Il dipendente della Banca con funzione di tesoriere per conto di un ente pubblico è soggetto incaricato di pubblico servizio
27 Ottobre 2025
Massima Il dipendente di un istituto di credito, incaricato di gestire il servizio di tesoreria per conto di un ente locale, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio, in quanto la sua attività non si limita al mero maneggio del denaro pubblico, né al solo adempimento di obblighi di pagamento impartiti dall'ente, bensì contempla una più ampia ingerenza nella complessiva attività finanziaria dell'ente, dovendo curare anche la rendicontazione, nei confronti della tesoreria provinciale, dei flussi di denaro, in entrata e in uscita, secondo modalità predeterminate per legge e finalizzate a consentire il controllo sui conti pubblici. Nelle procedure di spesa in cui è prevista una formale distinzione tra il momento deliberativo e quello esecutivo, la disponibilità giuridica del denaro e la conseguente possibilità di ritenere configurabile il peculato si configura esclusivamente in capo al soggetto cui è conferito il potere di emettere i mandati di pagamento (il cosiddetto ordinatore di spesa) e impartire, se del caso, al tesoriere l'ordine di provvedere materialmente al pagamento stesso, dovendosi escludere in capo a quest'ultimo la disponibilità del denaro, difettando qualsivoglia potere in ordine alla sua destinazione. Il caso La Corte d'appello territoriale confermava la sentenza di primo grado con la quale l'imputato era stato condannato per il delitto di peculato (art. 314 c.p.) per aver alterato, quale responsabile del servizio di tesoreria effettuato da un Istituto di credito privato in favore di plurimi Comuni, l'indicazione dei beneficiari dei mandati di pagamento emessi dagli enti locali, così appropriandosi di ingenti somme di denaro, in parte distratte a favore di altro coimputato. L'imputato interponeva ricorso per cassazione denunciando l'erronea qualificazione della condotta in termini di peculato, anziché di truffa ai danni degli enti pubblici (art. 640, comma 2, n. 1, c.p.). La questione In sintesi, nel corso dei giudizi di merito era emerso che l'imputato, dipendente di un istituto di credito privato e responsabile del servizio di tesoreria per conto di taluni enti locali, si era appropriato di somme appartenenti a quest'ultimi falsificando, tramite la sostituzione dell'effettivo beneficiario con il nominativo di terze persone (che successivamente gli riversavano il denaro), i mandati di pagamento che venivano indebitamente addebitati sui conti degli enti medesimi. Secondo la tesi difensiva, l'appropriazione aveva ad oggetto denaro di cui l'imputato non aveva la disponibilità, né materiale, né giuridica, atteso che, per poterne disporre, doveva necessariamente falsificare i mandati di pagamento; la disponibilità del denaro, quindi, doveva essere individuata esclusivamente in capo al responsabile finanziario di ciascun Comune, mentre l'imputato agiva esclusivamente quale dipendente della banca [estraneo, quindi, all'apparato amministrativo pubblico] incaricato di procedere alla materiale esecuzione dei bonifici. Inoltre, veniva evidenziato che, anche volendo ritenere sussistente in capo all'imputato la qualifica di incaricato di pubblico servizio, la sua condotta integrava, in ogni caso, secondo la prevalente giurisprudenza, truffa aggravata, non peculato. Le soluzioni giuridiche 1. La Corte di cassazione ha ritenuto fondato il motivo di ricorso. Anzitutto, evidenzia che, con riguardo all'accertamento della qualifica soggettiva, è incontroverso il principio secondo cui, al fine di individuare se l'attività svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358 c.p., è necessario verificare se essa sia, o meno, disciplinata da norme di diritto pubblico, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore; distinguendosi poi, nell'ambito dell'attività definita pubblica sulla base di questo parametro oggettivo, la ‘pubblica funzione' dal ‘pubblico servizio' per la presenza [nell'una] o la mancanza (nell'altro) dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dal secondo comma dell'art. 357 c.p. (richiama Cass. pen., sez. un., 13 luglio 1998, n. 10086, Citaristi). In applicazione di tale principio, ricorda la Corte, si è più volte affermato che, ai fini del riconoscimento