Le preclusioni probatorie: tra diritto al silenzio del contribuente e dovere di collaborazione
Daniela Mendola
12 Novembre 2025
Per preclusioni probatorie (art. 32, d.P.R. n. 600/73), si deve intendere l'impossibilità per il contribuente che non abbia presentato i documenti, a seguito della richiesta dell'amministrazione finanziaria, di utilizzarli a suo favore, sia nella fase amministrativa, sia in quella contenziosa.
La sanzione delle preclusioni
Come espressamente previsto dalla legge “non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente in sede amministrativa e contenziosa notizie, documenti e atti non esibiti in risposta agli inviti dell'Ufficio” (art. 52, comma 5, d.P.R. n. 633/72) a meno che non sussistano comprovate ragioni di impossibilità oggettiva che abbiamo impedito al contribuente di fornire la documentazione.
La sanzione delle preclusioni deriva dal carattere essenzialmente documentale del rito tributario il cui petitum è circoscritto ai fatti dedotti dalle parti.
Essa rappresenta una esortazione alla responsabilizzazione del contribuente che, per ragioni di economicità, è tenuto, sin dalla c.d. fase procedimentale, ad esibire i documenti ritenuti utili, al punto che il legislatore attribuisce valore al silenzio considerandolo rifiuto a collaborare e collegando ad esso il divieto di utilizzo delle prove non esibite.
Quanto detto in ragione del fatto che, in ossequio ad esigenze di economicità, la fase amministrativa deve essere finalizzata alla collaborazione tra le parti, utile a favorire la definizione dei reciproci interessi e, se del caso, evitare l'instaurazione del processo.
I dubbi di legittimità della sanzione delle preclusioni
La sanzione delle preclusioni ha ingenerato una molteplicità di dubbi circa la sua compatibilità con il diritto al silenzio.
La quaestio iuris assume una certa rilevanza nel contesto euro-comunitario, laddove deve essere garantito al cittadino il diritto al giusto procedimento o, meglio, alla buona amministrazione (art. 41 Cedu) che implica il rispetto di un complesso di garanzie, ivi compresa, quella del nemo tenetur se detegere.
Il rispetto della buona amministrazione nelle sue diverse manifestazioni è divenuto il cardine a cui devono mirare i sistemi giuridici amministrativi tributari nazionali in grado di garantire limiti comuni a livello UE e di assicurare il soddisfacimento degli interessi contrapposti attraverso il bilanciamento degli stessi.
Il diritto al silenzio dovrebbe essere garantito in particolare in considerazione della stretta correlazione intercorrente tra il procedimento ed il processo, sicché al giusto procedimento deve corrispondere il giusto processo.
Le garanzie riconosciute al cittadino nel corso del processo tributario andrebbero riconosciute anche nel corso del procedimento, quale appunto, il diritto di non rilasciare dichiarazioni contro sé stessi.
A ciò si aggiunga che, nel corso del procedimento tributario, si instaura una vera e propria fase istruttoria di raccolta di elementi a carico del contribuente, sarebbe, pertanto, discriminatorio vietare l’autoincriminazione nel corso del processo e non anche del procedimento.
D'altronde, la presunzione di innocenza dell'imputato è un principio cardine della giurisdizione penale.
La sua applicazione anche al procedimento tributario è frutto di un'interpretazione estensiva della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che fin dall'inizio degli anni '90, “ha ribadito come il diritto ad un equo processo, espressamente sancito dall'art. 6, par. 1, della Convenzione, comprenda il diritto, incondizionato, a mantenere il silenzio ed a non autoincriminarsi, e per l'effetto, sia ad opporsi a richieste di produzioni documentali, sia a rifiutarsi di rendere risposte atte, anche indirettamente, ad esporre il soggetto richiesto al rischio di incriminazioni; e ciò non solo in ambito penale, ma altresì nell'ambito di investigazioni amministrative e quindi fiscali”.
La preclusione probatoria, tuttavia, presenta un'ulteriore profilo di criticità.
Essa, infatti, impedendo al contribuente di utilizzare i documenti non presentati, limita anche le prove a sua disposizione.
