Prezzi di trasferimento e detrazione IVA nelle prestazioni infragruppo intra UE

24 Ottobre 2025

Con sentenza resa in C-726/23, la Corte UE ha affermato che la remunerazione dei servizi infragruppo, forniti dalla casa madre ad una propria controllata appartenente al gruppo, calcolata con il metodo del margine netto della transazione, conformemente alle raccomandazioni contenute nelle linee guida OCSE sui prezzi di trasferimento, costituisce il corrispettivo di una prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso, per tale motivo rientrante nell'ambito di applicazione dell'IVA ai sensi dell'art. 2 della Direttiva IVA 2006/112.

Quanto al correlato diritto alla detrazione dell'IVA in capo alla controllata, la Corte ha altresì affermato la compatibilità, rispetto alla direttiva IVA, della richiesta veicolata dall'Erario al committente soggetto passivo di produrre ulteriori documenti, oltre alla fattura, al fine di provare l'esistenza delle prestazioni di servizi ivi menzionate nonché il loro utilizzo a valle ai fini delle operazioni soggette ad IVA (inerenza), purché la produzione di tali prove sia necessaria e proporzionata a tale scopo.

Il caso

La questione ha ad oggetto l'individuazione del trattamento fiscale da attribuire ai servizi infragruppo forniti dalla Casa madre, stabilita in uno Stato membro, nei confronti di una società figlia stabilita in differente Stato membro, alla luce delle indicazioni contenute nelle raccomandazioni formulate dall'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito a tali prestazioni, dal momento che queste sarebbero la risultante del sistema dei prezzi di trasferimento (T.P.) per le imprese multinazionali, da cui l'assoggettamento ad IVA quali autonome prestazioni di servizio.

Tale vicenda origina da una verifica fiscale avente ad oggetto la contestazione della detrazione IVA contenuta in alcune fatture riguardanti i servizi infragruppo resi tra due società appartenenti al medesimo gruppo, sulla base della motivazione che la società acquirente non aveva presentato documenti che giustificassero la prestazione dei servizi fatturati né la loro necessità ai fini delle operazioni imponibili.

La ricorrente, società di diritto rumeno, fa parte di un gruppo mondiale, operante nel settore del noleggio di gru e, nell'ambito di tale gruppo, acquista o noleggia tali mezzi che successivamente vende o noleggia ai clienti finali. La società madre del gruppo (localizzata in Belgio) si occupa di ricercare i fornitori per la società rumena (così come per le altre società del gruppo) e negozia i termini contrattuali con detti fornitori. Il rapporto contrattuale con i fornitori e con i clienti finali viene, invece, sviluppato successivamente dalla ricorrente società rumena.

Nel 2010 una società di consulenza effettuava uno studio sui T.P. per conto della società madre belga, relativamente al suo rapporto con le entità associate e, dall'analisi altresì delle linee guida OCSE in argomento, concludeva che sul mercato di riferimento le società figlie dovevano registrare, in forza delle norme sui prezzi di trasferimento, un margine di utile operativo compreso tra -0,71% e 2,74%.

Su tale presupposto, quindi, la casa madre e la controllata rumena stipulavano un contratto per garantire a quest'ultima un margine di utile operativo compreso in tale intervallo, a latere del quale si prevedeva inoltre l'emissione annuale di una fattura di perequazione da parte della casa madre belga, in caso di eccedenza di utile al di sopra del 2,74%, o da parte della società rumena in caso di eccedenza di perdite al di sotto del -0,71%.

Al contrario, nessuna remunerazione era dovuta qualora il margine fosse compreso tra -0,71% e 2,74%.

Nel contratto, in forza del quale ciascuna parte si impegnava ad effettuare un determinato numero di prestazioni a favore dell'altra, venivano stabilite le attribuzioni della ricorrente (quale società operativa), al fine di determinare la strategia locale per massimizzare i prezzi offerti ai clienti, nonché le attribuzioni della casa madre, tra le quali rientravano la maggior parte delle responsabilità commerciali nonché la strategia e la pianificazione, la negoziazione di contratti quadro con fornitori terzi, la negoziazione dei termini e delle condizioni dei contratti di finanziamento, l'ingegneria, la finanza, la gestione della flotta a livello centrale, nonché la gestione della qualità e della sicurezza. Inoltre, essa si assumeva i rischi economici più importanti relativamente all'attività della ricorrente, mentre quest'ultima si impegnava ad acquistare e a possedere tutti i prodotti necessari all'esercizio della propria attività e ad essere responsabile della vendita e del noleggio di tali prodotti, nonché della prestazione di servizi.