della qualifica di incaricato di pubblico servizio, si deve valutare l'attività effettivamente espletata dall'agente ed il suo regime giuridico, in conformità al criterio oggettivo-funzionale di cui agli artt. 357 e 358 c.p. (cfr., tra le tante, Cass. pen., sez. VI, 8 febbraio 2023, n. 18837). Inoltre, risulta irrilevante la circostanza che il soggetto agente presti il proprio servizio presso un ente privato atteso che, secondo consolidata giurisprudenza, l'attribuzione della qualifica soggettiva prescinde dalla natura [pubblica o privata] dell'ente ove la prestazione viene resa, dovendosi valorizzare il solo profilo oggettivo-funzionale (tra le ultime, Cass. pen., sez. VI, 7 maggio 2024, n. 22282). 2. Una volta delineati i principi di cui sopra, il giudice di legittimità pone la propria attenzione sul caso sottoposto a scrutinio e, preliminarmente, ricostruisce l'attività demandata al tesoriere degli enti locali, sulla scorta della normativa di riferimento. In particolare, rileva che, secondo quanto previsto dall'art. 1 della 1egge 29 ottobre 1984, n. 720 (‘Istituzione del sistema di tesoreria unica per enti ed organismi pubblici'), gli istituti e le aziende di credito, tesorieri o cassieri degli enti e degli organismi pubblici, effettuano, nella qualità di organi di esecuzione degli enti e degli organismi suddetti, le operazioni di incasso e di pagamento a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato. Inoltre, evidenzia che la funzione del tesoriere è stata ulteriormente delineata dal d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 [‘Testo unico degli enti locali' - T.U.E.L.], che ha compiutamente distinto le funzioni di tesoreria rimesse alla competenza degli organi interni dell'ente, rispetto a quelle demandate al servizio di tesoreria esterno. In particolare, riporta testualmente l'art. 209 del T.U.E.L., per il quale «1. Il servizio di tesoreria consiste nel complesso di operazioni legate alla gestione finanziaria dell'ente locale e finalizzate in particolare alla riscossione delle entrate, al pagamento delle spese, alla custodia di titoli e valori ed agli adempimenti connessi previsti dalla legge, dallo statuto, dai regolamenti dell'ente o da norme pattizie. 2. Il tesoriere esegue le operazioni di cui al comma 1 nel rispetto della legge 29 ottobre 1984, n s 720, e successive modificazioni. 3. Ogni deposito, comunque costituito, è intestato all'ente locale e viene gestito dal tesoriere». Ebbene, dopo aver richiamato anche l'art. 185 del T.U.E.L., la Corte evidenzia che, sulla scorta dei richiamati presupposti normativi, non pare controvertibile la natura pubblicistica dell'attività svolta dal soggetto che, sia pur quale dipendente di un istituto di credito [privato], svolga la funzione di tesoriere dell'ente locale. A tal riguardo, difatti, la norma dirimente è quella dettata dal richiamato art. 1 della 29 ottobre 1984, n. 720, che attribuisce espressamente ai tesorieri operanti per conto degli istituti di credito la qualità di ‘organi di esecuzione degli enti' e la loro attività è espressamente indicata come direttamente incidente sulla contabilità speciale prevista per tali enti presso la tesoreria provinciale (gestita dalla Banca d'Italia). Insomma, la complessiva gestione patrimoniale di entrate e uscite viene svolta dagli enti locali sulla base di una duplice attribuzione di poteri, posto che il momento deliberativo della spesa, comprensivo dell'emissione del mandato di pagamento, è di competenza degli organi interni degli enti mentre, la successiva fase relativa all'effettivo pagamento, come pure alla contabilizzazione delle entrate e delle uscite, nonché al riversamento degli utili e all'addebito delle passività presso la Banca d'Italia, è rimessa al servizio di tesoreria svolto dall'istituto di credito convenzionato. Infine, a supporto di tale soluzione, richiama anche la giurisprudenza amministrativa, per la quale il contratto di tesoreria deve essere qualificato in termini di rapporto concessorio, avendo ad oggetto la gestione del servizio di tesoreria comunale implicante il conferimento di funzioni pubblicistiche, quali il maneggio di danaro pubblico e il controllo di regolarità sui mandati e prospetti di pagamento nonché sul rispetto dei limiti degli stanziamenti in bilancio (Cons. Stato, sez. V, 25 febbraio 2014, n. 877). 