Codice di Procedura Civile art. 96 - (Responsabilita' aggravata) 1 .Responsabilità aggravata1. [I]. Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza. [II]. Il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare [669-duodecies], o trascritta domanda giudiziaria [2652 ss., 2690 ss. c.c.], o iscritta ipoteca giudiziale [2818 c.c.], oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. [III]. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata2 . [IV]. Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.0003.
[1] In tema di equa riparazione, v. art. 2, comma 2-quinquies lett. a), l. 24 marzo 2001, n. 89, ai sensi del quale, in favore della parte soccombente condannata a norma del presente articolo, non è riconosciuto alcun indennizzo. [2] Comma inserito dall'art. 45, comma 12, della l. 18 giugno 2009, n. 69 (legge di riforma 2009), con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009, per i giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore. [3] Comma aggiunto dall'art. 3, comma 6, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022, il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale) . Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo sostituito dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". InquadramentoL'art. 96, sotto la rubrica «responsabilità aggravata», reca la disciplina della «lite temeraria», secondo la formula, tuttora in uso soprattutto nella pratica, già adottata dall'art. 370 del previgente codice del 1865. Tale sintagma — «responsabilità aggravata» — è connotato da una certa dose di imprecisione, dal momento che la condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria, nel nostro sistema, non costituisce — almeno secondo l'opinione più diffusa — un quid pluris rispetto alla condanna al rimborso delle spese di lite, le quali sono al contrario dovute, come si è visto nel commento all'art. 91, in dipendenza del fatto oggettivo della soccombenza e, come sovente sottolinea la S.C., al di fuori di ogni prospettiva risarcitoria. Va da sé, tuttavia, che coloro i quali leggono la disciplina delle spese di lite alla luce del principio di causalità e non di quello della soccombenza (v. sub art. 91), vedono nell'art. 96 un'espressione ulteriore del medesimo principio ordinatore. La norma, nel comma 1, stabilisce che il giudice condanna la parte soccombente la quale abbia agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, su istanza dell'altra parte, al risarcimento dei danni liquidati in sentenza anche d'ufficio. La condanna per responsabilità aggravata o lite temeraria che dir si voglia presuppone, dunque: i) un requisito oggettivo costituito dalla soccombenza (totale, secondo l'opinione della S.C.: da ult. Cass. n. 15232/2024 di una parte), con la conseguente condanna alle spese e cioè non in ipotesi di compensazione (lo si arguisce dalla dicitura «oltre che alle spese»); ii) un requisito soggettivo costituito dalla mala fede o colpa grave del soccombente; iii) il verificarsi di un conseguente danno a carico del vincitore. Nonostante la lettera dell'art. 96, comma 1, che sembra riferisti al solo giudizio di cognizione, si ritiene che la norma abbia carattere generale, applicabile quindi anche ai procedimenti esecutivi e cautelari fuori delle ipotesi di cui al comma 2, nonché ai procedimenti di volontaria giurisdizione (Cass. n. 1251/1974). Il comma 2 sanziona, sempre su istanza della controparte, talune specifiche iniziative giudiziali intraprese «senza la normale prudenza», ossia sulla base di un requisito soggettivo diverso e più ampio di quello considerato dal comma precedente. Il comma 3 della stessa disposizione, che prevede la condanna anche d'ufficio della parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una «somma equitativamente determinata», è stato infine aggiunto dall'art. 45, comma 12, l. n. 69/2009, con decorrenza dal 4 luglio 2009. Ai sensi dell'art. 58, comma 1, della predetta legge, tale disposizione si applica ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore. Alla disposizione è stato da ultimo aggiunto un quarto comma secondo cui nei casi di responsabilità aggravata, come disciplinati dal primo, secondo e terzo comma, è possibile comminare alla parte soccombente la sanzione pecuniaria, determinata in una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000, da versarsi a favore della cassa delle ammende, a compensazione del danno arrecato all’Amministrazione della giustizia per l’inutile impiego di risorse speso nella gestione del processo. La lite temeraria come ipotesi aquilianaLa lettera dell'art. 96, secondo cui il giudice condanna il soccombente «al risarcimento dei danni», sta alla base della comune opinione dottrinale e giurisprudenziale secondo cui tale norma (almeno nella sua originaria configurazione, e senza considerare cioè le novità del terzo comma), si colloca nel comparto aquiliano, in rapporto di specialità rispetto alla regola generale dettata dall'art. 2043 