Dal momento che per 3 anni consecutivi (2011-2013) la società rumena aveva registrato un'eccedenza di utile rispetto al limite previsto, la casa madre emetteva 3 fatture senza l'indicazione dell'IVA, valutandole relative a prestazioni di servizi intra UE.

La controllata rumena dichiarava le prime due fatture come relative ad acquisti intra UE di servizi per i quali applicava l'IVA con il meccanismo del reverse charge, ritenendo invece che la terza fattura fosse stata emessa per operazioni che non rientravano nell'ambito di applicazione dell'IVA.

In seguito, la ricorrente è stata sottoposta ad una verifica fiscale riguardante gli anni di emissione di tali tre fatture di perequazione, nel corso della quale le veniva richiesta la presentazione di documenti giustificativi ulteriori rispetto alle fatture, che attestassero la realtà della prestazione dei servizi e la necessità della loro esecuzione ai fini delle operazioni imponibili della ricorrente.

La verifica si concludeva con il disconoscimento della detrazione IVA effettuata sulla base delle fatture emesse dalla casa madre, sul motivo che non aveva giustificato l'effettiva realizzazione delle prestazioni di servizi fatturate e la loro inerenza.

La ricorrente presentava opposizione all'accertamento fiscale che veniva rigettata dal primo giudice, a seguito del quale proponeva ricorso contro la sentenza dinanzi al giudice del rinvio, il quale nutriva dubbi in primo luogo in merito alla questione se un importo, fatturato da una prima società verso una seconda appartenente al medesimo gruppo, che consente di aggiustare il margine di utile operativo di quest'ultima secondo il metodo del margine netto della transazione in conformità alle linee guida dell'OCSE, costituisse o meno il corrispettivo effettivo di un servizio reso dalla prima società e, di conseguenza, implicasse l'esistenza di una prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso, rilevante ai fini IVA ai sensi dell'art. 2, par. 1, lett. c), della Direttiva IVA 2006/112

In tal caso le fatture di perequazione in oggetto costituirebbero uno strumento formale per aggiustare il margine di utile operativo della società alla quale sono indirizzate, senza che esista un nesso con una prestazione di servizi e, quindi, in assenza di un servizio chiaramente individuabile fornito alla società figlia, l'aggiustamento del margine operativo di quest'ultima non rientrerebbe nell'ambito di applicazione dell'IVA.

In secondo luogo, ritenere che la società madre fornisca alla figlia una prestazione di servizi rilevante ai fini IVA, avrebbe posto la questione se l'IVA assolta a monte dalla ricorrente in relazione con tale prestazione fosse detraibile, dato che la prima società aveva fornito tali servizi ai fini dell'attività imponibile della seconda società.

Oltre a ciò, in assenza di una normativa nazionale specifica, vi era il problema di stabilire se la richiesta da parte dell'Erario rumeno di documenti aggiuntivi al fine dell'esercizio del diritto a detrazione dell'IVA, diversi dalle fatture, fosse conforme al principio di proporzionalità, sancito dalla giurisprudenza della Corte UE in materia di IVA (al riguardo la norma rumena richiede solo l'esistenza di una fattura per esercitare il diritto alla detrazione dell'IVA, a differenza della prassi amministrativa che subordina l'esercizio di tale diritto alla produzione, da parte del soggetto passivo, di documenti diversi dalle fatture).

