Check-up della crisi d’impresa e farmacologia risanatoria. La culpa in praeventione, il danno da inerzia gestionale e la responsabilità di amministratori (di diritto e di fatto), sindaci e revisori

Filippo Lamanna
03 Novembre 2025

Il contributo esamina il profilo dell’imputazione del danno da mancata adozione degli assetti o tardiva attivazione agli amministratori di fatto, con brevi cenni ai criteri giurisprudenziali per l’accertamento della gestione effettiva, alla metodologia di quantificazione del danno, al dibattuto rapporto tra gli obblighi organizzativi e i limiti di sindacabilità secondo la Business Judgment Rule e, infine, al ruolo dei soggetti deputati al controllo nella prevenzione della crisi.

Introduzione

Il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza ha radicalmente riformato (anche) il diritto della responsabilità societaria, ponendo al centro del sistema l'obbligo di istituire e mantenere assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati (art. 3 c.c.i.i. e art. 2086 c.c. come novellato dal d.lgs. n. 14/2019). Questo nuovo paradigma, fondato sulla culpa in praeventione, impone agli organi gestori l'attivazione tempestiva degli strumenti di allerta e di risanamento. Il legislatore ha così inteso prevenire l'aggravamento del dissesto e promuovere una gestione responsabile e consapevole della crisi. Tali doveri non riguardano solo gli amministratori formalmente investiti (de jure), ma si estendono, in virtù del principio di effettività, anche agli amministratori di fatto e a chiunque abbia esercitato la direzione dell'impresa. La giurisprudenza ha consolidato l'orientamento secondo cui la responsabilità di questi ultimi è pienamente concorrente e solidale con quella dell'amministratore formale. Il presente contributo esamina in particolare, ma con taglio volutamente sintetico, il profilo dell'imputazione del danno da inerzia gestionale (mancata adozione degli assetti o tardiva attivazione) anche a tale categoria di soggetti.

L'amministratore di fatto nel c.c.i.i.: il principio di effettività

Il Codice della crisi ha confermato e rafforzato il principio di effettività della gestione, in base al quale le responsabilità inerenti all'impresa ricadono su chi esercita concretamente le funzioni, a prescindere dalla formale investitura (M. Giorgetti, Amministratori di fatto e fittizi delle società di capitali e di persone. profili di rischio e responsabilità, in F. Lamanna (a cura di), Società e soci nel codice della crisi d'impresa, Milano, 2025;  G. Dongiacomo, Le azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali, ivi).

La nozione di amministratore di fatto ha anche una specifica fonte normativa. è stata infatti espressamente introdotta nel nostro ordinamento con il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, che ha inserito l'art. 2639 c.c. nel titolo XI del codice civile (“Dei reati societari”).

Tale disposizione stabilisce che: «Ai fini dell'applicazione delle disposizioni del presente titolo, si considera amministratore di diritto anche chi, pur sprovvisto di formale investitura, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla funzione di amministratore».

La norma, benché introdotta con riferimento ai reati societari, è stata rapidamente estesa in via interpretativa anche alle azioni di responsabilità civile e concorsuale, in virtù del principio di effettività della gestione e la giurisprudenza ha chiarito che la ratio della norma è quella di evitare che la forma societaria possa costituire uno schermo idoneo a sottrarre alla responsabilità chi, pur privo di investitura formale, eserciti in modo continuativo e significativo i poteri gestori tipici dell'amministratore.

In particolare, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, è amministratore di fatto colui che, pur in assenza di una nomina formale, eserciti in modo continuativo e significativo i poteri propri dell'organo amministrativo [purché le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e ed occasionale: Cass. civ. n.1516/2022; Cass. n. 21730/2020; Cass. n. 21567/2017; Cass. n. 4045/2016; Cass. n. 2586/2014; Cass. n. 4028/2009].

Non è sufficiente, quindi, il compimento episodico e frammentario di singoli atti gestori essendo, piuttosto, necessario che le funzioni gestorie effettivamente svolte dall'estraneo si traducano in un'attività, vale a dire nel compimento stabile e sistematico, continuo e protratto per un periodo di tempo rilevante di una pluralità di atti tipici dell'amministratore (Cass. civ. n. 21730/2020; Cass. n. 4045/2016; Cass. n. 22413/2003; Cass. n. 35346/ 2013, secondo la quale «la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall'art. 2639 c.c., postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione; nondimeno, significatività e continuità non comportano necessariamente l'esercizio di tutti i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale»; n. 9619/2009; n. 4028/2009; n. 6719/2008; n. 28819/2008; n. 2906/2002; n. 9795/1999; v. anche, da ultimo, Cass. pen. n. 3016/2023].

Sul piano dottrinale, la nozione è stata a più riprese approfondita nel diritto societario e concorsuale, sottolineandosi che l'amministratore di fatto è soggetto agli stessi obblighi di corretta amministrazione cui è tenuto l'amministratore di diritto, dovendo rispondere ex art. 2392 c.c. come quest'ultimo, ove il suo ruolo effettivo sia dimostrato [cfr. G. Cottino, Diritto commerciale, Padova, 2015, II, 842 ss.; M. Campobasso, Diritto commerciale, Torino, 2021, III, 112 ss.].

Proprio in ambito concorsuale la nozione di amministratore di fatto trova la sua più intensa applicazione, laddove garantisce che chi ha effettivamente esercitato la direzione dell'impresa risponda delle proprie negligenze, in particolare con riguardo ai doveri di prevenzione e di attivazione imposti dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza.

In tale ambito il principio di effettività si traduce nel dovere di attivarsi tempestivamente per prevenire l'aggravamento del dissesto: chi esercita di fatto i poteri direttivi non può invocare la mancanza di nomina per sottrarsi alla responsabilità derivante dalla violazione dell'art. 2086 c.c. e delle norme del c.c.i.i. sui doveri organizzativi.

In termini positivi, l'ordinamento individua l'amministratore di fatto quando sussistono significatività e continuità dell'ingerenza, desumibili da un corpus di fatti sintomatici; non è necessario – comunque, come si evidenziava poc'anzi  - che egli eserciti tutti i poteri tipici, ma è sufficiente un ruolo gestorio non episodico.

