Perdite pregresse da fusione e test di vitalità

Giovambattista Palumbo
07 Novembre 2025

La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza in commento, ha chiarito la disciplina in tema di riporto di perdite pregresse nell'ambito di una fusione societaria.

Massima

In caso di fusione non è possibile dedurre le perdite fiscali della società incorporata laddove tale società sia una "bara fiscale". La prova dell'operatività, in base al cosiddetto test di vitalità, è legata, in particolare, ad alcuni componenti di reddito presenti nel conto economico della società le cui perdite sono riportabili, relativi all'esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata. Tale test, in caso di retrodatazione degli effetti fiscali della fusione, deve essere effettuato anche per il periodo compreso tra l'inizio dell'esercizio e la data di efficacia dell'operazione e, in tal caso, l'ammontare delle poste relativo al suddetto intervallo temporale deve essere ragguagliato ad anno per permettere che il confronto con la media degli ultimi due esercizi precedenti sia effettuato tra dati omogenei.

Il caso

Nel caso di specie, per quanto di interesse, gli avvisi di accertamento derivavano da un asserito indebito riporto di perdite da fusione avente efficacia reale; in particolare di quelle perdite pregresse della società incorporata (inerenti all'anno d'imposta 2005/2006), oltre ad ulteriori maturate nel periodo di retrodatazione degli effetti fiscali della fusione, intercorrente tra il luglio 2006 e il giugno 2007.

La società deliberava infatti la fusione con la società incorporata in data 4 aprile 2007 e l'atto di fusione veniva poi stipulato il 14 giugno 2007, con previsione di retrodatazione al primo luglio 2006. A mezzo della fusione erano state inoltre riportate le perdite relative al periodo primo luglio 2005 -  30 giugno 2006.

La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva i ricorsi, ritenendo legittima le deduzione delle perdite pregresse della incorporata. La Commissione Tributaria Regionale confermava poi la sentenza di primo grado, per cui l'Agenzia proponeva infine ricorso in cassazione.

La questione

L'Amministrazione finanziaria denunciava, in particolare, la violazione dell'art. 172, comma 7, Dpr 917/86, deducendo che la Commissione Tributaria Regionale aveva errato nel condividere la tesi della contribuente secondo la quale il "test di vitalità" andava limitato all'esercizio antecedente la fusione e non esteso anche a quello in cui era avvenuta la fusione stessa.

L'art. 172, commi 7 e 9, Tuir, nel testo applicabile ratione temporis, stabiliva che "le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede l'ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall'ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all'articolo 2501 quater del codice civile, senza tener conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa, e sempre che dal conto economico della società le cui perdite sono riportabili, relativo all'esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, risulti un ammontare di ricavi e proventi dell'attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui all'articolo 2425 del codice civile, superiore al 40 per cento di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori. Tra i predetti versamenti non si comprendono i contributi erogati a norma di legge dallo Stato ad altri enti pubblici. Se le azioni o quote della società la cui perdita è riportabile erano possedute dalla società incorporante o da altra società partecipante alla fusione, la perdita non è comunque ammessa in diminuzione fino a concorrenza dell'ammontare complessivo della svalutazione di tali azioni o quote effettuata ai fini della determinazione del reddito dalla società partecipante o dall'impresa che le ha ad essa cedute dopo l'esercizio al quale si riferisce la perdita e prima dell'atto di fusione. In caso di retrodatazione degli effetti fiscali della fusione ai sensi del comma 9, le limitazioni del presente comma si applicano anche al risultato negativo, determinabile applicando le regole ordinarie, che si sarebbe generato in modo autonomo in capo ai soggetti che partecipano alla fusione in relazione al periodo che intercorre tra l'inizio del periodo d'imposta e la data antecedente a quella di efficacia giuridica della fusione. Le disposizioni del presente comma si applicano anche agli interessi indeducibili... (comma 7)... L'atto di fusione può stabilire che ai fini delle imposte sui redditi gli effetti della fusione decorrano da una data anteriore a quella in cui si si è chiuso l'ultimo esercizio di ciascuna delle società fuse o incorporate o a quella più prossima, in cui si è chiuso l'ultimo esercizio della società incorporante (comma 9)".