c.c. Sorge, qui, il quesito concernente il come l'agire o resistere in giudizio possano arrecare danno ed il perché il legislatore abbia introdotto l'art. 96 accanto all'art. 2043 c.c., ritenuto evidentemente inidoneo a disciplinare in via diretta il risarcimento del danno processuale da lite temeraria. In proposito vale osservare che la lex Aquilia non comporta il risarcimento di qualunque danno, ma soltanto, secondo l'art. 2043 c.c., del danno «ingiusto»: e tale non è quello cagionato nel normale esercizio di un diritto. L'agire ed il resistere in giudizio, però, sono appunto diritti tutelati dall'art. 24 Cost., e l'esercizio di tale diritto non può, in linea di principio, arrecare danni ingiusti. Ecco, quindi, che il principio qui iure suo utitur neminem laedit trova in questo caso un limite, per volere del legislatore, nella connotazione soggettiva dell'iniziativa giudiziaria: e ciò essenzialmente allo scopo di introdurre un rimedio contro l'attitudine lesiva delle iniziative giudiziarie, quantunque la disciplina della lite temeraria contribuisca anche a contenere l'indiscriminata lievitazione del contenzioso. Mala fede e colpa grave, da un lato, e mancanza della normale prudenza, dall'altro, fanno sì che la parte non usi, ma abusi del proprio diritto di agire e resistere in giudizio: tali requisiti soggettivi rendono perciò ingiusto un danno che altrimenti non lo sarebbe. È dunque la nozione di abuso del processo la chiave di volta della disciplina dettata dalla norma in commento. L'art. 96 consente allora di colpire condotte che, nel quadro di applicazione dell'art. 2043 c.c., non genererebbero responsabilità risarcitoria. Perciò, se è vero che il danno processuale ex art. 96 è una specie di danno aquiliano, è altrettanto vero che il requisito dell'ingiustizia, nel bilanciamento degli interessi in gioco, sussiste qui soltanto quando l'agire del danneggiante sia caratterizzato dal requisito indicato. Non potrebbe infatti ammettersi una responsabilità processuale in caso di culpa levis (ed analogo discorso vale, ovviamente, per le iniziative giudiziarie intrapresa nei limiti della normale prudenza) giacché il diritto di agire e resistere in giudizio è diritto che deve essere esercitato liberamente e che perciò non tollera remore eccessive (Cass. S.U., n. 874/1984). In giurisprudenza viene costantemente affermato che la responsabilità aggravata disciplinata dall'art. 96 costituisce ipotesi speciale di responsabilità aquiliana. È cioè ricorrente l'affermazione secondo cui l'art. 96 esaurisce tutte le ipotesi di responsabilità processuale, riferibili ad atti esecutivi o provvedimenti relativi, ed esclude la possibilità del ricorso all'art. 2043 c.c. giacché questo e l'art. 96 si pongono tra loro in relazione di norma generale, la prima, e norma di specie la seconda nel senso che la seconda contempla quella particolare ipotesi di responsabilità da fatto illecito che si verifica nel processo e che, per tale sua origine si qualifica come processuale (Cass. n. 2690/1971; Cass. n. 1838/1973; Cass. n. 4130/1974; Cass. n. 96/1975; Cass. n. 253/1999). Va da sé che responsabilità aggravata e responsabilità aquiliana non possono mai concorrere (Cass. n. 16308/2007; Cass. n. 5069/2010), risultando conseguentemente inammissibile la proposizione di un autonomo giudizio di risarcimento per i danni asseritamente derivati da una condotta di carattere processuale, i quali devono essere chiesti esclusivamente nel relativo giudizio di merito (Cass. n. 36593/2023). Il presupposto della soccombenzaPresupposto necessario della condanna per responsabilità aggravata è la soccombenza totale del responsabile (da ult. Cass. n. 15232/2024). Tale condanna non può quindi essere pronunziata a carico del litigante che, agendo o resistendo in giudizio, risulti parzialmente vittorioso in base all'esito finale della lite (Cass. n. 9897/2000; Cass. n. 12177/2000; Cass. n. 3035/2001), né in ipotesi di soccombenza reciproca (Cass. n. 7409/2016; Cass. n. 21590/2009). Ne consegue che la compensazione di spese esclude, di regola, la responsabilità aggravata (Cass. n. 24/1978; Cass. n. 1531/1982; Cass. n. 480471993). La posizione di una parte della dottrina sull'argomento è invece di segno diverso ed ammette la condanna per lite temeraria anche in caso di soccombenza parziale (Gualandi, 300; Pajardi, 461). Parimenti dissenziente rispetto all'orientamento della giurisprudenza è l'opinione che ammette la condanna ex art. 96 in caso di compensazione per soccombenza reciproca (Vecchione, 140). Il requisito della mala fede o colpa graveNell'ambito della particolare, responsabilità ex art. 96 vanno tenute distinte le due ipotesi disciplinate, rispettivamente, dal primo e dal secondo comma dello stesso articolo. Infatti, mentre nel comma 1 viene in evidenza una condotta processuale qualificata dal dolo o dalla colpa grave, il comma 2 prevede, invece, e limitatamente alla ipotesi della procedura cautelare e di quella esecutiva (in senso