Sulla base di tali osservazioni, il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte UE se l'art. 2, par. 1, lett. c), della direttiva IVA vada interpretato nel senso che l'importo fatturato alla società operativa, pari all'importo necessario per allineare l'utile di tale società alle attività svolte e ai rischi assunti secondo il metodo del margine delle linee guida dell'OCSE sui prezzi di trasferimento, costituisca un pagamento per un servizio rientrante nel campo IVA e se, in caso affermativo, l'Erario possa richiedere, oltre alla fattura, ulteriori documenti (quali relazioni di attività, stati di avanzamento dei lavori, ecc.), che giustifichino l'utilizzo dei servizi acquistati ai fini delle operazioni imponibili del soggetto passivo, o se il diritto alla detrazione IVA debba basarsi sul solo principio di inerenza IVA (legame diretto fra acquisto e attività economica del soggetto passivo).

Necessità di un approccio case by case rispetto alla riconducibilità di aggiustamenti TP al concetto di corrispettivo per servizi a titolo oneroso

Con la prima domanda il giudice del rinvio ha chiesto alla Corte UE se gli importi fatturati da una società madre (che fornisce servizi commerciali e si assume le responsabilità commerciali connesse all'attività della controllata rumena in qualità di società operativa) ad una società figlia stabilita in un differente Stato membro, sulla base di un metodo raccomandato dalle linee guida OCSE (qui il metodo del margine netto della transazione), possano o meno costituire il corrispettivo di una prestazione di servizi a titolo oneroso che rientra nell'ambito di applicazione della direttiva IVA.

Secondo il Comitato IVA, la diversità tra i due settori considerati esige una valutazione da effettuare caso per caso (v. il Working Paper n. 923 del 28 febbraio 2017, p. 3.2.1).

Al fine di valutare se i TP ed i relativi aggiustamenti siano o meno soggetti all'IVA, già l'avv. gen. De La Tour, nelle sue conclusioni a C-726/23 (v. p. 32), suggeriva che tale valutazione debba avere luogo caso per caso per tre motivi.

In primo luogo, alla luce del fatto che le linee guida dell'OCSE sono state elaborate ai fini delle imposte dirette (v. C‑210/04, p. 39), il Comitato IVA, nel Working Paper n. 923 citato (v. anche le conclusioni del VAT Expert Group (VEG) nel doc. VEG n. 71 del 18 aprile 2018), ha affermato (v. il p. 3.4, pag. 23, del doc. n. 923 cit.) che sussiste una tensione tra le norme in materia di prezzi di trasferimento stabilite ai fini della fiscalità diretta che, sulla base del principio di libera concorrenza, sono intese alla valutazione di libera concorrenza di una transazione (vale a dire il valore normale) e le norme in materia di IVA, generalmente fondate sull'esistenza di una prestazione a titolo oneroso, in cui il corrispettivo è considerato un valore oggettivo (vale a dire il prezzo effettivamente pagato).

Di qui, quindi, tra tali due normative, che si fondano su concetti distintidi soggetto passivo e di base imponibile, differiscono tanto gli obiettivi quanto i mezzi.

In secondo luogo, in materia di T.P., come riferisce altresì il Comitato IVA, esistono diversi tipi di rettifiche di tali valori, dato che alcune di queste sono effettuate dalle autorità fiscali (rettifica primaria), altre invece su base volontaria dai contribuenti (aggiustamento compensativo), mentre alcune vengono effettuate prima della dichiarazione dei redditi, altre a posteriori.

In terzo luogo, l'assoggettamento all'IVA è legato all'analisi delle condizioni, da ricercare caso per caso, previste dall'art. 2, par. 1, lett. c), della Direttiva IVA 2006/112, vale a dire se siano state effettuate prestazioni di servizi a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale.

L'analisi del concetto di onerosità, affrontata dalla Corte UE in numerosi precedenti (v. tra i tanti C‑527/23, p. 23;  C‑90/20, p. 27; C‑21/20, p. 31; C‑295/17, p. 39; C‑11/15, p. 22; C-102/86, p. 11, 12 e 16), presuppone che un'operazione sia soggetta all'IVA solo qualora tra il prestatore ed il beneficiario intercorre un rapporto giuridico nel corso del quale vengano scambiate prestazioni reciproche e la remunerazione percepita dal prestatore costituisce l'effettivo controvalore del servizio fornito al beneficiario, ossia evidenzia un nesso diretto tra il servizio prestato (o il bene ceduto) ed il controvalore ricevuto.

