di «confisca preventiva» prevista dalla legge italiana, la Corte ha già constatato che essa era intesa a garantire che il crimine non pagasse e a impedire l'arricchimento ingiustificato, privando l'interessato e i terzi che non avevano un diritto valido sui beni da confiscare dei proventi delle attività criminali, e che era quindi essenzialmente di natura riparatoria e non punitiva (cfr. Garofalo e altri c. Italia (dec.), nn. 47269/18 e altri 3, § 134, 21 gennaio 2025).

Nel caso di specie, la Corte ritiene che il regime italiano di confisca senza condanna perseguiva uno scopo legittimo di interesse pubblico, ovvero evitare l'arricchimento ingiusto derivante da reati, privando le persone interessate dei profitti illeciti (cfr. Garofalo e altri, § 133; Todorov e altri, § 186).

La questione se la misura fosse proporzionata allo scopo perseguito

a) Principi generali

La Corte ribadisce che la preoccupazione di raggiungere un «giusto equilibrio» tra le esigenze dell'interesse generale della collettività e le esigenze della tutela dei diritti fondamentali dell'individuo si riflette nella struttura dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 nel suo complesso, indipendentemente dai paragrafi interessati in ciascun caso, e comporta la necessità di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si intende raggiungere (cfr., tra le altre autorità, The J. Paul Getty Trust e altri, § 374). L'equilibrio richiesto non sussiste se le persone interessate hanno dovuto sopportare un onere eccessivo (cfr. Todorov e altri, § 187).

La Corte aggiunge inoltre che, sebbene l'articolo 1 del Protocollo n. 1 non contenga requisiti procedurali espliciti, essa ha costantemente richiesto che i procedimenti interni offrano alla persona lesa una ragionevole opportunità di sottoporre il proprio caso alle autorità competenti al fine di contestare efficacemente le misure che interferiscono con i diritti garantiti da tale disposizione. Per accertare se tale condizione sia stata soddisfatta, occorre esaminare in modo globale le procedure applicabili (cfr. Rummi c. Estonia, n. 63362/09, § 104, 15 gennaio 2015).

La Corte ha già riconosciuto la compatibilità, in linea di principio, con la Convenzione delle procedure di confisca dei beni in assenza di una condanna che accerti la colpevolezza degli imputati, qualora tali beni siano collegati alla presunta commissione di vari reati gravi che comportano un arricchimento ingiustificato. Pertanto, ha ritenuto che le richieste fossero manifestamente infondate o che non vi fosse stata violazione nei casi relativi a reati di mafia

(cfr. Raimondo c. Italia, 22 febbraio 1994, §§ 16-30, Serie A n. 281-A; Arcuri e altri c. Italia (dec.), n. 52024/99, CEDU 2001-VII; e Morabito e altri c. Italia (dec.), n. 58572/00, CEDU 7 giugno 2005), traffico di droga ( cfr. Butler c .Regno Unito (dec.), n. 41661/98, 27 giugno 2002; Webb c. Regno Unito (dec.),n. 56054/00, 10 febbraio 2004; e Saccoccia c. Austria, n. 69917/01, §§ 87-91,18 dicembre 2008), corruzione nei servizi pubblici (cfr. Gogitidze e altri, §§ 103-14), criminalità organizzata (cfr. Silickienė, §§ 60-70) o riciclaggio di denaro (cfr. Balsamo c. San Marino, nn. 20319/17 e 21414/17, §§ 89-95, 8 ottobre 2019, e Zaghini c. San Marino, n. 3405/21, §§ 60-71, 11 maggio 2023). La Corte ha inoltre chiarito che la confisca non dovrebbe essere utilizzata per perseguire ulteriori obiettivi specificamente contemplati da altri strumenti, che contengono le proprie garanzie procedurali (cfr. Todorov e altri, § 203).