3. A conclusione della propria analisi, il giudice di legittimità evidenzia che, per quanto riguarda l'ambito penalistico, la funzione pubblicistica e la conseguente attribuzione della qualifica di incarico di pubblico servizio in capo al tesoriere, non discende per effetto del mero maneggio di denaro pubblico, bensì dal fatto che, nelle complesse procedure inerenti all'esecuzione dei mandati di pagamento, come pure allorquando riceve pagamenti in favore dell'ente, il tesoriere non svolge un'attività sovrapponibile a quella che l'istituto di credito esegue nel rapporto con qualsivoglia correntista, bensì partecipa direttamente alla fase della rendicontazione, dovendo garantire il corretto inserimento dei flussi informativi che consentono di stabilire il saldo tra entrate e uscite, in tal modo garantendo la corretta gestione finanziaria dell'ente. Per l'effetto, la Corte ha affermato il principio per il quale il dipendente di un istituto di credito, incaricato di gestire il servizio di tesoreria per conto di un ente locale, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio, in quanto la sua attività non si limita al mero maneggio del denaro pubblico, né al solo adempimento di obblighi di pagamento impartiti dall'ente, bensì contempla una più ampia ingerenza nella complessiva attività finanziaria dell'ente, dovendo curare anche la rendicontazione, nei confronti della tesoreria provinciale, dei flussi di denaro, in entrata e in uscita, secondo modalità predeterminate per legge e finalizzate a consentire il controllo sui conti pubblici. 4. Dopo aver inquadrato la qualifica del soggetto nei termini di cui sopra [che, in parte qua, confermava le decisioni del merito], il giudice di legittimità valuta la condotta tenuta dall'imputato per stabilire se integri il delitto di peculato. La Corte, anzitutto, ricorda che l'art. 314 c.p. presuppone che l'appropriazione ricada su beni di cui il pubblico agente abbia il possesso o la disponibilità per ragioni del suo ufficio e, sul punto, evidenzia come l'elaborazione giurisprudenziale abbia ampiamente approfondito le nozioni di possesso e disponibilità, pervenendo ad una concorde interpretazione per la quale la nozione di possesso, riferita al danaro, deve intendersi come comprensiva non solo della detenzione materiale, ma anche della disponibilità giuridica, con la conseguenza che l'appropriazione può avvenire anche attraverso il compimento di un atto di carattere dispositivo, che consenta di conseguire l'oggetto della appropriazione (Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2021, n. 16783). Ne consegue, pertanto, che l'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale – che si comporti uti dominus nei confronti di danaro del quale ha il possesso in ragione del suo ufficio – e la sua conseguente appropriazione possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di norme giuridiche o di atti amministrativi (Cass. pen., sez. VI, 18 ottobre 2012, n. 7492). La nozione di disponibilità del denaro, quindi, si collega direttamente all'esercizio del potere di decisione in ordine all'utilizzo e alla destinazione posto che, mediante tali atti, il pubblico agente può porre in essere la condotta, latamente appropriativa, che costituisce l'elemento tipico del reato di peculato. Alla luce delle considerazioni di cui sopra, il giudice di legittimità giunge ad affermare il principio per il quale, nelle procedure di spesa in cui è prevista una formale distinzione tra il momento deliberativo e quello esecutivo, la disponibilità giuridica del denaro e la conseguente possibilità di ritenere configurabile il peculato si configura esclusivamente in capo al soggetto cui è conferito il potere di emettere i mandati di pagamento (il cosiddetto ordinatore di spesa) e impartire, se del caso, al tesoriere l'ordine di provvedere materialmente al pagamento stesso, dovendosi escludere in capo a quest'ultimo la disponibilità del denaro, difettando qualsivoglia potere in ordine alla sua destinazione. 