Se il deputato registra le sue conversazioni con l’indagato non si applica la disciplina delle intercettazioni
Leonardo Filippi
07 Novembre 2025
La Corte di cassazione si interessa di una singolare vicenda processuale, nata dalla denuncia di un deputato e dalle sue personali investigazioni, concretizzatesi con la registrazione dei colloqui intrattenuti con le persone sospettate di reato, per ribadire la sostanziale differenza tra intercettazione da parte del terzo e registrazione operata da uno dei conversanti.
La vicenda
Il ricorrente era indagato per vari episodi di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio ex art. 319 c.p., perché, nella sua qualità di dipendente in servizio presso l'ufficio di un'Ambasciata italiana in Bangladesh, competente per il rilascio dei visti d'ingresso in Italia, tra il 2021 ed il 2023, avrebbe ricevuto denaro ed altre utilità da un coindagato nonché da altri cittadini bengalesi rimasti non identificati, al fine di seguire, accelerare e favorire le pratiche di rilascio dei visti in favore di costoro e di altri loro connazionali segnalatigli dallo stesso coindagato.
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale gli aveva applicato gli arresti domiciliari e il Tribunale, con l'ordinanza impugnata, aveva respinto la sua richiesta di riesame, confermando l'applicazione di tale misura cautelare.
Avverso quest'ultima decisione, l'indagato aveva proposto ricorso, deducendo ben sette motivi, anche se solo alcuni di essi sono di maggior interesse.
Perquisizione e sequestro dei messaggi WhatsApp ex art. 252 c.p.p.
Anzitutto il motivo, in tema d'inutilizzabilità dei messaggi whatsapp, che lamentava una mancata specificazione nel decreto di perquisizione e sequestro, nel quale è richiamato l'art. 252, c.p.p., e non il successivo art. 254 c.p.p.
Osserva la sentenza che l'ordinanza impugnata «spiega razionalmente come il decreto di perquisizione e sequestro emesso dal Pubblico ministero, avendo espressamente menzionato "missive" e mails, intendesse riferirsi a qualsiasi forma di corrispondenza, anche di natura digitale, non emergendo dal provvedimento, neppure implicitamente, alcuna ragione plausibile per escludere dal relativo ambito forme comunicative diversamente denominate, ma comunque rientranti nel genus della "corrispondenza", secondo la definizione che ne dà lo stesso legislatore penale all'art. 616 c.p., ricomprendendovi «quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica, ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza».
Nello stesso senso soccorre la stessa sentenza n. 170 del 2023 della Corte costituzionale, su cui il ricorrente fonda la propria doglianza, nella cui motivazione è detto esplicitamente che lo scambio di messaggi elettronici - e-mail, sms, whatsapp e simili - rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti dell'art. 15 Cost., dal momento che «quello di "corrispondenza" è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», a prescindere «dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero». Pertanto - prosegue la Corte costituzionale - «posta elettronica e messaggi inviati tramite l'applicazione whatsapp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione dell'art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi» e costituendo «versioni contemporanee della corrispondenza epistolare e telegrafica». E, ad ulteriore conforto, i giudici delle leggi richiamano anche la conforme giurisprudenza della Corte EDU che senza incertezze riconduce sotto il cono di protezione dell'art. 8 Conv. Edu, in cui pure si fa riferimento alla «corrispondenza» tout court, i messaggi di posta elettronica (Grande camera, sentenza 5 settembre 2017, Barbulescu c. Romania, 72; Sezione quarta, sentenza 3 aprile 2007, Copland c. Regno Unito, 41), gli sms (Sezione quinta, sentenza 17 dicembre 2020, Saber c. Norvegia, 48) e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite Internet (Grande Camera, sentenza Barbulescu, cit., 74).
Così come rilevato dal Tribunale del riesame, dunque, il riferimento testuale operato dal Pubblico ministero, nel proprio decreto, al solo art. 252 c.p.p. e non anche all'art. 254 c.p.p., specificamente riguardante la corrispondenza, costituisce un dato puramente formale e di nessuna rilevanza, una volta che – come nessuno discute – siano state comunque rispettate le regole di acquisizione dell'elemento di prova.