Riassumendo l'approccio seguito in tali casi, la Corte ha osservato, in primo luogo, che si può affermare l'esistenza di norme giuridiche comuni europee e persino universali che incoraggiano la confisca dei beni collegati a reati gravi reati quali la corruzione, il riciclaggio di denaro e i reati di droga, senza che sussista una precedente condanna penale. In secondo luogo, l'onere di provare l'origine lecita dei beni che si presume siano stati acquisiti illecitamente può essere legittimamente trasferito ai convenuti in tali procedimenti non penali

di confisca, compresi i procedimenti civili in rem. In terzo luogo, le misure di confisca possono essere applicate non solo ai proventi diretti del reato, ma anche ai beni, compresi i redditi e altri benefici indiretti, ottenuti convertendo o trasformando i proventi diretti del reato o mescolandoli con altri beni, eventualmente leciti. Infine, le misure di confisca potrebbero essere applicate non solo alle persone direttamente sospettate di reati, ma anche a terzi che detengono diritti di proprietà senza la necessaria buona fede, al fine di nascondere il loro ruolo illecito nell'accumulo della ricchezza in questione (cfr. Gogitidze e altri, §§ 105 e 107, e Telbis e Viziteu, § 76).

Nel valutare se le misure di confisca fossero compatibili con le garanzie sancite dall'articolo 1 del Protocollo n. 1, la Corte ha valutato, in primo luogo, la natura dei reati presupposto e, in particolare, la loro gravità e la questione se si potesse presumere che generassero redditi illeciti (cfr. Todorov e altri, § 200, e, in particolare, Yordanov e altri, § 115, quest'ultimo riguardante una confisca non basata su una condanna simile a quella in questione nel presente caso). La Corte ha espresso serie preoccupazioni in merito alla legislazione nazionale che prevedeva che le procedure per l'imposizione di misure simili potessero essere avviate non solo per reati particolarmente gravi come quelli relativi alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, alla corruzione nella pubblica amministrazione o al riciclaggio di denaro, o altri reati che si poteva presumere generassero sempre reddito, ma anche per una serie di altri reati, oltre ad alcuni reati amministrativi (cfr., in particolare, Yordanov e altri, § 115, e Todorov e altri, § 200). Inoltre, sebbene la Corte abbia ritenuto legittimo che le autorità nazionali competenti emettessero ordinanze di confisca sulla base di una preponderanza di prove che suggerivano che i redditi legittimi dei convenuti non potevano essere sufficienti per consentire loro di acquistare la proprietà in questione (cfr. Gogitidze e altri, § 107; Telbis e Viziteu, § 68; e Balsamo, § 91), ha chiarito che la possibilità di imporre tali misure dovrebbe essere subordinata alla necessità di individuare discrepanze «significative» tra il reddito legale accertato di una persona e i beni da essa posseduti (cfr. Todorov e altri, § 204).

In secondo luogo, la Corte ha chiarito che era necessario che le autorità nazionali stabilissero un nesso tra i beni da confiscare e i reati presupposto che erano stati presumibilmente commessi dalla persona in questione (cfr. Todorov e altri, § 212, relativo a una confisca estesa successiva alla condanna, e Yordanov e altri, § 124, relativo anch'esso a una confisca non basata su una condanna). Questo approccio è stato sviluppato dalla Corte nelle cause Todorov e altri e Yordanov e altri sulla base della sua giurisprudenza precedente. In particolare, la Corte ha osservato che nei casi precedenti aveva tenuto conto del fatto che le autorità nazionali che avevano ordinato la confisca avessero stabilito la provenienza criminale dei beni in questione. Ad esempio, nella causa G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia ([GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 301, 28 giugno 2018) ha rilevato nella sua analisi di proporzionalità il grado di colpevolezza o negligenza da parte dei ricorrenti. In altri casi, come Phillips (§ 53), Veits (§ 74) e Silickienė § 68), ha cercato di accertarsi che l'origine illecita o criminale dei beni da confiscare fosse stata accertata nei procedimenti interni, anche se non secondo uno standard di prova di diritto penale. Per contro, la Corte ha riscontrato violazioni delle disposizioni della Convenzione in alcuni altri casi di confisca in cui le autorità nazionali non avevano dimostrato che i beni confiscati fossero proventi di reato né avevano effettuato alcuna valutazione dei beni esatti che avrebbero potuto essere ottenuti attraverso il reato (cfr. Geerings c. Paesi Bassi, n. 30810/03, § 47, 1° marzo 2007, e Rummi, § 107).

Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che, nel determinare se fosse stato raggiunto il giusto equilibrio richiesto dall'articolo 1 del Protocollo n. 1 nei casi riguardanti la confisca di beni presumibilmente derivanti da attività illecite, fosse necessario valutare se i tribunali nazionali avessero fornito alcuni dettagli in merito alla presunta condotta criminale da cui avrebbero avuto origine i beni da confiscare e dimostrato in modo ragionato che tali beni potevano essere il provento della condotta criminale dimostrata o presunta (cfr. Todorov e altri, § 215, e Yordanov e altri, § 124).

Con specifico riferimento alla misura di "confisca preventiva" prevista dalla legge italiana, nella causa Garofalo e altri, la Corte ha ritenuto che essa non potesse essere considerata una sanzione, ai sensi dell'articolo 7 della Convenzione, in ragione di una serie di limitazioni previste dalla legge nazionale applicabile e dalla giurisprudenza e, in particolare, al fatto che la confisca in questione poteva essere applicata esclusivamente nei confronti di beni che si presumeva avessero origine da attività illecite, a causa della mancanza di prove che ne dimostrassero l'origine lecita (ibid., § 129); che la misura poteva essere giustificata solo nella misura in cui i reati presumibilmente commessi dall'interessato fossero fonte di profitti illeciti, di importo ragionevolmente congruente con il valore dei beni da confiscare (ibid.,§ 130); che la misura potesse essere applicata solo in relazione ai beni acquisiti dall'interessato durante il periodo in cui avrebbe presumibilmente commesso reati che comportavano profitti illeciti, dimostrando così che tale misura mirava a prevenire l'arricchimento ingiustificato sulla base della commissione di reati (ibid., § 131); e che essa doveva essere applicata solo in relazione ai profitti illeciti derivanti dai reati presumibilmente commessi dall'interessato, senza estendersi al prodotto del reato (ibid.,§ 132).

In terzo luogo, per quanto riguarda le garanzie procedurali e in particolare lo standard di prova imposto alle autorità nazionali, ogniqualvolta un provvedimento di confisca fosse il risultato di un procedimento relativo ai proventi di reati gravi, la Corte non ha richiesto la prova «al di là di ogni ragionevole dubbio» dell'origine illecita dei beni in tali procedimenti. È stato invece ritenuto sufficiente, ai fini del controllo di proporzionalità ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, il bilanciamento delle probabilità o l'elevata probabilità dell'origine illecita, unitamente all'incapacità del proprietario di provare il contrario (cfr. Silickienė, §§ 60-70; Balsamo, § 91; Telbis e Viziteu, § 68; e Zaghini, § 62). Tuttavia, la Corte ha chiarito che l'ordinamento giuridico interno dovrebbe limitare il periodo di tempo in cui i beni in questione possono essere confiscati, al fine di non rendere eccessivamente oneroso per l'interessato fornire la prova del reddito lecito o della provenienza lecita dei beni acquisiti molti anni prima dell'avvio del procedimento di confisca (cfr. Todorov e altri, § 201-02, e Yordanov e altri, §§ 116-17).

Inoltre, la Convenzione ha concesso alle autorità nazionali la facoltà di applicare misure di confisca non solo alle persone direttamente accusate di reati, ma anche ai loro familiari e altri parenti stretti che si presumeva possedessero e gestissero informalmente i beni "illeciti" per conto dei sospetti autori dei reati, o che comunque non possedevano il necessario status di buona fede (cfr. Gogitidze e altri, § 107, e Telbis e Viziteu, § 68, con ulteriori riferimenti). La Corte ha ritenuto ragionevole che i ricorrenti, che si presumeva avessero indebitamente beneficiato dei proventi dei reati commessi dai loro familiari, fossero tenuti ad assolvere la loro parte dell'onere della prova confutando i fondati sospetti del pubblico ministero circa l'origine illecita dei loro beni (cfr. Balsamo, § 91, e Telbis e Viziteu, § 77). Tuttavia, la Corte ha richiesto alle autorità nazionali di dimostrare l'esistenza di un nesso tra i beni in questione e i reati commessi dal presunto autore del reato, senza basarsi sulla semplice discrepanza tra le entrate e le spese della persona proprietaria dei beni (cfr. Todorov e altri, § 221).