Eppure, le prove sono di per sé ridotte, se si tiene conto del fatto che non sono ammessi, nel corso del processo tributario, le prove orali, quali confessione, giuramento e testimonianza (orale).
Questo potrebbe, tuttavia, rappresentare un pregiudizio, in particolare, in considerazione della natura essenzialmente documentale del procedimento tributario.
La pronuncia della Corte Costituzionale
Sui dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 32, d.P.R. n. 600/73, è stata chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale, la quale con sentenza del 28 luglio 2025, n. 137, ha dichiarato “Non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, d.P.R. n. 600/73, per contrarietà all'art. 24, comma 2, Cost., art. 25 Cost., e all'art. 111 Cost., nonché all'art. 14, comma 3, lett. g) PIDCP, per il tramite degli artt. 10, primo comma e 117, primo comma Cost. L'art. 32, d.P.R. n. 600/73, è voltoa spingere il contribuente a cooperare all'attività dell'amministrazione finanziaria, nell'ambito di una lealtà espressiva di una convergenza di interessi alla corretta determinazione dell'obbligazione tributaria. La preclusione probatoria opera solo per gli elementi informativi che hanno un contenuto univocamente “a favore del contribuente”, da intendersi come quelli che, ove immediatamente consegnati, avrebbero potuto impedire un accertamento ovvero ridurre la portata dell'eventuale pretesa dell'amministrazione finanziaria. L'intervento ha preso avvio dall'ordinanza dell'8 luglio 2024, mediante la quale la Corte di giustizia tributaria di primo grado di Roma, sezione 28 (di seguito: CGT di Roma), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 25,111, primo comma, della Costituzione, e, per il tramite degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), agli artt. 8, 10 e 11 della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, agli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) e all'art. 14, comma 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP), questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32, commi 3 e 4 (recte: commi quarto e quinto), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui dispone la non utilizzabilità in giudizio degli elementi informativi che, in sede procedimentale, l'amministrazione finanziaria ha richiesto al contribuente e che questi non ha esibito o trasmesso.
In conclusione
La quaestio iuris è da tempo, al centro del dibattito, non soltanto nell'ambito della giurisprudenza nazionale (ex multiis, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 9 aprile 2014, n. 8299), ma anche di quella europea (Corte di giustizia UE, 2 febbraio 2021, C-481/19, DB c. Consob).
Essa si colloca al limite tra il dovere del contribuente di collaborare all'accertamento della verità fiscale (art. 10, l. n. 212/2000) ed il diritto del contribuente a non autoincriminarsi (nemo tenetur se detegere).
I giudici della Consulta evidenziano che devono ritenersi esclusi dall'ambito di applicazione della sanzione di inutilizzabilità tutti gli elementi informativi che rivestono un contenuto “misto”, ovvero, suscettibile parzialmente di produrre effetti sfavorevoli per il contribuente.
La Consulta sottolinea come l'art. 32, d.P.R. n. 600/73, si inserisce nel solco delle norme funzionali a stimolare un “confronto preventivo” tra amministrazione finanziaria e contribuente.
Come, d'altronde, è dimostrato dall'ultima riforma fiscale (l. 9 agosto n. 111 del 2023), ispirata all'adempimento collaborativo e alla ricerca di un dialogo tra le parti. Laddove, il contribuente è chiamato a “contribuire” alla determinazione della giusta pretesa fiscale.
Le relazioni improntate sulla fiducia (pactum fiduciae) e sulla collaborazione reciproca risultano (pactum unionis), in molti casi, risultano più efficaci del ricorso a strumenti autoritari, repressivi e sanzionatori.
I giudici, dunque, distinguono tra documenti unicamente “a favore” del contribuente, per i quali opererebbe la preclusione probatoria e documenti “misti” per i quali non troverebbe applicazione. Su tale discrimen che si annida, dunque, la quaestio iuris.
In tale ottica, secondo i giudici della Consulta, l'art. 32, d.P.R. n. 600/73, non può essere considerato in violazione dei principi costituzionali e degli altri principi comunitari che sono alla base del giusto processo.
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