Inammissibile è stato dichiarato anche il motivo aggiunto, in tema di necessità del controllo preventivo di un giudice per l'accesso ai dati contenuti in un dispositivo informatico ai fini di un'indagine penale. In primo luogo, infatti, tale censura risulta nuova ed eccentrica rispetto a quella d'inutilizzabilità dei messaggi "whatsapp" dedotta con il ricorso, prospettando una causa d'invalidità del medesimo dato probatorio ma per motivi completamente differenti e, perciò, incontrando lo sbarramento previsto dall'art. 585, comma 4, c.p.p.
In ogni caso, la doglianza è stata ritenuta generica, poiché la difesa non spiega per quale ragione l'eventuale vizio dell'atto, con la conseguente esclusione dei risultati probatori in tesi invalidi od inutilizzabili, determinerebbe il venir meno del quadro di gravità indiziaria (c.d. "prova di resistenza").
A nostro modo di vedere, la sentenza dimentica, però, che sul tema è intervenuta la Corte giust. U.E. affermando importanti principi di diritto. I giudici di Lussemburgo hanno precisato che «al fine di garantire che i presupposti per il trattamento ai dati siano rispettati è necessario che l'accesso «sia subordinato a un controllo preventivo effettuato da un giudice o da un organo amministrativo indipendente» (p. 102). Tale controllo deve intervenire prima di qualsiasi tentativo di accesso ai dati, salvi i casi di urgenza, in cui deve intervenire in tempi brevi. In sostanza, quindi, la Corte di giustizia ha ritenuto che il trattamento di dati personali, inteso in senso ampio, debba essere apprezzato da un giudice o da un organo amministrativo indipendente. In quell'occasione il quesito sottoposto alla Corte era se tale disposizione dovesse essere interpretata nel senso che può considerarsi come un'autorità amministrativa indipendente anche il pubblico ministero. La Corte giust. U.E. ha chiarito che il requisito di indipendenza che l'autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo deve soddisfare «impone che tale autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che chiede l'accesso ai dati, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale al riparo da qualsiasi influenza esterna. In particolare, in ambito penale, il requisito di indipendenza implica […] che l'autorità incaricata di tale controllo preventivo, da un lato, non sia coinvolta nella conduzione dell'indagine penale di cui trattasi e, dall'altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale. Ciò non si verifica nel caso di un pubblico ministero che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l'azione penale. Infatti, il pubblico ministero non ha il compito di dirimere in piena indipendenza una controversia, bensì quello di sottoporla, se del caso, al giudice competente, in quanto parte nel processo che esercita l'azione penale» (Corte giust. U.E., Grande Camera, 2.3.2021, C-746/18, Prokuratuur, p. 54-57).
Ripetitiva è piuttosto la censura al ricorso che non proceda alla cosiddetta prova di resistenza. Come abbiamo scritto in passato, la regola codicistica è la tassatività delle sanzioni processuali, dettata esplicitamente per la nullità ex art. 177 c.p.p., per cui è ammessa “soltanto nei casi previsti dalla legge” e pacificamente operante anche per l'inammissibilità e quindi non ammette estensioni giurisprudenziali, e non esiste alcuna disposizione di legge che preveda l'inammissibilità del ricorso che non offra la “prova di resistenza”.
Solo per i motivi di appello l'art. 581 comma 1-bis c.p.p. prevede l'inammissibilità (dell'appello, non del ricorso!) per “mancanza di specificità dei motivi”, individuando il vizio «quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l'impugnazione». Si distingue perciò tra inammissibilità per aspecificità “intrinseca” o “interna” ai motivi di impugnazione, quando questa è fondata su considerazioni generiche e astratte o non pertinenti al caso concreto e inammissibilità per aspecificità “estrinseca o “esterna” quando l'impugnazione non è basata su argomenti strettamente correlati agli accertamenti della sentenza di primo grado (in tal senso P. Tonini- C. Conti).
