I messaggi WhatsApp acquisiti dalla P.G. sono inutilizzabili ma la mancata prova di resistenza rende il ricorso inammissibile

30 Ottobre 2025

La Corte di cassazione afferma il giusto principio per cui i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp e gli sms conservati nella memoria di un dispositivo elettronico hanno natura di corrispondenza e quindi devono essere acquisiti dall'autorità giudiziaria con le forme dell'art. 254 c.p.p., essendo altrimenti affetti da inutilizzabilità patologica, ma poi conclude che la mancata effettuazione da parte del ricorrente della prova di resistenza rende il ricorso inammissibile.

Il giusto principio di diritto affermato dalla sentenza

La Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui il ricorrente deduceva l'inutilizzabilità dei messaggi WhatsApp acquisiti dalla polizia giudiziaria e utilizzati a suo carico, in quanto, pur trattandosi di corrispondenza, non erano stati acquisiti dall'autorità giudiziaria con le forme previste dagli artt. 253 e 254 c.p.p.

La sentenza ripercorre le argomentazioni svolte, al riguardo, dalla Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 170 del 2023, ha specificamente affrontato il tema della natura di tali messaggi, quando essi si trovino riposti, statici e giacenti nella memoria dei telefoni cellulari, degli smartphone o di qualsiasi altro dispositivo di natura analoga. La Consulta ha anzitutto affrontato il tema della differenza tra il sequestro di corrispondenza e le intercettazioni di comunicazioni o di conversazioni e, a tal fine, in assenza di una definizione di queste ultime contenuta nel codice di procedura penale, ha richiamato la sentenza delle Sezioni Unite penali Torcasio, n. 36747 del 28 maggio 2003, che aveva chiarito che le intercettazioni consistono nella «apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti estranei al colloquio». Sulla base di tale definizione, la Corte costituzionale ha puntualizzato che per aversi intercettazione debbano ricorrere due condizioni, la prima delle quali è di ordine temporale: la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell'estraneo, ossia deve essere colta nel suo momento "dinamico", con la conseguente estraneità a tale nozione dell'attività di acquisizione del supporto fisico contenente la memoria d una comunicazione già avvenuta e, quindi, oramai quiescente nel suo momento "statico". La seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l'apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in maniera occulta, ossia all'insaputa dei soggetti tra i quali intercorre la comunicazione. Nel caso dell'acquisizione dei messaggi custoditi nella memoria del dispositivo mancano entrambe tali condizioni, con la conseguenza che non può parlarsi di intercettazioni con riguardo alla loro acquisizione. Dopo aver escluso che l'acquisizione dei messaggi de quibus possa considerarsi intercettazione, la Corte costituzionale aveva poi rimarcato che essi rientrano senz'altro nell'amplissima nozione di corrispondenza, che abbraccia ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) e che prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero. Con l'ulteriore precisazione che la garanzia di cui all'art. 15 della Costituzione - che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza della “corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”, consentendone la limitazione “soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria” - si estende «a ogni strumento che l'evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini educativi, compresi quelli elettronici e informatici». Da qui la certa riconducibilità alla nozione di corrispondenza della posta elettronica, dei messaggi WhatsApp e più in generale della messaggistica istantanea, che, quindi, rientrano nella sfera di protezione dell'art. 15 della Costituzione, «apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi».