L'esistenza di un tale rapporto giuridico nel caso in commento, che evidenzia l'onerosità della prestazione effettuata dalla società madre verso la controllata rumena, risiede proprio nel contratto tra le due entità, in base al quale ciascuna parte si impegna ad effettuare un certo numero di prestazioni a favore dell'altra, laddove la prima assume a proprio carico, in particolare, sotto il profilo operativo, la maggior parte delle responsabilità commerciali, quali la strategia e la pianificazione, la negoziazione di contratti (quadro) con fornitori terzi, la negoziazione dei termini e delle condizioni dei contratti di finanziamento, l'ingegneria, la finanza, la gestione della flotta delle gru a livello centrale, nonché la gestione della qualità e della sicurezza.

Essa, in altre parole, si impegna ad assumere i rischi economici più importanti relativamente all'attività della società operativa, a condizione che quest'ultima rispetti le istruzioni, le procedure e le decisioni del committente a tale riguardo, oltre ad acquistare e possedere tutti i prodotti ed essere responsabile della vendita e del noleggio dei prodotti, nonché della prestazione dei servizi.

Il contratto, inoltre, prevede una remunerazione pari all'importo necessario per porre la controllata in una situazione corrispondente alle attività da essa svolte ed ai rischi da essa assunti, determinata tra le parti e basata sul metodo del margine netto della transazione, alla luce del fatto che qualora la casa madre abbia diritto a ricevere una remunerazione da parte della controllata per le sue attività contrattuali, la prima emetterà una fattura nei confronti della seconda alla fine di ogni anno, mentre quest'ultima sopporterà l'importo dell'IVA relativa alla remunerazione percepita dalla casa madre in conformità con la legislazione fiscale locale.

Alla luce di ciò, quindi, dal contratto emerge con tutta evidenza l'esistenza sia di una prestazione sia di una remunerazione.

Quanto poi all'individuazione di un servizio individuabile, questo è rintracciabile nella misura in cui la casa madre non soltanto negozia le condizioni dei contratti che saranno conclusi dalla sua società figlia, ma assolve altresì una serie di compiti che concorrono alla vita economica della controllata.

In merito, poi, all'esistenza di un nesso diretto tra il servizio reso e il controvalore ricevuto tra le due società, nonostante la particolare modalità di remunerazione scelta dalle parti (la controllata è tenuta a versare alla controllante l'importo del margine di utile superiore al 2,74%) porti a ritenere che l'importo della remunerazione sia di per sé indeterminato, di contro, però, come anche riferito dall'avv. gen. De La Tour nelle sue conclusioni (p. 46), le modalità di tale remunerazione sono stabilite nel contratto con criteri molto precisi e sono, inquanto tali, prive di incertezze.

L'importo della remunerazione per le prestazioni effettuate dalla casa madre a beneficio della controllata, è quindi perfettamente determinabile sin dalla conclusione di tale contratto.

Del resto la giurisprudenza della Corte UE è costante nel ribadire l'irrilevanza dell'importo del corrispettivo, in particolare la circostanza che esso sia pari, superiore o inferiore ai costi che il soggetto passivo ha sostenuto (v.C‑90/20, p. 45).

Al riguardo, la Corte UE ha affermato che tale nesso diretto non è compromesso quando la remunerazione è prevista sotto forma di forfait o di cessione del 50% del credito derivante dalle vincite provenienti dai premi ottenuti da cavalli nelle competizioni (v. C‑846/19, p. 42 e C‑713/21, p. 49).

In tal caso, il carattere incerto della remunerazione è tale da interrompere il nesso diretto tra il servizio prestato e l'eventuale remunerazione ricevuta. Tuttavia, la cessione del 50% del credito corrispondente alle vincite derivanti dai premi ottenuti da cavalli durante le competizioni è, in quanto tale, esente da incertezze e è il mancato ottenimento di un premio connesso a una vittoria non potrebbe rimettere in discussione l'esistenza della cessione prevista dal contratto, dato che la cessione del 50% delle vincite costituisce una remunerazione determinata in anticipo secondo criteri ben stabiliti, che garantiscono la prevedibilità dell'importo al quale il prestatore di servizi avrebbe diritto in caso di vittoria o di classifica utile del cavallo in una competizione, senza che il concretizzarsi di un siffatto evento sia decisivo al riguardo, a prescindere dal fatto che la cessione dipenda da tale classificazione.