L'art. 35, comma 17, D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, ha dunque introdotto nell'articolo 172 cit. un nuovo periodo (sopra trascritto), a mezzo del quale si stabilisce che per le fusioni e le scissioni retroattive e deliberate dalle assemblee a partire dal 4 luglio 2006 i limiti per il riporto delle perdite pregresse si estendono al risultato negativo del periodo in cui avviene l'operazione e che la verifica dei requisiti minimi di vitalità economica di cui all'articolo 172, comma 7, del Tuir (ammontare di ricavi e proventi dell'attività caratteristica e di spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi superiori al 40% della media degli ultimi due esercizi precedenti) deve essere effettuata anche per il periodo compreso tra l'inizio dell'esercizio e la data di efficacia dell'operazione.

Osservazioni

Secondo la Suprema Corte la censura era fondata, dovendosi peraltro confermare quanto già espresso con la recente pronuncia delle medesima Corte n. 1715/25.

Rileva la Corte che in virtù delle sopra richiamate disposizioni, le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa l'incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante per la parte del loro ammontare che non ecceda l'ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dell'ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di fusione.

Tale patrimonio netto deve essere depurato dai conferimenti e versamenti fatti negli ultimi 24 mesi anteriori alla data cui si riferisce il bilancio o la situazione di fusione, laddove, tra i suddetti versamenti, non si comprendono i contributi erogati a norma di legge dallo Stato o da altri enti pubblici.

È stato, inoltre, posto un ulteriore limite alla possibilità di dedurre le perdite fiscali pregresse, connesso al fatto che la società sia, sostanzialmente, una realtà operativa e non una "bara fiscale", laddove la prova dell'operatività è legata, in particolare, ad alcuni componenti di reddito presenti nel conto economico della società le cui perdite sono riportabili, se relativi all'esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata. A tale fine deve quindi risultare un ammontare di ricavi e di proventi dell'attività caratteristica, nonché un ammontare delle spese di lavoro subordinato e relativi contributi di cui all'articolo 2425 c.c., superiore al 40% di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori (c.d. "test di vitalità").

Il suddetto test, rileva la Cassazione, in caso di retrodatazione degli effetti fiscali della fusione, deve essere effettuato anche per il periodo compreso tra l'inizio dell'esercizio e la data di efficacia dell'operazione, e, in tal caso, l'ammontare delle poste relativo al suddetto intervallo temporale deve essere ragguagliato ad anno per permettere che il confronto con la media degli ultimi due esercizi precedenti sia effettuato tra dati omogenei.

La ratio della relativa disciplina, secondo la Corte, “persegue l'obiettivo di evitare l'incorporazione di società inattive a fini elusivi ("vitalità" della società) e la fusione di "scatole vuote" o cariche solo di perdite da portare "in dote" all'incorporante, ma ormai svuotate di ogni concreta operatività, ed esige che la società abbia una residua efficienza, costituendo il predetto limite una presunzione di legge di operatività, che rende irrilevanti, a tali fini, depotenziamenti dell'attività contenuti in tali limiti, ma senza, nel contempo, pretendere alcun depotenziamento” (così da ultimo Cass., n. 1715/25; cfr., Cass., 17/07/2019, n. 19222 e Cass., 20/10/2011, n. 21782).

In definitiva, il suddetto quadro normativo è stato interpretato nel senso che il diritto dell'incorporante alla riportabilità delle perdite pregresse in esito ad operazione di fusione opera soltanto in presenza di tre requisiti:

1) del limite del patrimonio netto delle singole società risultante dall'ultimo bilancio, ovvero, se inferiore, dalla situazione patrimoniale predisposta nell'ambito del procedimento di fusione (art. 2501 quater c.c.);

2) delle condizioni di operatività delle imprese partecipanti alla fusione rappresentate dal conseguimento da parte delle stesse nell'esercizio anteriore alla deliberazione della fusione di ricavi e proventi dell'attività caratteristica e di spese per lavoro dipendente non inferiori a una determinata percentuale (quaranta per cento) rispetto alla media dei due periodi d'imposta immediatamente anteriori;

3) delle precedenti svalutazioni sulla partecipazione alla società incorporata effettuate da parte dell'incorporante o dall'impresa che l'ha ceduta a quest'ultima (ossia all'incorporante) dopo l'esercizio di realizzazione della perdita astrattamente riportabile.

