È distrazione anche quando i beni sono detenuti in forza di un contratto di leasing
07 Novembre 2025
Alla stesura del presente contributo ha partecipato l'Avv. Alice Falconi. Massima Integra il reato di bancarotta patrimoniale la distrazione di beni entrati nella effettiva disponibilità della società fallita in virtù di un contratto di leasing, sia che esso sia risolto prima della dichiarazione di fallimento o dopo la stessa, in quanto la perdita del valore del bene, suscettibile di riscatto, nonché l'onere economico derivante dall'inadempimento dell'obbligo di restituzione verso il concedente determinano un pregiudizio per la massa fallimentare. Il caso Con la sentenza in commento la Corte Suprema di Cassazione decide sul ricorso proposto dall'imputato avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano, che aveva confermato la condanna pronunciata dal Tribunale di Monza, in relazione a fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione ex art. 223, comma 2, n.2, l. fall. e documentale. Per quanto di interesse in questa sede, le condotte distrattive riguardavano alcuni dispositivi elettronici (I-pad), oggetto di un contratto di leasing operativo, che erano stati dati in godimento ai dipendenti della società in bonis e che, intervenuto il fallimento, erano stati rivendicati dalla concedente. Rispetto alla descritta condotta, l'imputato articolava tre motivi di ricorso deducendo, con i primi due motivi, la violazione di legge e il vizio motivazionale della sentenza in relazione alla ritenuta distrazione dei beni aziendali, detenuti a titolo di leasing operativo. Ad avviso della difesa, invero, tali beni, rimanendo nella proprietà della società concedente, non sarebbero entrati nel patrimonio della fallita e comunque sarebbero stati privi di rilevanza economica, data la loro obsolescenza, sicché il loro mancato rinvenimento non avrebbe causato alcun pregiudizio concreto per la massa dei creditori. Con il terzo motivo, poi, il ricorrente denunciava violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza di un nesso causale tra le condotte distrattive ed il danno per i creditori. Nonostante il Procuratore Generale concludesse per l'annullamento con rinvio della sentenza, relativamente alla distrazione dei beni oggetto del contratto di leasing, il Supremo Consesso dichiarava infondati i predetti motivi di gravame e rigettava il ricorso. La questione Le questioni giuridiche su cui sono stati chiamati a pronunciarsi i Giudici di legittimità sono due. Segnatamente, se può ritenersi possibile oggetto di distrazione anche il bene che non entra nella disponibilità giuridica della fallita, in quanto rientrante in un contratto di leasing, e se la condotta distrattiva è integrata anche quando il bene distaccato è privo di sostanziale rilevanza economica. Le soluzioni giuridiche Per risolvere le questioni giuridiche sottopostegli, il Supremo Consesso prende le mosse dal pacifico orientamento secondo cui, in caso di un bene pervenuto all'impresa in conseguenza della stipula di un contratto di leasing, qualsiasi manomissione del medesimo che ne impedisca l'acquisizione alla massa o che comporti per quest'ultima un onere economico derivante dall'inadempimento dell'obbligo di restituzione integra il reato di distrazione. In tale prospettiva, i giudici di legittimità valorizzano l’assunto secondo cui integra il reato di bancarotta patrimoniale la distrazione di beni entrati nella disponibilità, anche solo di fatto, della società fallita. Ciò in quanto, quel che più rileva, è la disponibilità materiale del bene in capo all’utilizzatore, che poi viene dichiarato fallito, essendo del tutto pacifico che la disponibilità giuridica, al contrario, rimanga in capo al concedente, almeno sino alla fine del rapporto contrattuale e salvo che l’utilizzatore non eserciti il diritto di opzione, riscattando il bene ed acquisendone la proprietà. Questo perché, spiega la Corte di cassazione, la disponibilità di fatto postula, pur sempre, l’avvenuta consegna del bene, cosicché la sua relativa appropriazione, distrazione o sottrazione comporta un duplice pregiudizio per la massa fallimentare, che viene, da un lato, privata del valore dello stesso conseguibile tramite l’esercizio dell’opzione di riscatto a fine rapporto e, al contempo, gravata dell’onere conseguente all’inadempimento contrattuale di restituzione del bene medesimo. I Giudici di Legittimità