Avvocato: limiti dell'utilizzo di espressioni «offensive» e «sconvenienti» negli atti processuali

La Redazione
23 Ottobre 2025

Il Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza n. 465/2024, pubblicata il 1° luglio 2025, ha ritenuto che le espressioni riportate nel capo di incolpazione rispondevano alle esigenze difensive che l'avvocato aveva dovuto soddisfare nell’interesse del suo assistito, anche in ragione delle difficoltà insite nelle particolari circostanze in cui era stato costretto ad agire.

Nel caso esaminato un avvocato presentava ricorso contro la decisione del Consiglio Distrettuale di Trieste, con la quale era stata comminata la sanzione della censura per avere espresso, nella comparsa di risposta, apprezzamenti denigratori sull’attività di un’avvocatessa e usato espressioni offensive e sconvenienti nei confronti della collega.

Più precisamente, l’avvocato scriveva che l’avvocatessa aveva introdotto una azione «finalizzata ad ottenere la dichiarazione di nullità dell’accordo dalla stessa concluso» violando norme di legge e deontologiche; «si considerino inoltre i possibili riflessi penali del comportamento in questione: l’avv. (omissis) al fine di consentire alla propria cliente di continuare nel proprio illecito…ha indotto la controparte a sottoscrivere una transazione con la riserva mentale di impugnarla, così da protrarre per altri mesi ed anni l’illecita occupazione dell’immobile altrui e da procurare a sé e alla sua cliente un ingiusto profitto con altrui danno, essendo ben consapevole dell’insolvenza della sua cliente… mentre lei avrebbe comunque locupletato il compenso per tali ingiuste iniziative in giudizio, avendo chiesto e ottenuto dall’Ordine degli Avvocati di Gorizia l’ammissione al gratuito patrocinio; è assurdo che un legale chieda di essere pagato dallo Stato per compiere illeciti».

Dalla disamina di tutti gli elementi emergenti dagli atti del procedimento e, in particolare dall’intero contenuto dell’atto difensivo riportante le espressioni ritenute offensive, Il Consiglio Nazionale Forense rileva che «le espressioni riportate nel capo di incolpazione rispondono alle esigenze difensive che il ricorrente ha dovuto soddisfare nell’interesse del suo assistito, anche in ragione delle difficoltà insite nelle particolari circostanze in cui è stato costretto ad agire».

Il conflitto tra il dovere di difesa, da un lato, e il dovere di non utilizzare espressioni che possano offendere il contraddittore, dall’altro lato, va risolto dando prevalenza al «diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo e insindacabile salvo l’ipotesi in cui le espressioni offensive siano gratuite, ossia non abbiano relazione con l’esercizio del diritto di difesa e siano oggettivamente ingiuriose» ( cfr. Consiglio Nazionale Forense sentenza n. 93 del 3 maggio 2021) e che, «pertanto non commette illecito disciplinare l’avvocato che, in un atto del giudizio, usi espressioni forti per effettuare valutazioni generali attinenti alla materia del contendere e a scopo difensivo» (cfr. Consiglio Nazionale Forense sentenza n. 86 del 23 settembre 2019).

Nel caso in esame, dunque «l’incolpato non aveva altra scelta, per tutelare la parte assistita, se non quella di stigmatizzare l’azione posta in essere dalla collega di parte avversa alla stregua delle norme processuali e sostanziali, la cui violazione fosse in grado di determinare l’invalidità degli opposti atti difensivi». Inoltre, tutte le argomentazioni difensive utilizzate dall'incolpato, sebbene involgenti direttamente l'attività professionale posta in essere dalla collega di controparte, «possono ritenersi assolvere ai profili della continenza, della pertinenza e della verità, così da non potersi ritenere ricorrenti i profili di responsabilità disciplinare addebitati allo stesso ricorrente».

Pertanto, non potendosi ritenere sussistenti gli addebiti disciplinari contestati, il CNF accoglie il ricorso.

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