L'assenza di anche di uno solo di tali requisiti determina l'inapplicabilità del regime previsto dalla norma (così Cass., n. 19222/2019, Cass., n. 5953/2021 e Cass., n. 26613/2022).

In tema di reddito imponibile di società partecipanti ad una operazione di fusione, la disciplina contenuta nell'art. 172, comma 7, Tuir, posta a tutela dal rischio di operazioni finalizzate al raggiungimento di obiettivi esclusivamente o prevalentemente elusivi, costituisce, in sostanza, una regola "circolare", che, mediante l'identificazione di criteri legali presuntivi specificamente predeterminati, assicura all'operatore economico la conoscenza degli effetti della fusione sotto il profilo fiscale ed è in ogni caso disapplicabile, mediante il ricorso all'interpello previsto dall'art. 11 della L n. 212/2000, qualora sia dimostrato che la società partecipante all'operazione, pur con perdite fiscali incompatibili con la deducibilità dal reddito della società risultante dalla fusione, non è una "scatola vuota" (cfr., Cass., n. 1715/2025 e Cass. n. 1035/2023).

Tale finalità antielusiva sarebbe chiaramente agevolmente elusa, conclude la Cassazione, laddove non si prendesse in considerazione, in caso di retrodatazione, anche il periodo che intercorre tra l'inizio del periodo d'imposta e la data antecedente a quella di efficacia giuridica della fusione, e quindi alla frazione di anno decorsa anteriormente all'adozione della fusione, in cui la società potrebbe essere interamente svuotata senza conseguenze sul test di operatività, il cui significato sarebbe allora ridotto a una inutile formalità priva di efficacia effettiva.

Tanto premesso in linea generale, nella specie si verteva, come visto, in un'ipotesi di fusione con retrodatazione dei suoi effetti fiscali ed era pacifico che il test di vitalità dell'impresa non era stato superato per il periodo compreso tra l'inizio dell'esercizio e la data di efficacia dell'operazione, così come era pacifico che erano assenti le condizioni di operatività delle imprese partecipanti alla fusione nel periodo temporale contemplato dal settimo comma dell'art. 172 del Tuir, dovendosi pertanto escludere il riconoscimento all'incorporante del diritto alla riportabilità delle perdite pregresse in esito all'operazione di fusione.

Conclusioni

Al di là dello specifico caso processuale, giova evidenziare che, in assenza dei parametri patrimoniali e dei requisiti economici previsti dall'art. 172, comma 7, del Tuir vale dunque una ratio antielusiva, che mira, anche, attraverso le dette presunzioni (legali relative), a contrastare l'utilizzo indebito di società con perdite fiscali, prive di vitalità economica e pertanto non operative.

Il tema si pone peraltro spesso anche in caso di operazioni di leverage buy out, laddove però la società veicolo potrà considerarsi "vitale" allorché svolga funzioni strumentali alla realizzazione dell'operazione stessa e l'operazione posta in essere non manifesti un intento elusivo, ma una valida causa economica, consistente, per esempio, nella ristrutturazione societaria di gruppi d'imprese.

Le operazioni di MLBO costituiscono, del resto, tecniche di acquisizione di partecipazioni societarie, la cui peculiarità consiste nella circostanza che il debito contratto per l'acquisto della target è destinato ad essere ripagato dai flussi di cassa generati dalla stessa società acquisita.

Tuttavia, è assai frequente che gli stessi soggetti finanziatori, allo scopo di vedere meglio garantito il proprio investimento, richiedano la fusione tra la società veicolo e la target così da rendere automatico, in capo al soggetto risultante dalla fusione, il predetto asservimento dei flussi di cassa al sostenimento degli oneri finanziari relativi al debito originariamente contratto dalla veicolo (per l'acquisto della target stessa).

La riforma societaria del 2001 ha comunque definitivamente fugato ogni dubbio circa la liceità civilistica di dette operazioni e le operazioni di MLBO sono ora regolamentate disciplinate all'interno dell'art. 2501-bis c.c.

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