Fintantoché è stata effettuata l'analisi del nesso tra i beni da confiscare e i reati presupposto, la Corte si rimette generalmente alla valutazione dei tribunali nazionali, a meno che i ricorrenti non abbiano dimostrato che tale valutazione è arbitraria o manifestamente irragionevole (cfr. Yordanov e altri, § 125, con ulteriori riferimenti).

b) L'applicazione dei principi sopra esposti al caso di specie

Tenuto conto dei principi generali sopra ribaditi e delle denunce dei ricorrenti, la Corte ritiene che nel caso di specie sia necessario valutare se i tribunali nazionali abbiano motivato in modo ragionato e sulla base di una valutazione obiettiva dei fatti e delle prove che i beni confiscati potessero essere stati acquistati con i proventi di reati gravi che generano redditi illeciti. In tale contesto, la Corte ha chiesto alle autorità nazionali di fornire almeno alcuni dettagli in merito alla presunta condotta illecita che ha portato all'acquisizione dei beni da confiscare e di stabilire un nesso tra tali beni e la condotta illecita (Todorov e altri, §§ 220 e 238), in particolare dal punto di vista temporale. La Corte sottolinea che tale valutazione è richiesta non solo dalla giurisprudenza europea, ma anche dalla giurisprudenza nazionale pertinente.

Nel caso di specie, la Corte rileva che le autorità nazionali hanno osservato che il primo ricorrente aveva commesso diversi reati tra il 1980 e il 1998, tra cui rapine e tentate rapine nel 1980, 1993, 1994,1995 e 1998, furto aggravato nel 1980, estorsione nel 1987, associazione a delinquere finalizzata alla rapina tra il 1990 e il 1995 e ricettazione nel 1995, e hanno inoltre osservato che egli aveva commesso un altro furto nel 2008. La Corte osserva che, secondo la fedina penale del ricorrente, l'ultimo reato citato era un tentativo di furto.

Il procedimento di confisca è iniziato nel 2018 con la richiesta del questore e si è concluso nel 2022 con la sentenza definitiva della Corte di cassazione che ha confermato la decisione del tribunale di primo grado sulla confisca.

In primo luogo, la Corte osserva di aver già espresso serie preoccupazioni quando ha constatato che le autorità nazionali avevano confiscato beni acquisiti molti anni dopo la commissione dei reati presupposto su cui si basava la misura contestata (cfr. Todorov e altri, §§ 219 e 237, e, mutatis mutandis, Dimitrovi, § 46). Nel caso di specie, la Corte osserva che non vi è alcuna ragione apparente per cui le autorità abbiano atteso dieci anni dopo la fine del periodo in cui il primo ricorrente aveva rappresentato un pericolo per la società (dal 1980 al 2008) per avviare il procedimento di confisca. Inoltre, la Corte sottolinea che, secondo i tribunali nazionali, il primo ricorrente ha rappresentato per la prima volta un pericolo per la società nel 1980, ovvero trentotto anni prima.

In secondo luogo, per quanto riguarda i dettagli della condotta criminale che avrebbe potuto generare i presunti proventi di reato e la capacità di tali reati di generare reddito nel caso in esame, la Corte osserva quanto segue: le autorità nazionali si sono limitate a fare riferimento al fatto che il primo ricorrente era stato condannato per diversi reati senza valutare se i reati presupposto avessero prodotto, nelle circostanze specifiche del caso, un guadagno finanziario significativo, in particolare tenuto conto del fatto che il ricorrente era stato condannato in molti casi per tentato reato; che in un'occasione i tribunali nazionali hanno applicato circostanze attenuanti, definite dall'articolo 62§ 6 del codice penale, come «il pieno risarcimento del danno prima del processo, mediante indennizzo o, se possibile, restituzione; [e] l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato».