lato), la inesistenza del diritto a tutela del quale è stata attuata la misura cautelare ovvero la misura esecutiva (Cass. n. 3799/1983; Cass. n. 126/1992). È stato più volte affermato, così, che la temerarietà della lite dev'essere ravvisata nella coscienza dell'infondatezza o nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di detta coscienza (Cass. n. 9579/2000; Cass. n. 73/2003; Cass. n. 9060/2003; Cass. n. 13071/2003; Cass. n. 3993/2011), come nel caso di richiesta per la seconda volta del pagamento di un debito riconosciuto come già estinto (Cass. S.U., n. 1082/1997), ovvero nella richiesta da parte del creditore di un provvedimento monitorio nei confronti del debitore dopo che quest'ultimo abbia pagato l'intera sorte capitale, a nulla rilevando che, nel successivo giudizio di opposizione, il debitore stesso venga condannato, previa revoca del decreto ingiuntivo, al pagamento degli interessi moratori (Cass. n. 9033/2010). La sussistenza di un contrasto giurisprudenziale al momento della proposizione della lite esclude, ab origine, la mala fede o la colpa grave (Cass. n. 9697/2011). La semplice prospettazione di tesi giuridiche errate, in particolare, non integra un comportamento sleale e fraudolento, tale da comportare trasgressione del dovere di lealtà e probità, rilevante ai fini della condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96, salvo che la parte interessata non deduca e dimostri nell'indicato comportamento la ricorrenza di dolo o colpa grave, nel senso della consapevolezza, o dell'ignoranza derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell'infondatezza delle suddette tesi (Cass. n. 15629/2010). Nozione e contenuto del danno da lite temerariaLa collocazione della responsabilità aggravata per lite temeraria di cui all'art. 96 nell'ambito del comparto aquiliano esalta la funzione risarcitoria/riparatoria dell'istituto, relegando sullo sfondo quella sanzionatoria di cui si è prima fatta menzione, e fa sì che il danno risarcibile debba essere identificato con il consueto danno aquiliano — in particolare il danno aquiliano, come subito vedremo, strettamente cagionato dal processo — tanto nell'aspetto sostanziale, quanto sotto il profilo del riparto degli oneri probatori. La nozione di danno accolta dall'art. 96, dal punto di vista sostanziale, va cioè senz'altro ad inserirsi nella tradizione «differenzialista» che sta alla base della formulazione dell'art. 1223 c.c., applicabile anche al danno da illecito extracontrattuale per il tramite dell'art. 2056 c.c., secondo cui il danno consiste nella perdita subita come nel mancato guadagno, in quanto siano conseguenza immediata e diretta del fatto generatore, inadempimento contrattuale o illecito aquiliano che sia. Il danno da responsabilità aggravata per lite temeraria, in particolare, è costituito — secondo la prevalente opinione — dal pregiudizio strettamente determinato dal processo e non dall'ipotetica lesione del diritto di cui nel processo si controverte. Deve trattarsi, cioè, di conseguenza della responsabilità aggravata e, cioè, di «danno processuale» (Cass. n. 163/1989; v., in materia di danno processuale causato dalla violazione del termine di ragionevole durata del processo, Cass. n. 23322/2005; Cass. n. 24359/2005; Cass. n. 24360/2006). Nella giurisprudenza di merito si è più volte ammesso che la lite temeraria possa cagionare danno non patrimoniale (Trib. Bologna 27 gennaio 2005; Trib. Reggio Emilia 31 maggio 2005; Trib. Bologna 20 settembre 2005; Trib. Bologna 30 dicembre 2005; Trib. Genova 12 settembre 2006; Trib. Roma 18 ottobre 2006; Trib. Modena 2 febbraio 2007, Giur. mer., 2007, 1588, con nota di Di Marzio). Il problema dell'onere probatorioQuanto all'onere probatorio gravante sul danneggiato, sembrerebbero, almeno all'apparenza, ravvisarsi due indirizzi in una certa misura difformi. Secondo un primo e più rigoroso indirizzo, la liquidazione del danno da responsabilità processuale aggravata ex art. 96, ancorché possa effettuarsi anche d'ufficio, postula pur sempre la prova gravante sulla parte che chiede il risarcimento sia dell'an che del quantum debeatur, o almeno la concreta desumibilità di detti elementi dagli atti di causa. Un diverso indirizzo, che parrebbe aver acquistato un rilievo numerico sempre più significativo, sembra spostare l'accento sull'onere del danneggiato di allegare, più che di provare, gli elementi di fatto necessari all'identificazione del danno, suscettibile di essere liquidato anche sulla base di nozioni di comune esperienza. Eloquente, in questo senso, è la pronuncia delle Sezioni Unite secondo cui, in caso di temerarietà derivante dalla palese inammissibilità del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, non è necessario che la parte interessata deduca e dimostri uno specifico danno per il ritardo nella decisione della causa in tal modo determinato, giacché il giudice, avendo facoltà di desumere il danno da nozioni di comune esperienza, può fare