La nozione di onerosità, ai fini Iva, prescinde infatti dalla remuneratività dell'operazione e dall'eventuale lucro perseguito dai soggetti coinvolti, come dimostra la circostanza che rilevano ai fini IVA anche le fattispecie che si contraddistinguono per la corresponsione di introiti inferiori rispetto ai costi effettivamente sostenuti per l'operazione.

In C-412/03, ad esempio (p. 21 e 22), la Corte afferma che la circostanza che un'operazione economica venga svolta ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo è irrilevante ai fini della qualificazione di tale operazione come “negozio a titolo oneroso”. Tale nozione presuppone, infatti, unicamente l'esistenza di un nesso diretto tra la cessione di beni o la prestazione di servizi ed il corrispettivo realmente percepito dal soggetto passivo (v. anche C-174/06, p. 32-35 in relazione al caso di un'operazione, considerata imponibile, anche in presenza di una controprestazione il cui valore è notevolmente inferiore a quello del bene).

L'operazione come negozio a titolo oneroso, quindi, presuppone unicamente l'esistenza di un nesso diretto tra la cessione di beni o la prestazione di servizi ed il corrispettivo realmente percepito dal soggetto passivo (v. C-102/86, p. 12; C-412/03, p. 22; C-263/15, p. 45).

Il principio di onerosità, in ogni caso, non va mai letto in chiave quantitativa, in riferimento all'ammontare della controprestazione, bensì qualitativa, verificando se esiste la controprestazione come scambio del bene o del servizio ricevuto.

In argomento, ad esempio, è stato affermato dalla Corte UE (in C-263/15) che un'opera di ingegneria rurale, realizzata da società commerciali senza scopo di lucro e finanziata per la gran parte con risorse statali e unionali, per la quale le medesime avevano percepito un canone di modesta entità per un periodo di otto anni, fosse rilevanti ai fini IVA ed avesse il carattere della stabilità e per questo fosse attratto nell'alveo delle attività economiche corrispettive dato che l'attività era esercitata al fine di ricavarne introiti aventi carattere di stabilità (v. anche C-263/11, C-219/12, C-174/00, C-267/08).

Ciò posto, nel caso in commento, ai fini dell'individuazione dell'onerosità della prestazione, è stato coerentemente osservato (v. concl. p. 49) che i servizi forniti dalla casa madre incidono sul margine della controllata rumena attraverso i risparmi che le consentono di realizzare o il miglioramento del servizio reso ai clienti finali, derubricando la tesi della ricorrente rumena tesa all'esclusione dall'ambito di applicazione della direttiva IVA, sulla base dell'affermazione che la remunerazione effettuata corrisponde ad un prezzo di trasferimento, non soggetto all'IVA.

Ciò perché l'onerosità di un'operazione va stabilita prendendo in considerazione l'insieme di tutte le circostanze che caratterizzano, in modo concreto, l'operazione medesima, ed il loro dipanarsi all'intero della realtà economica e commerciale, quale criterio fondamentale per l'applicazione del sistema comune dell'IVA (v. C‑90/20, p. 38), anche a prescindere dal fatto che un prezzo di trasferimento all'interno del gruppo sia fissato in modo tale da rispettare il principio di libera concorrenza, in conformità al metodo raccomandato dalle linee guida dell'OCSE ai fini dell'imposizione diretta.

Se è vero che il carattere incerto dell'esistenza di un compenso è tale da spezzare il nesso diretto tra l'operazione posta in essere verso il destinatario ed il compenso eventualmente ricevuto (v. il leading case Tolsma, C‑16/93, p. 19), a maggior ragione come nel caso in commento in cui è variabile, in quanto subordinato al margine operativo positivo ed al risultato finanziario della controllata rumena in un dato anno, ciononostante tale remunerazione non è né gratuita, né aleatoria, né difficilmente quantificabile o incerta ai sensi della giurisprudenza della Corte (v. C‑16/93, p. 19 e C‑432/15, p. 35 e 37).