Per quanto riguarda più specificamente il periodo compreso tra il 1998 e il 2008, la Corte osserva che il ricorrente, dopo aver trascorso un lungo periodo in carcere, ha commesso un tentativo di furto nel 2008 e che le autorità non hanno fornito alcuna motivazione sul modo in cui tale reato avrebbe potuto generare un reddito illecito.

Inoltre, nella maggior parte dei casi, i tribunali penali hanno emesso un ordine di confisca di beni non specificati al momento della condanna. Tuttavia, il ragionamento dei tribunali non tiene conto di tali precedenti confische penali né del loro potenziale impatto sulla confisca preventiva dei beni dei ricorrenti.

Alla luce di quanto sopra, e tenendo conto della giurisprudenza nazionale citata che richiede la commissione, durante un «periodo di tempo significativo», di «attività criminali che [...] producono redditi illeciti», la Corte ritiene che i tribunali nazionali non abbiano dimostrato in modo ragionato che si potesse presumere che il primo ricorrente avesse commesso abitualmente reati in grado di produrre redditi illeciti.

In terzo luogo, per quanto riguarda il fatto che i beni confiscati potessero essere il prodotto di attività criminali, la Corte osserva che essi sono stati acquistati nel 2010, nel 2016 e nel 2018, vale a dire – ad eccezione dell'acquisto del 2010 – molti anni dopo la fine del periodo durante il quale il ricorrente era considerato un pericolo per la società (2008) e ancora più a lungo dopo che egli aveva commesso reati in grado di generare redditi illeciti (1998).

La Corte aggiunge che nel caso di specie i tribunali nazionali hanno presunto l'esistenza di un nesso tra tali beni e la condotta illecita di cui era stato accusato il primo ricorrente, sulla base del solo fatto che il reddito legittimo dei ricorrenti era insufficiente a giustificare i loro beni.

La Corte osserva che, secondo la Corte d'appello, il rapporto sproporzionato tra i beni posseduti e il reddito potrebbe costituire l'unica prova dell'origine illecita di tali beni. Inoltre, la Corte di cassazione ha precisato che, al fine di giustificare l'origine dei beni soggetti a confisca, fornire «una giustificazione per ogni singola transazione [era] irrilevante, dato che il confronto tra le risorse legittimamente disponibili e i singoli acquisti [non poteva] essere effettuato in modo isolato, slegato dal contesto complessivo delle transazioni finanziarie e dei movimenti di beni effettuati nello stesso periodo di tempo limitato, ma [doveva] essere effettuato alla luce di una considerazione complessiva dei movimenti patrimoniali avvenuti nel periodo in questione e della destinazione complessiva di tutte le risorse economiche disponibili».

Tuttavia, la Corte ha già stabilito in precedenza che, indipendentemente dal periodo in cui sono stati acquistati i beni confiscati, il semplice riferimento alla discrepanza tra entrate e uscite non è sufficiente per stabilire un nesso tra i reati presupposto e i beni confiscati (cfr. Todorov e altri, § 221).

Pertanto, la Corte ritiene che il ragionamento dei tribunali nazionali sia stato insufficiente per quanto riguarda l'esistenza di un nesso tra i beni confiscabili e la condotta illecita.