riferimento anche al pregiudizio che la parte vincitrice abbia subito di per sé per essere stata costretta a contrastare una ingiustificata iniziativa dell'avversario neppure compensata, sul piano strettamente economico, dal rimborso delle spese e degli onorari del procedimento (Cass. S.U., n. 2420/2002). In realtà, a ben vedere, più che ricorrere un effettivo contrasto giurisprudenziale, sembrano qui fronteggiarsi soluzioni generatesi in frangenti diversi. Da un lato, cioè, vi è l'approccio tradizionale che in ossequio ai noti principi generali chiede al danneggiato la prova del danno, oltre che del nesso di causalità, con la precisazione che tale prova può come sempre essere fornita anche per presunzioni, e che la liquidazione, ricorrendone i presupposti di cui all'art. 1226, può essere effettuata anche in via equitativa. Dall'altro lato c'è l'atteggiamento della S.C. nei confronti delle liti temerarie instaurate proprio dinanzi a sé: in quella sede, ovviamente inadatta allo svolgimento di un'istruttoria sul danno, la S.C., più che agevolare il danneggiato nell'assolvimento dell'onere probatorio, sembra aver paradossalmente finito per escludere ogni onere non solo di prova, ma — talora — anche di allegazione di specifici pregiudizi. In linea generale la giurisprudenza tradizionalmente insegna che il danneggiato debba dare rigorosa prova del danno nell'an e nel quantum, salvo il ricorso a criteri equitativi per la liquidazione, quando i danni, ancorché provati in concreto, non possano essere determinati nel loro preciso ammontare (Cass. n. 1687/1962). Seguendo questa impostazione, l'art. 96, nel disciplinare come figura di torto extracontrattuale la responsabilità processuale aggravata per mala fede o colpa grave della parte soccombente, non deroga al principio, posto dall'art. 2697 c.c., secondo il quale colui che intenda ottenere il risarcimento dei danni deve dare la prova sia dell'an come del quantum (Cass. n. 18169/2004; Cass. n. 13395/2007). La domanda di risarcimento dei danni ex art. 96, perciò, non può trovare accoglimento tutte le volte in cui la parte istante non abbia assolto all'onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato (Cass. n. 21798/2015; Cass. S.U., n. 7583/2004). La S.C., traendo argomento da spunti provenienti dalla giurisprudenza di merito, è giunta a sciogliere il nodo della difficoltà applicativa della norma, sotto il profilo dell'onere probatorio gravante sul danneggiato affermando che il danno può essere liquidato utilizzando i parametri elaborati con riguardo al principio di ragionevole durata (Cass. n. 24645/2007; Cass. n. 3993/2011). Questo indirizzo è stato però poi abbandonato, con l'affermazione del diverso principio secondo cui, in tema di responsabilità aggravata, la determinazione equitativa della somma dovuta dal soccombente alla controparte in caso di lite temeraria non può essere parametrata all'indennizzo di cui alla l. n. 89/2001 - il quale, ha natura risarcitoria ed essendo commisurato al solo ritardo della giustizia, non consente di valutare il comportamento processuale del soccombente alla luce del principio di lealtà e probità ex art. 88, laddove la funzione prevalente della condanna ex art. 96, comma 3, è punitiva e sanzionatoria, potendo essere calibrata su una frazione o un multiplo delle spese di lite con l'unico limite della ragionevolezza (Cass. n. 17902/2019). Profili processualiLa cognizione della domanda ex art. 96 è funzionalmente devoluta al giudice della causa da cui deriva la responsabilità: è così finanche esclusa l'ammissibilità della condanna generica con riserva della liquidazione a separata sede. Tuttavia l'ammissibilità di un'autonoma domanda è stata riconosciuta nell'ipotesi in cui l'opposta soluzione avrebbe comportato l'improponibilità di essa. In proposito la S.C. ha anzitutto chiarito che con riguardo alla domanda di responsabilità aggravata non può parlarsi di competenza in senso proprio. L'art. 96, in altri termini, non pone una vera e propria regola di competenza, cioè non indica avanti a quale giudice si può esercitare un'azione di cui l'istanza è espressione, ma disciplina un fenomeno che si colloca all'interno di un processo già pendente e che si esprime nell'esercizio da parte del litigante di un potere all'interno di esso (Cass. n. 9297/2007; Cass. n. 2333/2011). La domanda di danni per responsabilità aggravata, pertanto, non incide, ai fini della competenza, sul valore della causa (Cass. n. 2270/1963; Cass. n. 3072/1974; Cass. n. 6967/2001; Cass. n. 1322/2004; Cass. S.U., n. 23726/2007). Detta domanda neppure incide sul valore della causa, neppure se spiegata in «riconvenzionale», in quanto deve essere necessariamente proposta avanti allo stesso giudice che decide la causa nel merito, il quale è funzionalmente competente a conoscerla (Cass. n. 6930/1986; Cass. n. 5391/1997; Cass. n. 4849/1999). La domanda di responsabilità aggravata spetta al giudice investito della decisione del merito della