A. Gli obblighi organizzativi ex art. 2086 c.c.

L'art. 2086, comma 2, c.c., come modificato dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, e l'art. 3 dello stesso Codice, impongono all'imprenditore di istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alle dimensioni dell'impresa, funzionali alla rilevazione tempestiva della crisi e alla salvaguardia della continuità aziendale.

Tali assetti non costituiscono un adempimento meramente formale, ma il fulcro del sistema di prevenzione delineato dal legislatore. La loro assenza o inadeguatezza comporta, come ha sottolineato la dottrina più recente, una vera e propria “crisi della prevenzione”, in quanto impedisce l'emersione precoce degli squilibri gestionali e finanziari e priva di efficacia l'intero meccanismo di allerta [cfr. al riguardo le pertinenti osservazioni di P. Montalenti, Il Codice della Crisi d'impresa e dell'insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Quaderni di giur. comm., Crisi d'impresa. prevenzione e gestione dei rischi: nuovo codice e nuova cultura, 2019, 13 ss.].

Gli assetti, per essere “adeguati”, devono essere “dinamici”, ossia adattabili all'evoluzione delle condizioni operative e finanziarie, e devono fondarsi su un monitoraggio costante degli indicatori di squilibrio (flussi di cassa, margini di tesoreria, posizioni tributarie e previdenziali, grado di affidabilità della pianificazione). La logica imposta dal c.c.i.i. è quella di un risk management proattivo, che anticipa la crisi anziché reagirvi.

La giurisprudenza di merito ha valorizzato questa impostazione, riconoscendo che la mancata predisposizione di assetti adeguati integra grave irregolarità ai sensi dell'art. 2409 c.c., idonea a giustificare la revoca degli amministratori [cfr. Trib. Catania 8 febbraio 2023; Trib. Milano 29 febbraio 2024, entrambe in dirittodellacrisi.it].

Il dovere organizzativo costituisce dunque una condicio sine qua non per l'attivazione tempestiva degli strumenti di composizione negoziata e si estende, secondo l'interpretazione prevalente, anche a chi esercita di fatto le funzioni di gestione. Tale soggetto assume conseguentemente la responsabilità piena e solidale per l'aggravamento del dissesto, non potendo invocare l'assenza di nomina formale [R. Rordorf, La nuova giurisdizione della crisi, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2020, 315 ss.].

Analogamente, è stato evidenziato che gli assetti adeguati costituiscono un presidio non solo di legalità societaria, ma anche di tutela del mercato e dei creditori, ponendosi come primo meccanismo di salvaguardia dell'affidamento dei terzi [L. Jeantet, Assetti organizzativi adeguati, tutela del mercato e responsabilità dell'organo amministrativo, in F. Lamanna (a cura di), Società e soci nel codice della crisi d'impresa, Milano, 2025].

In tal senso, il principio della culpa in praeventione impone a chiunque eserciti poteri decisionali di predisporre strutture e procedure atte a individuare tempestivamente gli squilibri. La mancata attivazione di tali presidi comporta responsabilità non solo per violazione di legge, ma anche per negligenza gestoria in senso civilistico.

Sotto il profilo soggettivo, di conseguenza, l'amministratore di fatto non è certo una figura ancillare: egli è destinatario dei medesimi obblighi organizzativi dell'amministratore di diritto e risponde per omissione se l'inadeguatezza degli assetti ha concorso ad aggravare il dissesto. Tuttavia, occorre distinguere tra le responsabilità civilistiche derivanti dall'art. 2086 c.c. e quelle sanzionatorie o tributarie, che restano circoscritte da regole proprie.

In ambito fiscale, infatti, la Corte di cassazione ha escluso che le sanzioni amministrative tributarie possano automaticamente gravare sull'amministratore di fatto. Ai sensi del d.l. n. 269/2003, art. 7, comma 1, «le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica». La regola, che attua in materia tributaria il principio di personalità della sanzione, vale anche se la società è gestita da un amministratore di fatto [cfr. Cass. civ. n. 28733/2022; Cass. n. 25284/2017].

La S. Corte, tuttavia, ha precisato che tale esclusiva riferibilità non opera nei casi di “società artificiosamente costituita”, ove la persona giuridica sia una mera fictio creata nell'interesse della persona fisica che trae beneficio dalle violazioni. In tali casi, la sanzione può essere irrogata direttamente all'amministratore di fatto [Cass. civ. 28733/2022 cit.; Cass. n. 25530/2021; Cass. n. 10975/2019].

Questo “caveat” conferma la necessità di una lettura funzionale e contestuale del principio di effettività: esso vale pienamente nel campo delle responsabilità civili e concorsuali, ma non può automaticamente trasmigrare nell'ambito sanzionatorio, dove prevale la logica del principio di legalità.

In sintesi, chi esercita poteri di gestione effettiva risponde per la violazione degli obblighi organizzativi e di prevenzione, ma non è di per sé destinatario delle sanzioni amministrative tributarie, salvo i casi di abuso dello schermo societario.

A.1. (segue) Considerazioni critiche e sistematiche

L'attuale formulazione dell'art. 2086 c.c. opera come norma-ponte fra il diritto societario e il diritto della crisi, estendendo la responsabilità gestoria anche alle omissioni di natura organizzativa.

La giurisprudenza, specie di merito, tende a valorizzare il nesso eziologico tra l'assenza di assetti adeguati e l'aggravamento della crisi, riconoscendo un danno da “inazione organizzativa”.

Tuttavia, non mancano perplessità circa la portata oggettiva di tale responsabilità: una parte rilevante della dottrina ha messo in guardia contro letture che trasformino il dovere di predisporre gli assetti e la diligenza qualificata in un obbligo di risultato snaturando la funzione fisiologica del rischio d'impresa: la responsabilità degli amministratori va ancorata alla ragionevolezza delle scelte e al peggioramento evitabile causalmente imputabile, non agli esiti ex post o ad automatismi contabili (parla ad es. di ‘abbaglio' dei netti patrimoniali M. Fabiani, Perdita di valore dell'impresa, responsabilità degli organi sociali e il pernicioso “abbaglio” dei netti patrimoniali, in Società, 2024, 1045 ss.; ma cfr. anche V. Calandra Bonaura, Amministratori e gestione dell'impresa nel Codice della crisi, in Giur. comm., 2020, I, 5 ss.].