5. Effettuata questa premessa, la Corte ha escluso che l'imputato avesse la ‘disponibilità' del denaro oggetto di appropriazione atteso che il tesoriere, per espressa previsione normativa, non interviene nella fase deliberativa in ordine alla decisione di impiegare il denaro pubblico, bensì nella sola fase esecutiva, nell'ambito della quale non è più esercitabile alcuna forma di potere, sia pur di mero fatto, idoneo ad incidere sulla destinazione del denaro stesso; una volta emesso il mandato di pagamento, difatti, il tesoriere si limita alla sua esecuzione, non essendogli attribuito, neppure in via di fatto, alcun potere dispositivo. In altri termini, secondo la Corte, nel caso di specie, la disponibilità del denaro era attribuibile esclusivamente agli organi degli enti locali cui era demandata la fase decisoria e quella strettamente collegata all'emissione del mandato di pagamento; è nel momento in cui si assume la decisione di spesa e si pongono in essere gli atti propedeutici alla sua esecuzione, difatti, che i pubblici agenti coinvolti possono esercitare un potere di fatto idoneo a disporre del denaro. Al contrario, l'attività successiva e, specificamente, quella demandata all'esecuzione del mandato di pagamento pervenuto all'istituto di credito che svolge la funzione di tesoreria] presuppone l'avvenuto esaurimento della fase concernente la decisione di disporre del denaro, cosicché, l'incaricato di provvedere alla sua materiale esecuzione non ha, né sulla base delle norme regolanti la sua attività, né in virtù di un'ingerenza di fatto, la possibilità di inserirsi nel procedimento dispositivo. 6. La Corte passa, quindi, allo scrutinio del motivo di ricorso, nella parte in cui chiedeva la riqualificazione del delitto di peculato contestato nella meno grave fattispecie di truffa aggravata di cui all'art. 640, secondo comma, n. 1, c.p. Ricorda anzitutto che, per consolidata giurisprudenza, integra il reato di truffa ai danni dello Stato, aggravato dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, e non quello di peculato, la condotta del pubblico agente che, non avendo la disponibilità materiale o giuridica del denaro, ne ottenga l'indebita erogazione esclusivamente per effetto degli artifici o raggiri posti in essere ai danni del soggetto cui compete l'adozione dell'atto dispositivo (cita Cass. pen., sez. VI, 11 luglio 2019, n. 13559). Sul punto, viene precisato che, per distinguere tra il reato di peculato e quello di truffa aggravata, occorre aver riguardo al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifici e raggiri, dall'altra, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l'illecita appropriazione da parte dell'agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; diversamente, qualora la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata. Inoltre, viene specificato che l'elemento di discrimine tra il peculato e la truffa aggravata dall'abuso funzionale (ex art. 61, n. 9, c.p.) va essenzialmente ravvisato nell'effetto derivante dall'artificio atteso che, se quest'ultimo è causalmente diretto ad ottenere una disponibilità che, in mancanza del raggiro, il pubblico agente non avrebbe avuto, sarà sempre configurabile il reato di truffa. Ebbene, nel caso di specie, il giudice di legittimità rileva che l'imputato, non avendo la disponibilità del denaro (v. paragrafo precedente), aveva posto in essere un artificio (la falsificazione del mandato di pagamento con indicazione di un beneficiario diverso da quello reale, nei cui confronti l'ente non aveva alcun obbligo da adempiere) che gli aveva fatto conseguire il possesso del denaro. Di conseguenza, la condotta realizzata non era quella tipica del peculato, bensì quella della truffa aggravata, atteso che era solo per effetto di quell'artificio che l'imputato si è procurato la disponibilità della somma indebitamente sottratta, che altrimenti non avrebbe avuto. A supporto di queste conclusioni, la Corte ricorda che, in un'ipotesi similare (dipendente della tesoreria di un ente locale che aveva predisposto mandati di pagamento informatici, falsificando il codice IBAN dell'effettivo creditore a vantaggio proprio) si era già espressa riconoscendo la sussistenza del delitto di truffa, aggravata ex art 61, n. 9, c.p., e non quello di peculato (Cass. pen., sez. VI, 4 aprile 2014, n. 31243). 7. In conclusione, previa riqualificazione del delitto di cui all'art. 314 c.p. in quello di cui agli artt. 640, comma 2, n. 1, 61, n. 9 c.p., la sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio essendo maturata, nel frattempo, la prescrizione del reato. |