causa, alla quale si riferisce il comportamento processuale incriminato (Cass. n. 17016/2003; Cass. n. 5734/2004). Più volte è stato ripetuto che si tratta di competenza funzionale ed inderogabile (Cass. n. 1763/1974), attribuita al giudice del merito e volta ad evitare contrasti di giudicati (Cass. n. 12952/2007; Cass. n. 26004/2010), La responsabilità aggravata non può essere fatta valere in separato giudizio, neppure scindendo la pronuncia sull'an da quella sul quantum (Cass. n. 10518/2016; Cass. n. 12029/2017; Cass. n. 7528/1987; Cass. n. 97/1995; Cass. n. 2967/1999). Per conseguenza, se fatta valere in giudizio limitatamente all'an, la domanda di responsabilità aggravata è inammissibile (Cass. n. 2033/1987; Cass. n. 36593/2023). È stato ritenuto eccezionalmente possibile proporre la domanda di danni per lite temeraria al giudice ordinariamente competente quando essa non può essere fatta valere dinanzi al giudice investito del merito: così, ad esempio, per il caso di danni verificatisi successivamente al giudizio (Cass. n. 499/1962), di sequestro non seguito dal giudizio di merito (Cass. n. 806/1970; Cass. n. 6407/1981; Cass. n. 8223/1987) di danni verificatisi in sede di processo esecutivo (Cass. n. 2690/1971), ovvero di apposizione di sigilli (Cass. n. 1251/1974) o di rigetto della domanda di fallimento (Cass. n. 875/1990; Cass. n. 18344/2010). La domanda di responsabilità aggravata può essere proposta nel corso del giudizio, sorgendo essa dal processo e non potendo essere pertanto sottoposta ai congegni preclusi altrimenti previsti riguardo alla formulazione di domande nuove, anche all'udienza di precisazione delle conclusioni (Cass. n. 3941/2002). La domanda di responsabilità aggravata può essere proposta per la prima volta con l'atto d'appello, ma limitatamente ai danni successivi alla sentenza impugnata (Cass. n. 2742/1970; Cass. n. 1470/1981). D'altronde essa può essere proposta nel corso del giudizio di appello, né potrebbe essere spiegata altrove, con riguardo a quelle condotte che si siano concretizzate appunto in sede di gravame (Cass. n. 3967/1999; Cass. n. 3573/2002; Cass. n. 16975/2006). Il secondo commaIl comma 2 della norma trova applicazione con riguardo alle iniziative giudiziarie ivi indicate ove compiute senza la « normale prudenza », cioè anche con colpa lieve: e ciò — si ritiene — per la intrinseca potenzialità lesiva delle attività medesime in caso di inesistenza del diritto fatto valere. La responsabilità aggravata di cui all'art. 96, comma 2, non discende cioè automaticamente dalla accertata inesistenza del diritto per il quale si è agito, ma è necessario che il giudice accerti altresì, dandone congrua motivazione, sia l'elemento soggettivo della responsabilità stessa (difetto di normale prudenza), sia la effettiva esistenza nell'an e nel quantum dei danni di cui si chiede il risarcimento (Cass. n. 237/1968). Anche ai procedimenti di cui al comma 2 può applicarsi la previsione del primo (Cass. n. 3090/1974). Esecuzione di un provvedimento cautelare La norma dell'art. 96 cpv. prevede la responsabilità aggravata nell'esecuzione di un provvedimento cautelare e presuppone non già la violazione di un dovere giuridico previsto da norme di carattere sostanziale, bensì la inesistenza del diritto per cui è stato eseguito il provvedimento cautelare, ossia l'elemento obiettivo, ed il difetto della normale prudenza nel domandarlo, ossia l'elemento subiettivo (Cass. n. 516/1964; Cass. n. 1944/1966; Cass. n. 2990/1967). Non è perciò sufficiente, per i fini dell'applicazione del secondo comma, l'accertamento ex post della mancanza del solo periculum in mora, ove risulti positivamente accertato il fumus bonis iuris (Cass. n. 6349/1990). Anche in caso di provvedimento cautelare può ricorrere la responsabilità aggravata di cui al primo comma. Se è vero, cioè, che la responsabilità processuale ad esempio del creditore sequestrante si inquadra nella ipotesi del secondo comma dell'art. 96 quando si accerti il difetto del fondamento della pretesa di merito che si e voluta tutelare, tuttavia, ciò non esclude che il sequestrante possa incorrere nella responsabilità più generica e meno rigorosamente considerata dalla legge, prevista nel primo comma dello stesso articolo, allorché, pur esistendo il diritto per cui il provvedimento cautelare è stato eseguito, il sequestro venga revocato per difetto delle altre condizioni e degli altri presupposti dell'azione cautelare (Cass. n. 775/1963; Cass. n. 2209/1972; Cass. n. 1545/1985). La norma si applica a qualunque provvedimento cautelare, anche innominato (Cass. n. 2054/1959, riferita all'art. 437 c. nav.). Trascrizione della domanda giudiziale Ai sensi dell'art. 96, comma 2, costituisce un illecito, fonte della responsabilità risarcitoria regolata da tale disposizione processuale, la trascrizione di una domanda giudiziale ― attività rappresentante una facoltà e non un dovere della parte ― senza la normale prudenza, cioè senza adeguata