La prospettiva più equilibrata appare quella che riconduce la colpa non alla mancata “previsione” della crisi, ma alla mancata organizzazione dei mezzi per fronteggiarla, in linea con la logica della culpa in praeventione (Rordorf). In questo senso, l'amministratore (di diritto o di fatto) è responsabile non dell'insuccesso, ma dell'assenza di una struttura di governance capace di prevenirlo.

B. Gli indici sintomatici dell'effettività della gestione

La qualifica di amministratore di fatto non discende da un atto di nomina, ma da una verifica in concreto del ruolo effettivamente svolto. Essa è accertata sulla base di elementi sintomatici che rivelino un esercizio continuativo, significativo e autonomo dei poteri gestori, secondo il principio di effettività sancito dall'art. 2639 c.c. .

La giurisprudenza ha più volte chiarito che il riconoscimento di tale figura richiede l'accertamento di una ingerenza gestoria sostanziale, distinta dalla mera influenza, consulenza o collaborazione tecnica.

La S. Corte, in particolare, ha ribadito che la qualifica di amministratore di fatto postula l'esercizio continuo e non episodico di attività gestoria, con funzioni di direzione e controllo, tali da imprimere un indirizzo determinante alla gestione sociale [Cass. civ. n. 4849/2023].

Nella prassi, gli indici sintomatici dell'effettività della gestione vengono individuati in quattro macro-aree:

  1. Potere decisionale strategico – la partecipazione e l'intervento determinante nelle decisioni fondamentali della società (indirizzi di investimento, operazioni straordinarie, ristrutturazioni, strategie di bilancio). Anche un soggetto formalmente esterno al consiglio di amministrazione può assumere rilievo decisivo se la sua volontà condiziona sistematicamente le scelte dell'organo [cfr. Trib. Milano 21 ottobre 2019, in giurisprudenzadelleimprese.it];
  2. Controllo della tesoreria – la gestione diretta o indiretta dei flussi finanziari, la firma sui conti correnti, la determinazione dei pagamenti e dei rapporti bancari. Questo indice è considerato altamente significativo perché rivela il dominio sull'area più sensibile della vita d'impresa;
  3. Rappresentanza esterna – la stipulazione di contratti o la negoziazione con clienti, fornitori e istituti di credito, che dimostrano l'assunzione di poteri rappresentativi di fatto, anche in assenza di delega formale;
  4. Flussi approvativi e Audit Trail – la tracciabilità documentale (verbali, e-mail operative, piani finanziari, sistemi ERP) costituisce oggi l'elemento probatorio principale. In sede di contenzioso, la giurisprudenza privilegia prove documentali idonee a ricostruire l'intero “percorso decisionale”, evitando che la responsabilità venga desunta in via meramente presuntiva o per “prossimità funzionale” [v. M. Onza, Gli “adeguati assetti” organizzativi: tra impresa, azienda e società, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it , 11 ottobre 2021].

Questi indici, se considerati nel loro insieme, delineano un paradigma probatorio complesso: non è sufficiente provare un episodio di ingerenza, ma occorre dimostrare un sistema coerente di direzione effettiva, caratterizzato da continuità, autonomia e incidenza reale sulla gestione.

La Cassazione ha chiarito che la prova della gestione di fatto può fondarsi su indizi gravi, precisi e concordanti, idonei a escludere che l'attività del soggetto si riduca a mera esecuzione di ordini o a supporto tecnico [Cass. civ. n. 4849/2023 cit.].

La ratio è quella di evitare un'eccessiva dilatazione della responsabilità: la qualifica di amministratore di fatto deve essere affermata solo quando ricorra un ruolo decisionale effettivo e riconoscibile nell'organizzazione aziendale.

In conclusione, la giurisprudenza tende oggi a privilegiare criteri oggettivi e tracciabili di accertamento della gestione, coerenti con la logica di accountability imposta dal c.c.i.i..

L'amministratore di fatto è dunque il “dominus sostanziale” della gestione, identificato non per la forma ma per la funzione esercitata in concreto, il cui comportamento rileva pienamente ai fini della responsabilità ex art. 2086 c.c.

Il danno da inerzia gestionale: accertamento e nesso causale

Il danno da inerzia gestionale rappresenta una delle figure più innovative introdotte dal diritto della crisi. Si tratta del pregiudizio che si cristallizza in capo alla società e ai creditori a causa dell'omissione, da parte degli amministratori (di diritto o di fatto), degli obblighi di attivazione previsti dal c.c.i.i.: mancata adozione di assetti adeguati, mancata rilevazione della crisi, tardivo accesso agli strumenti di composizione negoziata o di ristrutturazione.

L'omissione non è valutata solo in chiave di negligenza gestionale, ma come violazione autonoma di un dovere organizzativo imposto dalla legge. È quindi un illecito di struttura e non di risultato, fondato sulla mancata predisposizione dei presidi necessari per intercettare la crisi in fase precoce.

A. L'ambito oggettivo della violazione

Il danno da inerzia non deriva esclusivamente dall'inadempimento all'obbligo di predisporre assetti organizzativi.

Com'è stato opportunamente posto in luce, «il danno costituisce, assai spesso, l'esito finale di una serie di violazioni di obblighi desumibili dalla normativa e dal sistema nel suo complesso, sicché non può derivare soltanto, evidentemente, dall'inadempimento all'obbligo di predisporre l'assetto organizzativo adeguato» [F. Macario, La disciplina sostanziale delle azioni di responsabilità nella liquidazione giudiziale: tra adeguatezza degli assetti, monitoraggio della continuità e gestione tempestiva della crisi, in dirittodellacrisi.it, 26 maggio 2025].