risolvono, infine, sbrigativamente, la censura in ordine alla mancanza di pregiudizio economico in capo ai creditori, in ragione dell’asserita vetustà e dello scarso valore economico dei dispositivi informatici, richiamando l’indiscussa natura di reato di pericolo del delitto in esame, che renderebbe del tutto irrilevante, ai fini della sua integrazione, l’assenza di danno in capo alla massa dei creditori. Osservazioni e conclusioni Pur non essendo esplicitato, deve presumersi che il ricorso proposto dall'imputato faccia perno su un principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui in materia di bancarotta fraudolenta, nella nozione di beni appartenenti al fallito, rientrano le cose oggetto del diritto di proprietà, dei diritti immateriali, i crediti, ma non anche quei beni che non siano mai entrati nel di lui patrimonio. Secondo il citato indirizzo interpretativo, non sono, pertanto, beni dell'imprenditore, quelli che sono nella sua limitata disponibilità, per averli egli ricevuti a titolo diverso dalla translatio dominii (locazione, comodato, deposito) e che, quindi, non sono mai usciti dal patrimonio del dominus. Con la logica e – vedremo solo parzialmente – condivisibile conseguenza che non è condotta sanzionabile, come bancarotta fraudolenta, l'atto di disposizione di beni mai entrati nel patrimonio dell'imprenditore, tra cui rientrano i beni sui quali il fallito ha un possesso solo precario e il proprietario vanta un diritto alla restituzione, come nel caso di beni ricevuti in locazione, deposito o comodato. I principi di diritto appena menzionati e valorizzati dal ricorrente, tuttavia, debbono essere letti in relazione al decisivo profilo della ravvisabilità di un effettivo ingresso del bene nel patrimonio dell'imprenditore, al di là della tipologia del rapporto negoziale quale presupposto dell'acquisizione della disponibilità del bene stesso. Sulla scorta di quanto affermato, occorre, pertanto, distinguere le ipotesi in cui un bene sia individuabile e reperibile nella sua originaria materialità, da quelle in cui un atto di disposizione di quel bene abbia comportato l'ingresso di denaro nel patrimonio dello stesso fallito, la cui spendita o sottrazione alla massa fallimentare può costituire distrazione penalmente rilevante. E allora, per comprendere appieno la portata del principio espresso dalla Corte di Cassazione, appare appena il caso di ricordare che il contratto di leasing, o locazione finanziaria, è il negozio atipico col quale una parte, denominata concedente, dietro corrispettivo di un canone periodico, concede ad un'altra parte (utilizzatore) il godimento di un bene, con facoltà di restituirlo al termine prefissato ovvero di riscattarlo dietro pagamento di una specificata somma residua. Alla luce di ciò, ne deriva che la proprietà del bene, in pendenza del termine di durata del contratto, rimane in capo al concedente e il relativo trasferimento è solo eventuale, in quanto dipende dalla scelta dell'utilizzatore, che sarà effettuata in base a una valutazione della residua utilità economica della cosa, in rapporto all'ammontare del prezzo di riscatto. A questo punto, va ricordato che è stato affermato, a più riprese, il principio secondo cui la cessione di un contratto di locazione finanziaria integra gli estremi della distrazione nel solo caso in cui determini un effettivo nocumento nei confronti dei creditori, il che è escluso quando la permanenza del rapporto negoziale nel patrimonio affidato al curatore costituisca, in concreto, dal punto di vista economico, un onere e non già una risorsa positiva. Tuttavia, l'orientamento ora ricordato riguarda la peculiare ipotesi di cessione del contratto, senza affrontare il tema centrale e nodale per la risoluzione della questione qui sottoposta al vaglio della Corte di cassazione, della concreta acquisizione del bene da parte del fallito, acquisizione che ben può risolversi anche in una disponibilità di fatto. Non a caso, le innumerevoli decisioni richiamate dalla Corte Suprema di Cassazione hanno chiarito che, in tema di bancarotta per distrazione di beni ottenuti in leasing, ai fini della configurabilità del reato in capo all'utilizzatore poi fallito è necessario che tali beni fossero nella sua effettiva disponibilità, in conseguenza dell'avvenuta consegna, e che di essi vi sia stata appropriazione, non rilevando la tipologia del contratto di leasing (traslativo o di godimento). La configurabilità del