valutazione critica circa la possibilità che il diritto fatto valere con la domanda effettivamente sussista e possa essere positivamente accertato in giudizio (Cass. n. 8857/1996; Cass. n. 5265/1983). Pronunce contrastanti si rinvengono sulla questione se la norma si applichi in caso di trascrizione di domande non trascrivibili. Secondo un primo indirizzo il titolo giuridico della pretesa ai danni da illegittima trascrizione di una domanda giudiziale non trascrivibile non è l'art. 96, comma 2, bensì l'art. 2043 c.c. (Cass. n. 290/1969; Cass. n. 680/1971; Cass. n. 10219/1990). Altre volte è stato affermato che si tratta pur sempre di responsabilità processuale disciplinata dall'art. 96 (Cass. n. 2407/1963; Cass. n. 2967/1976; Cass. n. 4624/1998). Le Sezioni Unite (investite da Cass. n. 13627/2010) hanno risolto il contrasto aderendo al primo indirizzo (Cass. S.U., n. 6597/2011, seguita da Cass. n. 16272/2015). Iscrizione di ipoteca giudiziale La S.C. ha affermato che la presenza di un'iscrizione di ipoteca giudiziale su un immobile, sebbene illegittima e destinata a venir meno, è situazione di per sé causa di danno risarcibile anche per il proprietario del bene ipotecato, sia per la potenziale perdita di occasioni di commerciare il bene, sia per l'onere di dimostrare (al terzo interessato all'acquisto) che l'ipoteca non ha alcuna effettività, sia, comunque, per la diminuzione delle utilità che egli potrebbe conseguire se il bene fosse libero, determinando una diminuzione del prezzo o un qualche altro pregiudizio (Cass. n. 22267/2010). Il principio così riassunto si colloca nella scia dell'affermazione secondo cui l'ipoteca, iscritta su un immobile dopo la trascrizione della vendita fatta dal debitore ad un terzo è giuridicamente inesistente, e tuttavia l'acquirente risente da tale iscrizione un pregiudizio patrimoniale ricollegato ad una maggiore difficoltà della circolazione del bene e a un deprezzamento dello stesso (Cass. n. 1346/1967; Cass. n. 4126/1956). Secondo un diverso punto di vista il terzo acquirente di immobili ipotecati, cui l'art. 2858 c.c. attribuisce il diritto potestativo di pagare i creditori iscritti ovvero di rilasciare i beni ovvero di liberarli dalle ipoteche, deve dimostrare di avere effettivamente tenuto una di tali condotte, dovendosi distinguere, in mancanza di prova di un effettivo pregiudizio, tra pericolo di danno e pericolo tale da determinare un danno attuale, come nel caso di impossibilità o di ritardo nel rivendere il bene a terzi (Cass. n. 264/2006; Cass. n. 6123/2000; Cass. n. 9039/1994). Caso ricorrente, in materia, è quello dell'ipoteca su beni il cui valore ecceda i limiti del credito garantito. In proposito la S.C. ha stabilito che il creditore che abbia iscritto ipoteca su beni eccedenti l'importo del credito vantato non può mai essere chiamato a rispondere, nei confronti del debitore, per danni da illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., non consentendolo le disposizioni di cui agli artt. 2740 (circa l'assoggettabilità di tutti i beni del debitore, presenti e futuri, alla responsabilità patrimoniale), 2828 (che legittima il creditore ad iscrivere ipoteca giudiziale su qualsiasi immobile di proprietà del debitore) e 2877 stesso codice (con il quale sono poste a carico del debitore richiedente le spese per l'eventuale riduzione, mentre sono a carico del creditore le sole spese derivanti da riduzione dell'ipoteca per eccesso nella determinazione del credito). Resta, peraltro, salva la possibilità di configurare, a carico del creditore procedente, una ipotesi di responsabilità processuale, a tenore dell'art. 96, comma 1, qualora quest'ultimo, convenuto per la riduzione dell'ipoteca, resista in giudizio con mala fede o colpa grave (Cass. n. 10771/1999; Cass. n. 10299/2007; Cass. n. 16308/2007; Cass. n. 17902/2010; Cass. n. 13107/2010). Inizio o compimento dell'esecuzione forzata Se il giudice accerta l'inesistenza del diritto per cui fu iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, la condanna ai danni ex art. 96 del creditore procedente non segue automaticamente la predetta situazione giuridica, essendo a tal fine necessario anche che il creditore abbia agito senza la normale prudenza (Cass. n. 1985/1978; Cass. n. 4191/1984). Anche la pretesa risarcitoria, riferita ai danni subiti per effetto dell'illegittimo assoggettamento ad esecuzione forzata, trova fonte esclusiva nel disposto del secondo comma dell'art. 96, in tema di responsabilità processuale, e, pertanto, deve essere proposta, sia per l'an che per il quantum, davanti al giudice cui è demandato il controllo sul promuovimento e la prosecuzione del processo esecutivo, senza che sia possibile richiedere a detto giudice una mera condanna generica con rimessione in separata sede della liquidazione del danno (Cass. n. 547/1985; Cass. n. 8239/2003; Cass. n. 10960/2010). Così, la domanda di risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata per la inesistenza