Tale impostazione, che la dottrina ormai considera prevalente [cfr. anche F. Macario, Business Judgment Rule e assetti organizzativi, in F. Lamanna (a cura di), Società e soci nel codice della crisi d'impresa, Milano, 2025; V. Lenoci, Applicabilità della Business Judgment Rule alle scelte in materia di assetti societari adeguati nelle società, ivi], estende la responsabilità anche agli obblighi di monitoraggio della continuità aziendale e di attivazione tempestiva delle procedure previste.

L'amministratore di fatto, ove eserciti la direzione effettiva, risponde solidalmente per avere omesso di dotare la società degli assetti richiesti, oppure per avere ignorato segnali di crisi, omettendo di avviare la composizione negoziata o altre misure di risanamento.

Nella prassi, la condotta omissiva si manifesta in clusters tipici di inerzia gestionale:

  • (i) Ritardo nell'early warning contabile, con la mancata rilevazione tempestiva del deterioramento dei margini, del going concern e dei covenant bancari;
  • (ii) Assenza di piani di risanamento e accordi di standstill con i principali creditori o finanziatori;
  • (iii) Mancata attivazione della composizione negoziata o del dialogo anticipato con gli stakeholders, nonostante indicatori evidenti di tensione finanziaria.

Tali omissioni concorrono tutte a determinare un peggioramento evitabile della situazione economico-patrimoniale, che costituisce il nucleo causale del danno risarcibile.

Come afferma la S. Corte, il giudice deve valutare se l'attivazione tempestiva degli strumenti di gestione della crisi avrebbe verosimilmente evitato o contenuto il pregiudizio [Cass. civ. n. 4849/2023cit.].

Il danno da inerzia gestionale, pertanto, non è una categoria astratta, ma piuttosto una figura dinamica, collegata alla progressione del dissesto e all'omissione degli strumenti preventivi.

L'approccio più recente tende a considerarlo danno incrementale (peggioramento differenziale) anziché  evento unico, coerentemente con la logica del c.c.i.i..

In sintesi, la violazione dell'art. 2086 c.c. e dei correlati obblighi di allerta non si esaurisce in una mera mancanza organizzativa, ma si traduce in responsabilità da omissione qualificata, imputabile anche all'amministratore di fatto quando questi abbia effettivamente diretto l'impresa.

Tale figura assume rilievo crescente nel contenzioso concorsuale, perché consente di ricondurre all'interno dell'azione risarcitoria soggetti che, pur non formalmente investiti, abbiano avuto un ruolo sostanziale nell'aggravamento della crisi.

B. La prova e il giudizio controfattuale

La prova della responsabilità per danno da inerzia gestionale si articola in due momenti logico-giuridici strettamente connessi:

  1. la prova della gestione effettiva, volta a dimostrare che il soggetto ha concretamente esercitato i poteri di direzione e di controllo, anche se privo di nomina formale;
  2. la prova del nesso causale, necessaria per accertare che il pregiudizio patrimoniale sia conseguenza diretta e immediata dell'omissione dell'azione doverosa.

Quanto al primo profilo, la giurisprudenza richiede una dimostrazione fattuale e documentale dell'ingerenza, fondata su indizi “gravi, precisi e concordanti”: la sottoscrizione di atti strategici, la gestione autonoma dei conti correnti, la partecipazione costante alle decisioni operative e la disponibilità esclusiva dei flussi finanziari rappresentano elementi probatori idonei a configurare la posizione di amministratore di fatto.

Il secondo e più complesso passaggio concerne la ricostruzione del nesso di causalità materiale.
Poiché la condotta imputata è di natura omissiva, l'accertamento richiede l'applicazione del cosiddetto giudizio controfattuale: occorre cioè verificare, con elevato grado di probabilità logica, se l'azione doverosa — ove tempestivamente posta in essere — avrebbe evitato o quantomeno ridotto l'entità del danno.

Tale criterio è stato enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui il nesso causale, nelle condotte omissive, deve essere accertato alla luce di un giudizio ipotetico di evitabilità dell'evento, verificando se la condotta alternativa lecita avrebbe impedito, con ragionevole certezza o alta probabilità logica, il verificarsi del danno [Cass. civ., SS.UU., n. 9100/2015].

In ambito societario e concorsuale, ciò si traduce nell'obbligo per il giudice di determinare:

  • quando l'intervento sarebbe stato doveroso (cioè il momento in cui gli indici di crisi erano percepibili da un amministratore diligente);
  • quale effetto avrebbe potuto produrre l'attivazione tempestiva degli strumenti di allerta, risanamento o composizione negoziata;
  • quale quota di danno sarebbe stata così evitabile.

Com'è stato ineccepibilmente osservato in dottrina, il giudizio controfattuale si connota per un contenuto «predittivo e differenziale»: non mira a ricostruire un passato alternativo astratto, ma a valutare, in termini realistici, il danno incrementale derivante dalla mancata attivazione tempestiva degli strumenti predisposti dal c.c.i.i. [F. Macario, La disciplina sostanziale delle azioni di responsabilità nella liquidazione giudiziale, in dirittodellacrisi.it, 26 maggio 2025].

La prova, dunque, non può essere puramente congetturale: spetta all'attore allegare elementi oggettivi (dati contabili, documenti di bilancio, perizie aziendalistiche) che consentano di ricostruire il differenziale tra la situazione effettiva e quella ipotetica, “in presenza di condotta diligente”. L'istruttoria economico-finanziaria diventa quindi il perno dell'accertamento causale, e richiede spesso il ricorso a consulenze tecniche specialistiche.

La Cassazione ha anche chiarito che, nel diritto societario, la causalità non va intesa in termini naturalistici, ma funzionali: l'amministratore risponde del danno che costituisce effetto prevedibile e prevenibile della sua condotta inerte, non di ogni conseguenza economica della crisi.

In conclusione, la prova del nesso causale nella gestione omissiva si fonda su un criterio logico-probabilistico, ispirato alla regola della “preponderanza dell'evidenza” (more likely than not).
L'attore deve dimostrare che, con un comportamento diligente e tempestivo, il danno si sarebbe verosimilmente evitato o attenuato; l'amministratore, per contro, può liberarsi provando che l'evento dannoso sarebbe comunque avvenuto per cause esogene o indipendenti dalla sua condotta (art. 1218 c.c.).