reato di bancarotta per distrazione presuppone, infatti, che i beni non rinvenuti in sede di inventario siano entrati realmente nella sfera patrimoniale della società fallita, situazione che può concretizzarsi anche con la mera disponibilità di fatto, atteso che quest'ultima postula pur sempre l'avvenuta consegna del bene. Si tratta, a ben vedere, di una disponibilità giuridicamente qualificata, che permette all'utilizzatore non solo di destinare il bene (fisiologicamente) alle proprie necessità imprenditoriali, ma anche eventualmente (e patologicamente) di manometterlo o distrarlo. Di talché anche il distacco ingiustificato del bene oggetto del contratto di leasing integra, sul piano oggettivo, la fattispecie incriminatrice, comportando un innegabile pregiudizio per la massa fallimentare, che, da un lato, viene privata del relativo valore, e, dall'altro, risulta gravata di un ulteriore onere economico scaturente dall'inadempimento dell'obbligo di restituzione. Sotto il primo profilo, se è vero che - in base al modello contrattuale in esame - la proprietà del bene rimane in capo al concedente fino all'eventuale pagamento del c.d. prezzo di opzione, è da sottolineare che il diritto di acquistare il bene alla scadenza del contratto è un diritto senza dubbio spettante all'utilizzatore, diritto avente ad oggetto un valore economico, la cui distrazione, in caso di fallimento, integra quindi la condotta descritta nel primo comma, n.1, dell'art. 216 l.fall. Sotto il secondo profilo, va ricordato che l'inadempimento dell'obbligo di restituzione, con la conseguente esposizione della società verso chi era titolare del correlato diritto, implica una deminutio patrimonii, in virtù della previsione secondo cui, se le cose delle quali il fallito deve la restituzione non si trovano più in suo possesso il giorno della dichiarazione di fallimento, l'avente diritto può far valere nel passivo il credito pari al valore che la cosa aveva alla data della dichiarazione del fallimento. Ma per permettere di comprendere ancora meglio il principio espresso, forse in modo eccessivamente conciso, dalla Corte di cassazione, risulta utile un richiamo all'art. 72-quater l. fall., disciplinante la sorte dei rapporti pendenti in capo alla società dichiarata fallita e, in particolare, quello di locazione finanziaria. Ebbene, a mente del secondo comma della citata norma, in caso di scioglimento del contratto, il concedente (che ha diritto alla restituzione del bene) è tenuto a versare alla curatela la differenza tra la maggiore (eventuale) somma ricavata dalla vendita del bene ovvero da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato, rispetto al residuo credito vantato dal concedente in linea capitale per il mancato (eventuale) pagamento dei canoni di leasing. Risulta evidente, dunque, che il disposto normativo di cui all'art. 72-quater l.fall. attribuisca all'utilizzatore un diritto soggettivo, economicamente valutabile, che entra a far parte del patrimonio dello stesso e che può essere oggetto dei fatti di bancarotta. Ne consegue che l'appropriazione illecita da parte dell'utilizzatore del bene concesso in leasing non solo onera la curatela fallimentare del costo economico derivante dall'inadempimento contrattuale all'obbligo di restituzione sopra delineato e discendente direttamente dal sinallagma contrattuale sotteso al predetto negozio, ma determina per la fallita anche il pregiudizio economico causato dalla perdita, non già del bene stesso propriamente inteso, ma dei diritti ad esso collegati ed esercitabili dal fallimento al termine del contratto e, più precisamente, del diritto di riscatto e del credito conseguente al differenziale di valore economico descritto dal secondo comma dell'art. 72-quater, per come sopra ricordato. Di conseguenza, può concludersi che ben può essere oggetto di distrazione il bene detenuto dalla società, poi fallita, in forza di un contratto di leasing, ancorché nella mera disponibilità di fatto della stessa e non rientrante nella sua disponibilità giuridica. Rispetto all'altro motivo di gravame con cui veniva valorizzata la circostanza che i beni fossero talmente obsoleti da non avere più alcun valore economico e di conseguenza il loro distacco non fosse concretamente idoneo a compromettere la garanzia patrimoniale della società, la Suprema Corte obbietta che il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale è pacificamente una fattispecie