Dopo aver escluso che l'acquisizione dei messaggi possa rientrare nella nozione di intercettazione e una volta riconosciuto in via generale che essi rientrano nella nozione di corrispondenza, la Corte costituzionale aveva evidenziato che l'interrogativo principale da risolvere è quello di stabilire se i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp e la messaggistica istantanea in generale mantengano la natura di corrispondenza anche quando siano stati ricevuti e letti dal destinatario e ormai conservati e giacenti nella memoria dei dispositivi elettronici dello stesso destinatario o del mittente. Sul punto, la Corte costituzionale aveva evidenziato che su tale tema si fronteggiano due opposte concezioni: secondo una concezione, la corrispondenza già ricevuta e letta dal destinatario non sarebbe più un mezzo di comunicazione, avrebbe perso la natura di corrispondenza e  sarebbe diventata un semplice documento che, in quanto tale, non soggiace né alla disciplina  delle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 266-bis c.p.p.), né a quella del sequestro di corrispondenza di cui al citato art. 254 c.p.p., la quale implica una attività di spedizione in corso. Secondo l'altra concezione, al contrario, la natura di corrispondenza non si esaurirebbe con la mera ricezione del messaggio e la presa di cognizione del suo contenuto da parte del destinatario, ma permarrebbe finché la comunicazione conservi carattere di attualità e di interesse per i corrispondenti, venendo meno solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in documento "storico". A fronte di tali due contrapposte posizioni definitorie, la Consulta fece una decisa scelta di campo, chiarendo che la natura di corrispondenza va correttamente intesa nel senso espresso dalla seconda concezione, in quanto la degradazione della comunicazione a mero documento quando non più in itinere restringerebbe l'ambito della tutela costituzionale apprestata dall'art. 15 Cost. alle sole ipotesi - sempre più rare- di corrispondenza cartacea; tutela che sarebbe del tutto assente in relazione alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all'invio segue la ricezione con caratteri di sostanziale immediatezza.

In conformità alle precise indicazioni della Corte costituzionale, la sentenza in esame disattende l'orientamento (cfr. Cass. pen., sez. VI, 16 marzo 2022, n. 22417, Sgromo Eugenio Rv.283319), secondo cui i messaggi WhatsApp (i messaggi di posta elettronica e la messagistica istantanea) devono considerarsi alla stregua di  documenti, dovendosi invece ribadire il principio di diritto per il quale, in tema di mezzi di prova, i messaggi di posta elettronica, i messaggi WhatsApp e gli SMS conservati  nella memoria di un dispositivo elettronico conservano la natura di corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo o per altra causa, essi non abbiano perso ogni carattere di attualità, in rapporto all'interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento "storico", sicché - fino a quel momento - la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'art. 254 c.p.p. per il sequestro della corrispondenza, essendo altrimenti affetti, come avvenuto nel caso di specie, da inutilizzabilità patologica, in quanto tale rilevante anche nel giudizio abbreviato (cfr. Cass. pen., sez. VI, 11 settembre 2024, n. 39548, Di Francesco Kevin, Rv. 287039, massimata nei seguenti termini: “In tema di mezzi di prova, sono affetti da inutilizzabilità patologica, in considerazione della loro natura di corrispondenza, i messaggi "WhatsApp" acquisiti, in violazione dell'art. 254 c.p.p., mediante "screenshots" eseguiti dalla polizia giudiziaria, di propria iniziativa e senza ragioni di urgenza, in assenza di decreto di sequestro del pubblico ministero”; Cass. pen., sez. II, 15 maggio 2024, n. 25549, Tundo Andrea, Rv. 286467; v. pure di recente Cass. pen., sez. VI, 20 novembre 2024, n. 1269/2025, che ha stabilito che è sempre necessario il decreto dell'autorità giudiziaria, per cui sono inutilizzabili gli screenshot eseguiti sul telefono dell'indagato dalla polizia giudiziaria, anche con il consenso dello stesso; negli stessi termini Cass. pen., sez. VI, 11 settembre 2024, n. 39548).

Dopo questa bella affermazione di principio, le conseguenze che la sentenza ne trae vanno in senso opposto.

Infatti, la Corte rileva che, «a fronte di una motivazione che ha esibito una più ampia piattaforma probatoria rispetto ai menzionati messaggi WhatsApp, il ricorrente non ha adeguatamente assolto all'onere di specificare l'incidenza degli elementi asseritamente inutilizzabili, essendosi limitato ad affermare in modo generico ed assertivo che “la mancata rilevata inutilizzabilità delle conversazioni WhatsApp risulta incidente sulla decisione assunta”».

Ciò in contrasto con l'insegnamento giurisprudenziale, secondo cui, nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova, acquisiti illegittimamente, diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Cass. pen., sez. III, 3 ottobre 2024, n. 39603, Izzo Raffaele, Rv. 287024 – 02; Cass. pen., sez. II, 18 novembre 2016, n. 7986, La Gumina e altro, Rv. 269218).