Le modalità di tale remunerazione, infatti, sono fissate contrattualmente in anticipo e secondo criteri precisi, rendendo di fatto la suddetta remunerazione esente da incertezze (v. C‑713/21, p. 46, 48 e 50).

Ulteriore e condivisibile elemento d'analisi offerto dalla Corte UE in sentenza, al fine di sostenere la sussistenza dell'onerosità del corrispettivo tra le due entità societarie, è relativo alla presenza di tutti quei requisiti che, in relazione al rapporto di controllo societario, fanno propendere per l'evidenza di una interferenza diretta o indiretta della holding nella gestione delle sue controllate (evidente in C-726/23), in assenza della quale, invece, sarebbe derubricata ogni questione tesa all'individuazione dell'onerosità dell'operazione societaria.

Infatti, dalla costante giurisprudenza unionale emerge che il mero acquisto e la mera detenzione di partecipazioni societarie non costituiscono un'attività economica ai sensi dell'art. 9, par. 1, della direttiva IVA, e non implicano, di conseguenza, l'attuazione di transazioni soggette all'IVA ai sensi dell'art. 2 di tale direttiva (v. C‑60/90, p. 16 nonché C‑320/17, p. 27 e 28).

I requisiti probatori sostanziali ai fini della detrazione IVA

Quanto alla seconda questione pregiudiziale, è stato chiesto alla Corte UE se gli artt. 168 e 178 della direttiva IVA ostino a che l'Erario statale esiga da un soggetto passivo, ai fini della detrazione IVA a monte, la produzione di ulteriori documenti oltre alla fattura per provare l'esistenza dell'operazione e la sua inerenza all'attività economica.

Posta la condizione formale indicata dall'art. 178 della direttiva IVA, che richiede che il soggetto passivo sia in possesso di una fattura ed adempia alle formalità fissate da ogni Stato membro, nel caso in commento si riferisce che le fatture in oggetto non indicavano nè la natura dei servizi acquisiti dalla controllata, né il numero di ore fornite per ciascuna operazione, né le risorse umane e materiali utilizzate, nè il metodo di calcolo delle tariffe, né la quantità né la natura dei servizi resi, in tal modo non soddisfacendo in alcun modo né la previsione della direttiva IVA circa la necessità dei requisiti formali, né la giurisprudenza della Corte UE.

Ciò, nonostante le “aperture” dei giudici unionali circa la legittimità della detrazione IVA a fronte del rispetto dei requisiti sostanziali, che escludono il diritto dell'Erario di disconoscere la detrazione (sempre garantita), qualora esso disponga di tutte le informazioni per accertare che i requisiti sostanziali relativi a tale diritto sono stati soddisfatti (v. C‑516/14, p. 43).

Se però, come nel caso in commento, le fatture prodotte dal soggetto passivo non soddisfano i requisiti formali indicati dalla normativa nazionale di recepimento della direttiva IVA, l'Erario è legittimato a verificare che le condizioni sostanziali di tale diritto siano soddisfatte ed esigere a tal fine la produzione di prove supplementari da parte del soggetto passivo (C-726/23, p. 54), senza che ciò comporti lesione alcuna del principio di proporzionalità (C‑45/20, p. 62 e C‑653/18, p. 27).

In tal caso, alla luce della farraginosità della prova documentale offerta dalla società controllata, all'Erario deve essere consentito di richiedere al contribuente, che eccepisce il diritto della detrazione IVA a monte, la prova che il servizio invocato per fondare il diritto a detrazione sia stato effettivamente fornito e sia stato utilizzato a valle da parte del soggetto passivo ai fini delle sue proprie operazioni soggette ad imposta, a prescindere dalla ricerca dell'esistenza di un criterio di redditività economica dell'operazione a monte (v. C‑527/23, p. 35 e C‑114/22, p. 31 e 37), non potendo limitare l'analisi dell'Erario all'esame della sola fattura stessa, ma potendo estendere la ricognizione della prova anche a documenti in possesso del fornitore di servizi presso il quale il soggetto passivo abbia acquistato servizi per i quali abbia assolto l'IVA (v. C‑281/20, p. 38 e 39).

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