del titolo esecutivo in base al quale è stata iniziata la esecuzione, può essere proposta esclusivamente nel giudizio di opposizione alla esecuzione, che all'uopo sia stato instaurato (Cass. n. 11936/1990; Cass. n. 13667/1999). In caso di espropriazione intrapresa su beni di valore di gran lunga superiore all'entità del credito fatto valere, il rapporto tra ammontare dei beni pignorati e necessità del processo esecutivo non può essere aprioristicamente determinato, dal momento che, nel corso del processo, sono consentiti gli interventi dei creditori i quali, se privilegiati, concorrono sul ricavato conservando la loro prelazione e, se chirografari, concorrono a parità degli altri, ove spieghino rituale e tempestivo intervento. Pertanto, il creditore pignorante è legittimato ad espropriare più di quanto sarebbe necessario per soddisfare il suo credito e il giudice cui sia richiesta la riduzione del pignoramento deve tener conto di questa eventualità nell'esercizio del potere discrezionale di cui all'art. 496, senza che possa ritenersi sussistente l'illegittimità del procedimento per il solo fatto del pignoramento di beni immobili in eccesso (Cass. n. 3952/2006; Cass. n. 13107/2010). Il secondo comma dell'art. 96 si applica, ove ne ricorrano i presupposti di carattere soggettivo, anche nell'ipotesi in cui la misura cautelare abbia colpito un bene non di proprietà del debitore: l'inesistenza del diritto si concreta, in tal caso, nella mancanza nel creditore procedente di una condizione di legittimazione dell'esecuzione (Cass. n. 2998/1963; Cass. n. 2488/1969; Cass. n. 4130/1974). La «normale prudenza» La responsabilità aggravata richiede il solo requisito soggettivo della mancanza di normale prudenza (Cass. n. 2773/1969), ossia un presupposto soggettivo di meno rilevante qualità e quantità rispetto alla mala fede o colpa grave della parte che ha agito (Cass. n. 5470/1982). Manca, in particolare, la «normale prudenza» quando la parte abbia agito con colpa anche lieve (Cass. n. 104/1963; Cass. n. 2166/1963; Cass. n. 990/1964; Cass. n. 1869/1965). Spetta al giudice di merito valutare la sussistenza del requisito della «normale prudenza», con accertamento non sindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 96/1975; Cass. n. 5815/1978). Il terzo commaIl comma 3 dell'art. 96 presenta una formulazione letterale discutibile, frutto perlopiù, ma non solo, di improvvidi emendamenti parlamentari («norma inadeguata e lacunosa» per Maccario, 2009, 2243). Difatti: i) i presupposti di applicazione della norma sono dubbi, giacché la locuzione «in ogni caso», seguita dal riferimento alle sole spese liquidate ai sensi dell'art. 91, nell'ambito però di una disposizione tutt'ora intitolata alla responsabilità (processuale) aggravata, non chiarisce se l'applicazione richieda un qualche requisito soggettivo nella condotta del soccombente (dolo, colpa grave, difetto della normale prudenza) oppure si appaghi del solo requisito oggettivo della soccombenza; ii) la funzione della disposizione è oscura, giacché è possibile ritenere che essa intenda armonizzarsi con quella dei primi due commi, i quali si muovono in un orizzonte essenzialmente risarcitorio, oppure che ponga un precetto del tutto indipendente dal primo e secondo comma e configuri un'ipotesi di sanzione tutt'affatto priva di collegamento con un qualche pregiudizio subito dal vincitore; iii) i criteri di liquidazione di una non meglio identificata «somma equitativamente determinata», anche in dipendenza del dubbio sulla funzione della disposizione, sono incredibilmente vaghi ed addirittura non si comprende se tale somma possa o meno cumularsi a quella eventualmente riconosciuta a titolo di risarcimento del danno ai sensi del primo e del secondo comma (per la cumulabilità Trib. Piacenza, 22 novembre 2010, Il Civilista 2011, 13, con nota di Buffone); la soluzione più severa è stata adottata anche da Cass., n. 27623/2017, secondo cui la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta - con finalità deflattive del contenzioso - alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di «abuso del processo», quale l'aver agito o resistito pretestuosamente ). In presenza di simili incertezze ermeneutiche (per le quali v. riassuntivamente Menchini, 27, il quale pone altresì in evidenza l'eccentricità del comma in esame rispetto ai «fondamentali principi della giurisdizione civile», atteso che la condanna può essere pronunciata d'ufficio), sono fiorite interpretazioni divaricate e spesso in se stesse incoerenti. Alcune pronunce hanno ritenuto che la nuova disposizione abbia introdotto nell'ordinamento una condanna punitiva, ossia un'ipotesi di punitive damages mutuata dagli ordinamenti di common law ed in particolare da quello statunitense (Trib. Varese 22 gennaio 2011, n. 98, Resp. civ. e prev. 2011, 2574, con nota di Morano Cinque; Cass. n. 17902/2010). Si è ritenuto che possa essere colpito l'esercizio del diritto di azione caratterizzato da