Comunque, come si vede, non è richiesta alcuna “prova di resistenza”, nemmeno per l'appello e tanto meno per il ricorso, ma semplicemente e giustamente l'indicazione delle argomentazioni critiche alla motivazione del provvedimento impugnato.
Il mancato deposito in atti della registrazione dei colloqui
Altrettanto interessante è il motivo di ricorso, dichiarato non fondato, con cui si deduceva
il mancato riversamento in atti della traccia audio-video originale della registrazione dei colloqui tra l'onorevole e i soggetti da lui investigati. Osserva la sentenza che tale mancato riversamento non incide sull'utilizzabilità di tale dato probatorio, non risultando che il relativo documento sia stato formato od acquisito in violazione di specifiche disposizioni di legge. L'assenza del documento digitale originario potrebbe influire, semmai, sull'affidabilità di quello acquisito agli atti e, quindi, sulla relativa capacità dimostrativa, trattandosi, perciò, di questione sulla prova.
Tutto questo l'ordinanza impugnata lo spiega chiaramente, così come rileva che la difesa non adduce alcun elemento tale da poter dubitare della genuinità del documento sonoro versato in atti ed il ricorso nulla replica sul punto.
A nostro parere, anche sul punto la sentenza mette a fuoco l'obiettivo sbagliato, perché il mancato deposito della registrazione, cioè della prova a carico del ricorrente, non dà luogo ad un problema di affidabilità ma consuma evidentemente una nullità per lesione del diritto di difesa, dal momento che l'indagato non è stato posto in condizione di esaminare e controdedurre sulla prova posta a suo carico.
Inapplicabilità dell'art. 68 Cost. alle registrazioni operate dallo stesso deputato
Manifestamente infondato e, anche in questo caso, semplicemente reiterativo di quanto già dedotto al Tribunale del riesame è stato ritenuto pure il motivo di ricorso, relativo all'inutilizzabilità dei files audio-video delle conversazioni intrattenute dall'on., per violazione dell'art. 68 Cost.
L'ordinanza impugnata, infatti, si diffonde ampiamente sul punto, spiegando adeguatamente, con puntuali e pertinenti richiami di giurisprudenza di legittimità, perché le registrazioni di conversazioni effettuate da quel deputato non costituiscano intercettazioni e perché, inoltre, la disciplina dell'art. 68 Cost., non possa trovare applicazione qualora - com'è avvenuto nello specifico - sia lo stesso parlamentare a registrare di nascosto i propri colloqui con terze persone.
Sul punto la sentenza è pienamente condivisibile.
Chi registra le proprie conversazioni non è un agente provocatore
È stato dichiarato inammissibile il motivo basato sull'inutilizzabilità dei predetti files per avere l'on. agito quale agente provocatore al di fuori dei limiti imposti dall'art. 9 legge n. 146 del 2006.
In primo luogo, tale è perché non risulta proposto con la richiesta di riesame, in violazione del generale principio devolutivo delle impugnazioni, né è rappresentativo di una palese violazione di legge, occorrendo a tal fine una ricostruzione dei fatti più specifica di quella che è dato evincere dall'ordinanza e dal ricorso e che, ovviamente, esula dalle competenze della Corte di cassazione. In ogni caso, il riferimento è del tutto eccentrico, perché il predetto art. 9 prevede una causa di giustificazione per gli operatori di polizia giudiziaria che, nell'esercizio dei loro compiti istituzionali ed al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ad un catalogo di delitti, tra cui quelli di corruzione, tengano condotte penalmente rilevanti o, comunque, immediatamente strumentali alla realizzazione di reati da parte di terzi. Nello specifico, invece, non solo l'on. non rivestiva quella qualifica istituzionale, ma nessuno adduce, nemmeno la difesa ricorrente, che egli abbia commesso reati od abbia indotto i conversanti a commetterli, essendosi legittimamente limitato ad ottenere da costoro una conferma del loro precedente agire illecito e della loro disponibilità a farlo ancora.
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Sommario
Inapplicabilità dell'art. 68 Cost. alle registrazioni operate dallo stesso deputato
Chi registra le proprie conversazioni non è un agente provocatore