Inoltre, la Corte osserva che la Corte di cassazione ha chiarito che, in linea di principio, era possibile confiscare solo i beni acquisiti durante il periodo in cui la persona in questione aveva rappresentato un pericolo per la società e che, di conseguenza, i beni acquisiti al di fuori di tale periodo non potevano essere confiscati, indipendentemente dal fatto che il loro valore fosse sproporzionato rispetto al reddito legittimo dell'individuo. La giurisprudenza successiva ha chiarito che i beni acquistati dopo tale periodo potevano essere confiscati, a condizione che fossero attuate alcune garanzie, che richiedevano, in particolare, che il tribunale competente fornisse la prova dell'esistenza di molteplici elementi di fatto in grado di dimostrare che l'acquisizione dei beni derivava dal patrimonio accumulato nel periodo in cui erano state commesse le attività criminali, e con la precisazione che tali elementi di fatto dovevano essere dimostrati in modo più rigoroso e inequivocabile quanto maggiore era il tempo trascorso dalla cessazione del pericolo per la società rappresentato dall'individuo in questione. Inoltre, la Corte osserva che con sentenza del 16 aprile 2020 la Corte di cassazione ha chiarito che, a determinate condizioni specifiche, la confisca preventiva può essere disposta anche nei confronti di beni acquistati dopo il periodo in cui l'individuo in questione ha rappresentato un pericolo per la società. Essa osserva inoltre che sia la richiesta del pubblico ministero di sequestro dei beni del ricorrente sia la sentenza del Tribunale di Palermo che ha disposto tale sequestro sono anteriori alla suddetta sentenza della Corte di cassazione. Inoltre, la Corte rileva che i tribunali nazionali hanno anche fatto riferimento al fatto che il primo ricorrente aveva acquistato un immobile nel 1994, nel periodo in cui aveva commesso i reati che avevano portato alla sua dichiarazione di persona pericolosa per la società, e hanno osservato che tale immobile era stato successivamente venduto, dando inizio a una serie di

transazioni che, a loro avviso, avevano portato all'acquisto dei beni confiscati nel caso di specie.

Sulla base delle considerazioni sopra esposte, la Corte osserva che le carenze individuate hanno viziato la valutazione di tale proprietà da parte dei tribunali nazionali. Inoltre, al di là del semplice riferimento alla discrepanza tra il reddito dei ricorrenti e spese, i tribunali nazionali non hanno proceduto a una valutazione rigorosa della catena di reinvestimenti che ha portato all'acquisto dei beni confiscati, omettendo di fornire elementi specifici. A titolo esemplificativo, la Corte osserva che le autorità nazionali hanno confiscato conti bancari aperti sei e otto anni dopo la fine del periodo in cui il primo ricorrente aveva rappresentato un pericolo per la società, sulla base della semplice discrepanza tra le entrate e le spese della famiglia e senza valutare in alcun modo le transazioni bancarie al fine di risalire all'origine del denaro.

A questo proposito, la Corte osserva che la loro valutazione non soddisfaceva nemmeno lo standard probatorio ridotto richiesto dalla giurisprudenza della Corte per l'imposizione di misure simili. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, la confisca dei beni acquisiti dopo un periodo di tempo considerevole rispetto al momento in cui la persona in questione era considerata pericolosa per la società era «subordinata alla presenza di elementi specifici che consentissero di ricondurre in modo rigoroso e inequivocabile l'acquisto in questione al reinvestimento diretto di capitali precedentemente accumulati in modo illecito» . La Corte osserva che l'avvocato generale della Corte di cassazione non ha ritenuto che le decisioni dei tribunali nazionali contenessero un ragionamento di questo tipo.

Pertanto, la Corte ritiene che il ragionamento dei giudici nazionali non fosse conforme al requisito di un nesso temporale tra i beni confiscati e i reati che avrebbero generato il reddito illecito.

Prima di concludere, la Corte osserva inoltre che nessuno dei beni confiscati nel caso di specie era ufficialmente di proprietà del primo ricorrente, destinatario del provvedimento impugnato, bensì dei secondi e terzi ricorrenti, che non erano stati ritenuti dalle autorità nazionali come individui pericolosi per la società. Tuttavia, le decisioni dei tribunali nazionali non includevano alcun tipo di motivazione sul motivo per cui i beni confiscati potessero essere considerati a disposizione del primo ricorrente, come richiesto dalla legge nazionale. Si basavano semplicemente sul fatto che il secondo e il terzo ricorrente non disponevano di un reddito legale sufficiente a giustificare l'acquisto dei beni confiscati. I tribunali nazionali hanno quindi presunto che vi fosse un nesso tra i beni confiscati e le attività criminali del primo ricorrente e che essi fossero quindi proventi di reato, dopo aver constatato che il secondo e il terzo ricorrente non avevano fornito la prova di un reddito legale sufficiente (cfr. Todorov e altri, § 246).