semplice culpa levis (Trib. Terni 17 maggio 2010, Giur. mer. 2011, 2702, con nota di Barreca), se non addirittura privo di ogni connotazione soggettiva (come in Trib. min. Milano, 25 marzo 2011, che ha sanzionato un genitore per aver chiesto l'affidamento del figlio «senza fornire elementi a sostegno della sua domanda») Altre volte l'adesione alla lettura sanzionatoria della norma perviene a esiti applicativi paradossali. Così, in caso di processo utilizzato non in presenza di un reale contrasto tra le parti, ma come espediente per realizzare un fine comune ad entrambe (cd. processo simulato), è stato affermato che il giudice può condannare la parte formalmente soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata (Trib. Salerno, 9 gennaio 2010): con il curioso risultato, a fronte di un comune intento fraudatorio, di arricchire uno degli autori della frode a danno dell'altro, provocando uno spostamento patrimoniale totalmente ingiustificato. Non mancano pronunce che hanno ritenuto di applicare il terzo comma dell'art. 96 liquidando la somma in relazione all'importo riconosciuto per spese di lite, nella misura a volte del doppio, a volte di un quarto (Trib. Verona, 1° ottobre 2010, Guida dir. 2010, n. 49, 20; Trib. Verona, 1° luglio 2010; Trib. Verona, 20 settembre 2010). In altra occasione, dopo aver ritenuto «la fattispecie di cui al terzo comma dell'art. 96 differente rispetto alle due precedenti e dunque non rientrante nella responsabilità aquiliana», con la conseguenza di «non poter adottare indici di liquidazione di tale natura», un giudice, pur esternando la consapevolezza di essere sottoposto all'obbligo «di rendere comprensibile il procedimento logico-intuitivo seguito per determinare la regola equitativa», ha determinato la somma in cinquecento euro, senza provare ad accennare al perché (Trib. min. Milano, 25 marzo 2011). Secondo alcune decisioni della S.C. — va anzitutto detto — il comma 3 dell'art. 96 trova applicazione in presenza dei presupposti soggettivi di cui al comma 1. È stato così affermato che, ai fini dell'applicabilità dell'art. 96, comma 3, la mala fede o la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, al fine di contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione, suscettibile di essere irragionevolmente leso da danni punitivi non proporzionati (Cass. n. 7726/2016). È stato ribadito che la responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell'ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell'azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione (Cass. n. 9912/2018).Altre volte si è diversamente opinato che la condanna ex art. 96, comma 3, applicabile d'ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta alla repressione dell'abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di «abuso del processo», quale l'avere agito o resistito pretestuosamente (Cass. n. 3830/2021; Cass. n. 20018/2020; Cass. n. 29812/2019; Cass. n. 27623/2017). La S.C. ha anche affermato che va condannata ai sensi dell' art. 96, comma 3 , la parte che non abbia adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione e comunque abbia agito senza aver compiuto alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità la giurisprudenza consolidata ed avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso ( Cass. n. 18057/2016 , relativa a giudizio per omesso versamento dell'ICI in riferimento ad un'area destinata dal PRG a verde pubblico, anche attrezzato, in applicazione del suddetto principio, la parte è stata condannata al pagamento, in favore della controparte, delle spese del giudizio di legittimità in misura doppia). Parimenti la proposizione di un ricorso per dichiarazione di fallimento al solo fine di ottenere il più rapidamente possibile il soddisfacimento di un credito giustifica la condanna del ricorrente per responsabilità processuale aggravata ai sensi dell' art. 96 , comma 3 ( Cass. n. 17078/2016 ). La domanda di risarcimento dei danni, che non si traducano in meri fastidi o, comunque, bagatellari insuscettibili di monetizzazione, per l'illegittima iscrizione del fermo amministrativo può essere avanzata, su istanza di parte, ai sensi dell' art. 96 , comma 2, e presuppone l'accertamento dell'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito il provvedimento di fermo e la normale prudenza in capo all'agente della riscossione, mentre la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi dell'art. 96, comma 3, presuppone l'accertamento della mala fede o colpa grave e, pur pronunciabile d'ufficio anche dal giudice d'appello, va da questi riferita alla condotta processuale tenuta dalla parte soccombente nel secondo grado di giudizio ( Cass. n. 12413/2016 ). BibliografiaAnnechino, Art. 90-97, in Vaccarella e Verde, Codice di procedura civile commentato, I, Torino, 1997; Balena, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile, in Giusto proc. civ. 2009, 749. 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