C. Criteri di quantificazione: il danno come peggioramento evitabile

La giurisprudenza quantifica dunque il danno da inerzia gestionale secondo il criterio differenziale: esso corrisponde alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui la condotta omissiva è divenuta colpevole — ossia quando gli amministratori avrebbero dovuto intervenire — e quello esistente all'apertura della liquidazione giudiziale.

Il riferimento normativo è oggi espresso dall'art. 2486, comma 3, c.c., come modificato dall'art. 378 c.c.i.i., che prevede criteri presuntivi di liquidazione in caso di violazione del dovere di gestione conservativa.

La logica è pertanto quella del “peggioramento evitabile”: l'amministratore risponde solo della perdita patrimoniale che un comportamento diligente avrebbe impedito. In tal modo, la quantificazione del danno rispetta la regola di proporzionalità causale e la funzione riparatoria dell'azione di responsabilità.

Sotto il profilo operativo, il peggioramento può essere scomposto in drivers di danno:

  • interessi e oneri finanziari “da ritardo”, derivanti dal prolungamento indebito dell'attività;
  • svalutazioni patrimoniali, per obsolescenza di scorte, inesigibilità dei crediti o deprezzamento degli asset;
  • perdita di avviamento o di continuità aziendale, che riduce il valore di realizzo complessivo;
  • costi contenziosi o sanzionatori, connessi al differimento dell'accesso alla procedura.

In dottrina, peraltro, è stato criticato l'uso meccanico dei “netti patrimoniali”, sottolineando che il danno da inerzia non coincide con la differenza aritmetica dei patrimoni, ma con il decremento di valore attribuibile causalmente alla mancata gestione tempestiva della crisi [M. Fabiani, Perdita di valore dell'impresa, responsabilità degli organi sociali e il pernicioso “abbaglio” dei netti patrimoniali, in Società, 2024, 1045 ss.].

Di certo, la corretta quantificazione richiede comunque un approccio economico-aziendalista, fondato sull'analisi prospettica del valore dell'impresa e non sul mero dato contabile statico.

In prospettiva di sistema, il danno da inerzia si collega direttamente al paradigma della culpa in praeventione: ciò che viene risarcito non è l'insuccesso dell'impresa, ma la perdita evitabile generata dall'omessa prevenzione del dissesto.

Un esempio paradigmatico chiarisce il concetto: se una crisi di liquidità, manifestatasi nel marzo 2024, non viene affrontata mediante composizione negoziata o rinegoziazione del debito, e la liquidazione giudiziale sopraggiunge un anno dopo con aggravamento di perdite, interessi e svalutazioni, la differenza di valore fra il patrimonio “T₀” (data di emersione) e “T₁” (data di apertura della liquidazione) rappresenta il danno incrementale imputabile agli amministratori.

Un ulteriore profilo di grande interesse riguarda la cosiddetta mala gestio cognitiva, ossia l'inerzia derivante non da colpa tecnica, ma da errori di percezione e da pregiudizi cognitivi dei decisori.
È stato acutamente evidenziato al riguardo che i bias cognitivi — overconfidence, anchoring effect, confirmation bias — inducono gli organi gestori a sottovalutare i segnali di crisi, ritardando l'attivazione delle misure correttive [N. Usai, Economia comportamentale e diritto della crisi: il ruolo della “mala gestio cognitiva” nel ritardo dell'emersione delle difficoltà dell'impresa, in Riv. società, 2022, 1216 ss.].

La colpa gestionale, in questi casi, consiste nel mancato approntamento di sistemi decisionali che neutralizzino tali distorsioni: l'assenza di protocolli di risk management e di reporting interno assume dunque rilievo causale.

In definitiva, la quantificazione del danno da inerzia gestionale deve basarsi su un approccio differenziale, aziendalistico e dinamico, coerente con la funzione preventiva dell'art. 2086 c.c. e con la logica del c.c.i.i.. Essa mira non a punire l'insuccesso imprenditoriale, ma a sanzionare l'omissione organizzativa che ha reso la crisi irreversibile.

Responsabilità solidale e insindacabilità delle scelte organizzative

A. La natura solidale della responsabilità

La responsabilità dell'amministratore di fatto è pienamente concorrente e solidale con quella dell'amministratore di diritto: entrambi rispondono verso la società, i soci e i creditori del danno da inerzia o da cattiva gestione.

La S. Corte ha affermato che l'amministratore di fatto risponde solidalmente con quello formale di tutti gli atti di gestione, quando eserciti in modo continuativo e significativo i poteri propri dell'organo amministrativo.

Il principio solidaristico, tuttavia, non esclude una valutazione comparativa dei ruoli e del contributo causale: ai fini dell'eventuale regresso tra coobbligati, infatti, occorre accertare il grado di effettiva partecipazione di ciascun soggetto all'aggravamento del danno [Trib. Catania 8 febbraio 2023, in dirittodellacrisi.it]; il giudizio di causalità “interna” consente di evitare improprie semplificazioni e di ripartire il peso risarcitorio secondo criteri di proporzionalità [M. Fabiani, La determinazione causale del danno nelle azioni di responsabilità sociali e il ripudio delle semplificazioni, nota a Cass. SS.UU. 9100/2015, in Foro it., 2016, 282].

Ne deriva che la solidarietà opera sul piano esterno (verso la società e i creditori), ma non impedisce, sul piano interno, una distinzione di gradi di colpa e di contributo causale.

B. Adeguati assetti e limiti della Business Judgment Rule

Una questione di grande rilievo sistematico riguarda la possibilità di invocare la Business Judgment Rule (BJR) per le scelte organizzative.

Tradizionalmente, la BJR tutela l'amministratore da censure ex post sulle scelte di merito economico, purché adottate in buona fede, informate e nell'interesse della società [Cass. civ. n. 4849/2023: «all'amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c., di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell'amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società; sulla base di quella stessa elaborazione, si è precisato che “il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le modalità e circostanze di tali scelte)”, “anche se presentino profili di rilevante alea economica”. In nessun caso, quindi, il giudice potrà sindacare il merito delle scelte imprenditoriali a meno che, se valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti (cfr. Cass. n. 17441 del 2016; Cass. n. 2975 del 2020)].