La Corte ritiene pertanto che le decisioni dei tribunali nazionali non abbiano fornito alcuna motivazione che dimostri che i beni confiscati, acquistati nel 2010, 2016 e 2018 dal secondo e dal terzo ricorrente, potessero essere considerati come acquisiti con i proventi dei reati commessi tra il 1980 e il 1998 dal primo ricorrente, e che essi fossero a sua disposizione. Pertanto, non sono riusciti a dimostrare in modo ragionato e sulla base di una valutazione obiettiva dei fatti e delle prove che i beni confiscati potessero essere considerati come acquistati con i proventi dei reati commessi dal primo ricorrente.

Conclusioni

Alla luce di quanto sopra, e ribadendo che il suo potere di verificare la conformità con il diritto interno è limitato ai casi di applicazione manifestamente errata delle disposizioni giuridiche in questione o di conclusioni arbitrarie (cfr. BENet Praha, spol. sr.o. c. Repubblica Ceca, n. 33908/04, § 97, 24 febbraio 2011, e BTS Holding, a.s. c. Slovacchia, n. 55617/17, § 65, 30 giugno 2022), la Corte ritiene che le carenze delle decisioni dei tribunali nazionali fossero così gravi e manifestamente incompatibili con diverse limitazioni e garanzie stabilite dalla legislazione nazionale e dalla giurisprudenza pertinenti che la misura deve essere considerata come imposta in modo arbitrario o manifestamente irragionevole.

In particolare, la Corte ritiene che le decisioni dei tribunali nazionali non fossero conformi alle limitazioni stabilite dalla legge nazionale per quanto riguarda l'identificazione dei reati che producono redditi illeciti, la delimitazione temporale dei beni che potevano essere legittimamente sottoposti a confisca e l'identificazione dei beni che, sebbene ufficialmente di proprietà di terzi, erano considerati a disposizione della persona in questione.

In ogni caso, e anche supponendo che i limiti stabiliti dal diritto interno non fossero stati così gravemente disattesi, il fatto che il procedimento sia stato avviato molti anni dopo gli ultimi reati e che le autorità nazionali non abbiano stabilito alcun nesso tra le attività criminali del primo ricorrente e i beni confiscati è sufficiente affinché la Corte ritenga che non sia stato raggiunto il necessario equilibrio equo tra gli obiettivi legittimi di interesse pubblico perseguiti dalla misura in questione e i diritti individuali dei ricorrenti, vale a dire che la confisca dei beni dei ricorrenti ha costituito un'ingerenza sproporzionata nei loro diritti ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1.

La Corte EDU dichiara quindi che si è quindi verificata una violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1.

La morte della confisca italiana di prevenzione

La sentenza è importante perché riconosce che la confisca di prevenzione è illegittima a causa della mancata dimostrazione da parte del giudice nazionale di un nesso tra le attività criminali del ricorrente e i beni confiscati, con la conseguenza di un mancato raggiungimento di un giusto equilibrio tra l'interesse pubblico perseguito dalla stessa confisca e il diritto di proprietà.

Com'è noto, la Corte EDU si era di recente pronunciata sulla natura e sulla funzione della confisca italiana di prevenzione e, alla luce della normativa interna e della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, e ne ha escluso la natura sanzionatoria o punitiva (e, dunque, la violazione dell'art. 7, comma 1, Cedu) e ne avevza affermato la «natura ripristinatoria» («restorative and not punitive nature») in quanto mira a garantire che il crimine non paghi e a prevenire l'ingiusto arricchimento («ensure that crime does not pay and to prevent unjust enrichment»).

La pronuncia annotata fa un passo ulteriore, logicamente conseguente alla precedente giurisprudenza europea: infatti, per dimostrare l'ingiusto arricchimento, il giudice della prevenzione deve dar conto del rapporto intercorrente tra il reato asseritamente commesso dal proposto e l'ingiusto profitto da lui ricavatone e che deve perciò essere confiscato. In questo modo la Corte EDU elide la confisca di prevenzione e la trasforma in confisca del profitto del reato.

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