La deludente conclusione della sentenza: la misteriosa prova di resistenza

La giurisprudenza della Corte di cassazione ha ormai una vera e propria forma ossessivo-compulsiva verso l'inammissibilità del ricorso in cassazione per aspecificità. Infatti, si è ormai consolidata una giurisprudenza, secondo cui, nei casi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità o la nullità di una prova dalla quale siano stati desunti elementi a carico, il motivo di ricorso dovrebbe illustrare, a pena di “inammissibilità per aspecificità”, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, essendo in ogni caso necessario valutare se le residue risultanze, nonostante l'espunzione di quella inutilizzabile, risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento; secondo tale bizzarra teoria, gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventerebbero irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino  sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Cass. pen., sez. II, 25 luglio 2025, n. 27513; Cass. pen., sez. VI, 5 maggio 2023, n. 33751, Massa].

Ma la regola codicistica è la tassatività delle sanzioni processuali, dettata esplicitamente per la nullità ex art. 177 c.p.p., per cui è ammessa “soltanto nei casi previsti dalla legge” e pacificamente operante anche per l'inammissibilità e quindi non ammette estensioni giurisprudenziali, e non esiste alcuna disposizione di legge che preveda l'inammissibilità del ricorso che non offra la “prova di resistenza”.

Solo per i motivi di appello l'art. 581 comma 1-bis c.p.p. prevede l'inammissibilità (dell'appello, non del ricorso!) per “mancanza di specificità dei motivi”, individuando il vizio «quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione». Si distingue perciò tra inammissibilità per aspecificità “intrinseca” o “interna” ai motivi di impugnazione, quando questa è fondata su considerazioni generiche e astratte o non pertinenti al caso concreto e inammissibilità per aspecificità “estrinseca o “esterna” quando l'impugnazione non è basata su argomenti strettamente correlati agli accertamenti della sentenza di primo grado (in tal senso P. Tonini).

Comunque, come si vede, non è richiesta alcuna “prova di resistenza”, nemmeno per l'appello e tanto meno per il ricorso, ma semplicemente e giustamente l'indicazione delle argomentazioni critiche alla motivazione del provvedimento impugnato.

In riferimento al ricorso in cassazione l'art. 606, comma 3, c.p.p. ne prevede l'inammissibilità per ragioni del tutto diverse e, precisamente, «se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ovvero per violazioni di legge non dedotte con i motivi d'appello» e quindi l'inammissibilità “per aspecificità” del motivo non è nemmeno prevista.

Oltretutto, anche letteralmente la specificità non significa rilevanza della nullità o inutilizzabilità della prova nel compendio probatorio. Semmai, si tratterà di un ricorso “inutile”, di fronte all'esistenza di altre prove a carico e l'inutilizzabilità della prova non potrà incidere sulla sentenza di condanna. Ma il motivo che indica specificamente sia la prova asseritamente viziata, sia il motivo del vizio, è “specifico” e non potrebbe essere più specifico di così. Inoltre, richiedere alla parte ricorrente di svolgere la “prova di resistenza” significa esigere da essa una valutazione delle prove residue e utilizzabili, che è un'attività valutativa di fatto, riservata al giudice, e comunque sempre preclusa in sede di legittimità, tanto è vero che non vi può provvedere nemmeno la Corte di cassazione.  Comunque, la prova di resistenza offerta dal ricorrente non avrebbe comunque alcuna valenza processuale perché può non essere condivisa dal giudice. Pertanto, non può essere motivo di inammissibilità l'omesso sviluppo nel ricorso stesso della “prova di resistenza”: insomma, è la teoria della “prova di resistenza” che “non resiste” di fronte al codice e ad alcune elementari obiezioni logiche e giuridiche, dal momento che il principio di tassatività delle sanzioni processuali non può essere obliterato per introdurre per via interpretativa una causa di inammissibilità dell'impugnazione non prevista dalla legge.

Ciononostante, siamo di fronte ad una vera e propria alluvione giurisprudenziale basata sull'inammissibilità dei ricorsi per aspecificità!

A questo punto dobbiamo domandarci: iura novit curia?

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