Tuttavia, resta controverso se tale principio si estenda alle omissioni organizzative previste dall'art. 2086 c.c.

Si contrappongono sul punto due orientamenti:

  1. Tesi della sindacabilità organizzativa - Secondo alcuni Autori, la BJR non può coprire la violazione di obblighi legali come quello di predisporre assetti adeguati, poiché tale omissione integra una condotta imprudente e contraria alla legge, estranea alla discrezionalità imprenditoriale [P. Montalenti, Dovere di assetto e discrezionalità gestoria, in Riv. dir. comm., 2020, 421 ss.; A.M. Benedetti, La Business Judgment Rule e la gestione della crisi, in Giur. comm., 2023, 964 ss.].
  2. Tesi dell'applicabilità condizionata (prevalente) - Secondo l'indirizzo prevalente, invece, le scelte di tipo organizzativo rientrano nella sfera di discrezionalità gestoria e sono quindi coperte dalla BJR, purché non siano manifestamente irrazionali, sproporzionate o negligenti [F. Macario, La responsabilità nella gestione della crisi d'impresa, Torino, 2025, 212 ss.; V. De Sensi, Adeguati assetti e Business Judgment Rule, in dirittodellacrisi.it, 2025]. Il controllo giurisdizionale è quindi limitato ai casi in cui l'assetto istituito risulti manifestamente inidoneo a rilevare la crisi o a consentire la tempestiva adozione di misure di tutela [v. anche V. De Sensi, Adeguati assetti organizzativi e continuità aziendale: profili di responsabilità gestoria, in Riv. società, 2017, 1198 ss.]. In questo senso la Cassazione ha ribadito che l'operato dell'amministratore è insindacabile nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità, potendosi configurare la responsabilità solo in presenza di scelte abnormi o incoerenti rispetto agli obiettivi di tutela dell'impresa.

In definitiva, la BJR non offre un'immunità assoluta: l'amministratore, di diritto o di fatto, deve comunque dimostrare di aver rispettato il principio di tutela prioritaria degli interessi dei creditori e di aver agito secondo criteri di ragionevolezza e informazione.

L'onere probatorio grava sull'amministratore, che deve dimostrare la coerenza delle scelte organizzative con le condizioni dell'impresa e con i modelli delle scienze aziendalistiche [cfr. M. Fabiani, La determinazione causale del danno nelle azioni di responsabilità sociali, cit.].

Si delinea così un equilibrio raffinato tra discrezionalità imprenditoriale e dovere organizzativo: la libertà di scelta resta garantita, ma la negligenza sistemica (mancata vigilanza, assenza di assetti, sottovalutazione dei rischi) è oggi fonte piena di responsabilità, anche per l'amministratore di fatto.

Il ruolo complementare dei soggetti tenuti al controllo (sindaci e revisori)

A. L'obbligo di vigilanza e la (ormai sorpassata, ma non completamente eliminata) responsabilità solidale

L'adeguatezza degli assetti non è solo un dovere degli amministratori, ma anche l'oggetto primario della vigilanza dei sindaci.

L'art. 2403 c.c. e l'art. 25-octies c.c.i.i. impongono ai sindaci e ai revisori di vigilare sull'adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili istituiti dagli amministratori e sull'attivazione degli strumenti di allerta [G. Covino, Nomina, obblighi di segnalazione e responsabilità degli organi di controllo, in F. Lamanna (a cura di), Società e soci nel codice della crisi d'impresa, Milano, 2025].

La loro inerzia (mancata segnalazione o mancata attivazione dell'obbligo di allerta) può concorrere a determinare il danno per i creditori.

Merita peraltro segnalare che, fino alla modifica dell'art. 2407 c.c. realizzata con la legge 14 marzo 2025 n. 35, la responsabilità dei sindaci e dei revisori era espressamente qualificata come solidale con quella degli amministratori per i fatti o le omissioni conseguenza della omessa o negligente vigilanza.

La S. Corte aveva su questo aspetto affermato che la responsabilità operava tanto nei rapporti interni al collegio sindacale, quanto in quelli con gli amministratori, sicché l'azione rivolta a farla valere non avrebbe dovuto essere proposta necessariamente contro tutti i sindaci e gli amministratori, ma avrebbe potuto essere intrapresa contro uno solo od alcuni di essi, senza l'esigenza di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, in considerazione dell'autonomia e scindibilità dei rapporti con ciascuno dei coobbligati in solido [Cass. civ. n. 25178/2015; cfr. anche, sulla tematica in generale, S. Fortunato, La responsabilità degli organi di controllo, in Riv. dir. comm., 2019].

La citata legge n. 35/2025 ha però inserito al posto dell'originario secondo comma dell'art. 2407 c.c., che prevedeva la responsabilità solidale, la previsione limitatrice secondo cui: «Al di fuori delle ipotesi in cui hanno agito con dolo, anche nei casi in cui la revisione legale è esercitata dal collegio sindacale a norma dell'articolo 2409-bis, secondo comma, i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l'incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10.000 euro, quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, dodici volte il compenso; per i compensi maggiori di 50.000 euro, dieci volte il compenso».

In sostanza, è stata sostituita la responsabilità solidale con gli amministratori gravante sui membri dei collegi sindacali con un sistema di responsabilità limitata basato sul compenso annuo percepito.

L'introduzione di un limite quantitativo alla responsabilità produce effetti a più livelli:

  1. sul piano soggettivo: i sindaci non rispondono più solidalmente con gli amministratori salvo il dolo;
  2. sul piano oggettivo: la liquidazione del danno dovrà tenere conto del massimale legale collegato al compenso.

Ne derivano effetti sistemici di grande impatto.

La modifica, infatti, nell'abrogare l'originario meccanismo di responsabilità solidale con gli amministratori, sostituendolo con una responsabilità patrimoniale limitata in funzione del compenso percepito, segna un deciso mutamento di prospettiva, poichè viene superato il principio di solidarietà piena e introdotto un modello di “responsabilità a tariffa”, volto a contenere il rischio economico dei professionisti e ad incentivare l'assunzione di incarichi di controllo.