di pericolo e non è pertanto richiesto il requisito del nesso di causalità tra condotta distrattiva e fallimento. Invero, il requisito del danno non è previsto dalla Legge che punisce «l'imprenditore che ha distratto" e non già "l'imprenditore che ha cagionato il fallimento» e sarebbe escluso anche dalla ratio delle norme che intendono punire la condotta distrattiva, in ragione non già della sua effettiva dannosità, ma della sua pericolosità per la tutela del bene giuridico protetto, anche prima dell'intervento del giudice che emette la sentenza di fallimento. Si punisce, in altre parole, il pregiudizio agli interessi della massa dei creditori non già per effetto dell'insolvenza, bensì per effetto dell'ingiustificato depauperamento del patrimonio della società che deve servire a garantire i loro crediti. Tuttavia, la Corte omette di considerare che, secondo l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, la bancarotta fraudolenta per distrazione è sì un reato di pericolo, però concreto, quindi è necessario che la condotta sia idonea concretamente a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma (ex plurimis, Cass., Sez. V, n. 23155/2025). Questo significa che, pur non essendo richiesto un nesso causale tra i fatti di bancarotta e il successivo fallimento, è comunque necessario che il fatto di bancarotta abbia determinato un depauperamento significativo ed apprezzabile del patrimonio dell'impresa con correlativo danno per la conservazione dell'integrità del patrimonio, quale garanzia per i creditori insinuati nella procedura concorsuale. Ciò comporta che il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva punisca non già, indifferentemente e sempre, qualsiasi atto in diminuzione del patrimonio della società, «ma soltanto e tutti quelli che quell'effetto sono idonei a produrre in concreto, con esclusione, pertanto, di tutte le operazioni o iniziative di entità minima o comunque particolarmente ridotta e tali, soprattutto se isolate o realizzate quando la società era in bonis, da non essere capaci di comportare una alterazione sensibile della funzione di garanzia del patrimonio» (Sez. 5, n. 35093/2014). La ricostruzione del reato di bancarotta fraudolenta come reato di pericolo concreto si riverbera anche sulla configurazione dell'elemento psicologico, il quale è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, nè lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ma è sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474/2016). La condotta distrattiva deve, pertanto, essere assistita dalla consapevolezza che si stanno compiendo operazioni sul patrimonio sociale idonee a cagionare danno ai creditori. In sostanza, il dolo tipico richiede la rappresentazione, da parte dell'agente, della pericolosità della condotta distrattiva, da intendersi «come probabilità dell'effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di determinare e, dunque, la consapevole volontà del compimento di operazioni sul patrimonio sociale, o su talune attività, idonee a cagionare un danno ai creditori» (Sez. 5, n. 38396/2017). Entrambi gli elementi costitutivi del reato, quello oggettivo e quello soggettivo, costituiscono oggetto dell'onere motivazionale che grava sul giudice di merito, il quale deve dare conto della loro sussistenza sulla base di una puntuale analisi della fattispecie concreta, attraverso l'individuazione di “indici di fraudolenza”, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell'azienda, nel contesto in cui l'impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell'amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell'integrità del patrimonio dell'impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall'altro, all'accertamento in capo all'agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa (Sez. 5, n. 38396/2017). Ora, non è dato sapere, nel caso di specie, di quanti dispositivi I-pad si discuta e di quale valore essi abbiano avuto ma, forse, la Corte sul punto, conformandosi al richiamato orientamento, avrebbe potuto accogliere le doglianze difensive, quantomeno con un rinvio alla Corte territoriale per stabilire, qualora non fosse stato già determinato, il valore dei predetti beni e la loro conseguente capacità di determinare, in caso di distrazione, un effettivo depauperamento del patrimonio della società, verificando altresì, nel caso di specie, la presenza o meno dei c.d. indici di fraudolenza. |