La ratio legis è in effetti alquanto trasparente: attenuare il rischio economico connesso all'ufficio di controllo e preservare il mercato delle professioni contabili favorendo la disponibilità di competenze.

In tal modo si verifica però una cesura sistemica rispetto alla tradizione italiana: il controllo societario viene in parte – per così dire - “de-penalizzato”, passando da garanzia integrale a responsabilità proporzionale (forse parzialmente in linea – almeno tendenziale – con taluni modelli europei; si veda, per contesto, la regolazione UE in tema di audit-revisione legale dei conti: Reg. n. 537/2014).

È ben comprensibile dunque la critica – segnalata in dottrina – che il correttivo sia più sensibile alla tutela dei sindaci che all'effettività del sistema dei controlli [su questa tematica in generale si veda L. Benedetti, La nuova responsabilità dei membri del collegio sindacale: alcune prime considerazioni sistematiche, in dirittodellacrisi.it, 23 giugno 2025].

Va infatti considerato che, sebbene persista comunque il dolo come clausola di eccezione, conservandosi così un presidio di rigore nei confronti delle condotte fraudolente o collusive (atteso che in tali casi la responsabilità rimane illimitata e solidale con gli amministratori, secondo l'impianto tradizionale dell'art. 2407 c.c.); tuttavia, nel contesto del Codice della crisi d'impresa, la riforma produce un effetto asimmetrico:

  • da un lato, conferma la centralità della vigilanza sindacale sugli assetti organizzativi (art. 25-octies c.c.i.i.);
  • dall'altro, attenua la pressione sanzionatoria nei confronti dei sindaci, che non rispondono più in via solidale con gli amministratori se non nei casi di dolo.

In pratica, la loro responsabilità si riduce a una funzione indennitaria limitata, più vicina al modello della liability cap del diritto anglosassone.

B. Riflessioni critiche: verso un sistema “duale” della responsabilità

L'effetto sistemico della riforma 2025 è, in definitiva, l'emersione di un modello duale:

  • amministratori (di diritto e di fatto): responsabilità piena e illimitata, ancorata alla culpa in praeventione e al principio di effettività;
  • soggetti tenuti al controllo: responsabilità limitata e parametrica, ancorata al compenso e alla proporzionalità economica.

Questo disallineamento può indebolire la tensione preventiva disegnata dal c.c.i.i.: la prevenzione efficace richiede complementarità simmetrica – chi gestisce agisce, chi controlla vigila. Se la vigilanza è attenuata sul piano patrimoniale, la forza deterrente del sistema può risentirne.

Ne derivano senza dubbio alcuni problemi applicativi e profili critici.

Quanto ai primi:

  • l'introduzione di soglie legate al compenso pone difficoltà operative, poiché la quantificazione del “compenso annuo percepito” può variare per effetto di rinunce, riduzioni o compensi integrativi per incarichi straordinari;
  • inoltre, la norma nel testo novellato non chiarisce il coordinamento con l'art. 255 c.c.i.i. che continua a fondare l'azione di responsabilità del curatore anche nei confronti degli organi di controllo;
  • resta anche da chiarire se, in sede concorsuale, il limite legale operi anche nei confronti della massa dei creditori, o se valga soltanto nei rapporti interni con la società.

Non può dunque che concludersi, sul punto, con una riflessione complessivamente critica.

Sul piano sistematico, la riforma tende a riequilibrare il rischio professionale dei sindaci, ma rischia di indebolire il circuito della prevenzione, sottraendo al sistema dell'allerta una parte del suo effetto deterrente.
La sostituzione della solidarietà con una responsabilità “a soglia” è una scelta di politica legislativa difensiva, volta a garantire una maggiore disponibilità di professionisti qualificati, ma al prezzo di un indebolimento della catena di garanzie.

Il coordinamento con l'art. 25-octies c.c.i.i. (dovere di verifica e segnalazione in presenza di fondati indizi di crisi) evidenzia una tensione: la violazione di tale dovere resta fonte di responsabilità, ma l'intensità sanzionatoria dell'inadempimento è, quantitativamente, ridotta.

Una lettura sistematica coerente con l'impianto del c.c.i.i. induce però a ritenere anzitutto che il limite possa incidere sull'estensione patrimoniale del risarcimento, non sulla natura del dovere di vigilanza.
Restano pertanto fermi i doveri di attivazione, segnalazione e collaborazione con l'organo gestorio; la violazione colposa grave o sistematica può, in chiave ricostruttiva, avvicinarsi alla soglia di antigiuridicità che la giurisprudenza potrebbe trattare come colpa di intensità tale da restringere l'operatività del liability cap in presenza di condotte prossime al dolo (tesi dibattuta in dottrina: cfr. V. Calandra Bonaura, Diligenza e responsabilità nella crisi, in Giur. comm., 2025, 612 ss.).

Da qui l'importanza di un'opera ermeneutica di dottrina e giurisprudenza che “colmi la frattura”, interpretando la limitazione in modo compatibile con effettività e tutela degli interessi dei creditori.
In altri termini, il nuovo art. 2407 c.c. non può diventare licenza d'inerzia, ma razionalizzazione del rischio: i doveri di diligenza e lealtà restano intatti. Com'è stato osservato, la riduzione della responsabilità economica non può significare una riduzione della vigilanza, pena la dissoluzione stessa della logica preventiva del c.c.i.i..

Occorre per quanto possibile evitare che la coesistenza di un regime di responsabilità illimitata per gli amministratori (anche di fatto) e di un regime limitato per gli organi di controllo in caso di colpa lieve generi uno squilibrio nell'attribuzione del rischio, determinando un'asimmetria illogica di incentivi: gli amministratori restano esposti a responsabilità piena, mentre i sindaci vedono la propria responsabilità compressa entro soglie prefissate; mentre la responsabilità dell'amministratore si estende a tutto il peggioramento evitabile (il danno non contenuto dal giudizio controfattuale), il contributo risarcitorio dei sindaci diventa un importo predeterminato, slegato dall'entità effettiva del danno subito dai creditori.

Il rischio è evidente: una “economicizzazione” della vigilanza, scelte di controllo valutate alla luce del tetto legale con possibili effetti di deresponsabilizzazione.

Questo rafforza la conclusione che – in mancanza di soluzioni interpretative correttive - l'onere principale della prevenzione e della gestione tempestiva della crisi, e il rischio economico derivante dalla sua violazione, ricada quasi esclusivamente su chi ha il potere decisionale effettivo (amministratori di fatto e di diritto).

La responsabilità del gestore (anche di fatto) per la culpa in praeventione diventa, in questo scenario normativo, il solo vero e proprio cuscinetto illimitato a tutela dei creditori.

C. Conclusioni sul sistema “duale” della responsabilità in base allo stato attuale

Nel diritto della crisi post-2025 si staglia un equilibrio delicato:

  • l'amministratore (anche di fatto) resta primo presidio di legalità e razionalità gestionale;
  • il sindaco, pur meno esposto sul piano patrimoniale, mantiene un dovere sostanziale di vigilanza la cui violazione – specie in caso di inerzia dolosa o colpa grave – può ancora determinare conseguenze severe.

In chiave di politica del diritto, la riforma segna il passaggio da un modello “punitivo-solidaristico” a un modello “proporzional-preventivo”.

Il rischio, tuttavia, è che la riduzione della minaccia risarcitoria indebolisca la deterrenza del controllo.
Il punto di equilibrio dipenderà da come la giurisprudenza conformerà le categorie di dolo e colpa grave qualificata, e da come la prassi professionale saprà integrare il nuovo regime con gli standard di segnalazione e allerta del c.c.i.i..

Sintesi conclusive sulla diligenza qualificata nella crisi d'impresa

Una volta emersi segnali ragionevoli di crisi, la misura della diligenza richiesta agli organi sociali si intensifica: dalla diligenza “ordinaria” della corretta amministrazione si passa ad una diligenza qualificata, funzionale alla tutela della continuità e alla protezione dei creditori.

Il salto di standard discende dal combinato disposto dell'art. 2086, comma 2, c.c. (assetti adeguati), con l'art. 3 c.c.i.i. (rilevazione tempestiva) e con l'art. 25-octies c.c.i.i. (verifica e segnalazione degli organi di controllo) [cfr. Assonime, Guida al Codice della crisi, agg. 26 novembre 2024].

La dottrina osserva che l'emersione di indizi qualificati (tensione di tesoreria, deterioramento dei test di going concern, covenant a rischio) trasforma il dovere di corretta amministrazione in un dovere di attivazione: non basta “gestire” la crisi, occorre organizzarla con piani, presidi, protocolli decisionali e interlocuzione tempestiva con i creditori [cfr. V. Calandra Bonaura, op. loc. cit.].

Viene così a delinearsi un perimetro operativo della diligenza qualificata:

  • (i) Governo informativo: rafforzamento dei flussi di reporting e di early warning (KPI di liquidità/redditività, test di going concern), con audit trail delle decisioni [Trib. Milano 21 ottobre 2019, in giurisprudenzadelleimprese.it];
  • (ii) Pianificazione e standstill: definizione di piani attestati o, in alternativa, term sheet di ristrutturazione e moratorie finalizzate alla composizione negoziata (CNC);
  • (iii) Attivazione degli strumenti del c.c.i.i.: valutazione tempestiva dell'accesso alla CNC e, se del caso, degli strumenti di regolazione (ARD/Concordato), secondo la logica del “prevenire l'irreversibilità”;
  • (iv) Dialogo con gli stakeholders: ingaggio strutturato di banche, fisco/previdenza e fornitori strategici, in coerenza con best interest e priorità dei creditori.

Sul piano dell'amministratore di fatto, la diligenza qualificata opera integralmente: chi esercita in concreto poteri decisori/finanziari è destinatario degli stessi obblighi organizzativi e di attivazione (principio di effettività ex art. 2639 c.c.), con piena esposizione alla responsabilità da omissione ove la sua inazione aggravi il dissesto [Cass. civ. n. 4849/2023].

Baricentro: non “prevedere” la crisi, ma predisporre e attivare gli assetti per gestirla in tempo utile (strutture, procedure, piani, dialogo). La responsabilità non discende dall'insuccesso imprenditoriale, ma dall'assenza (o manifesta inadeguatezza) dei presidi che avrebbero reso possibili scelte tempestive e informate [Cass. civ. n. 4849/2023].

Conclusione operativa: la tracciabilità delle scelte (verbali, KPI, piani, PEC di segnalazione, minute di trattativa) è lo standard probatorio: ciò che non è tracciato difficilmente esiste ai fini del giudizio.

Gli organi di controllo sono parte integrante del circuito: l'art. 25-octies c.c.i.i. impone verifica e segnalazione scritta e motivata agli amministratori, con prova dell'invio e follow-up sulla risposta. Tempestività e vigilanza sull'andamento delle trattative incidono sulla valutazione della responsabilità ex art. 2407 c.c. [Rivista Corporate Governance, “I doveri di allerta…”, profili operativi art. 14 c.c.i.i.; ODCEC Milano, Le responsabilità di sindaci e revisori, 10 luglio 2025].

La legge 14 marzo 2025, n. 35, che ha riformulato l'art. 2407 c.c. introducendo il liability cap (multipli del compenso annuo) fuori dal dolo, non attenua il nucleo degli obblighi sostanziali: verifica, segnalazione motivata, vigilanza sulle trattative restano intatti. La riforma incide tutt'al più sull'ammontare del ristoro, non sul se la responsabilità sussista [Diritto Bancario, “Luci e ombre sulla nuova responsabilità civile dei sindaci”, 29 settembre 2025].

Il sistema si muove ora su un doppio binario (sintesi):

  • Organo gestorio (anche di fatto): responsabilità piena in chiave di culpa in praeventione (art. 2086 c.c. + art. 3 c.c.i.i.);
  • Organo di controllo: doveri intensi di verifica/segnalazione, con attenuazione quantitativa del danno se la condotta è stata tempestiva e vigilante.

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