Codice di Procedura Civile art. 175 - Direzione del procedimento .

Antonio Scarpa

Direzione del procedimento .

[I]. Il giudice istruttore esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale [88] svolgimento del procedimento.

[II]. Egli fissa le udienze successive [81 att.] e i termini entro i quali le parti debbono compiere gli atti processuali [152 ss.].

[III]. Quando il giudice ha omesso di provvedere a norma del comma precedente, si applica la disposizione dell'articolo 289.

Inquadramento

L'art. 175, comma 1, che impone al giudice di esercitare « tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento » va letto in simmetria con il dovere di lealtà e probità processuale, che grava pure sulle parti e sui loro difensori, a norma dell'art. 88, comma 1.

Rientra nell'ambito del potere di direzione del procedimento attribuito al giudice altresì la fissazione delle udienze successive alla prima, nonché dei termini per il compimento degli atti processuali, termini che, ai sensi dell'art. 152, sono, peraltro, di regola ordinatori (salvo che la legge li dichiari espressamente perentori o la perentorietà consegua allo scopo e alla funzione adempiuta), sicché alla loro inosservanza non sono ricollegabili nullità né decadenze.

Poteri del giudice e ragionevole durata del processo

Gli studiosi avevano spesso in passato sottolineato la scarsa rilevanza applicativa dell'art. 175 in ordine all'effettività dei poteri del giudice istruttore intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento.

Negli ultimi anni, però, la norma in esame è stata rivitalizzata grazie al suo collegamento con l'esigenza di rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall'art. 111, comma 2, Cost., e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), imponendosi al giudice di evitare e impedire ogni comportamento proprio, dei suoi ausiliari, delle parti o dei difensori che sia di ostacolo ad una sollecita definizione del giudizio, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue, perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall'art. 101, da effettive garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111, comma 2, Cost.), dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti (Cass. S.U., n. 26373/2008). In base all'art. 175, il giudice deve quindi vietare condotte difensive e strategie istruttorie dilatorie, sostanzialmente rivolte, cioè, a ritardare la definizione del processo, sempre, tuttavia, contemperando il proprio potere di direzione non solo con il principio dispositivo della domanda e delle prove, ma anche con l'esigenza di assicurare alle parti il rispetto del diritto fondamentale della difesa e del contraddittorio. Ne consegue che il potere di impulso del giudice non può spingersi sino ad impedire l'esecuzione di attività istruttorie, che pur avrebbero potuto essere richieste in tempi meno lunghi ed in modo più appropriato, senza necessità di integrazioni, ovvero a non prendere in considerazione, soprattutto in mancanza di eccezioni di controparte, ulteriori richieste istruttorie dirette a dimostrare punti decisivi della controversia (Cass. n. 11424/2003).

Si è altresì sostenuto che, in base al disposto dell'art. 175, è al giudice che viene attribuito l'esercizio di tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento, sicché a carico delle parti processuali vi è sì il dovere di non porre in essere comportamenti dilatori, ma non quello di dare impulso al processo, attraverso richieste di anticipazioni di udienza od altre istanze dirette a velocizzarne i tempi (Cass. I, n. 22404/2018).

Le udienze davanti al giudice istruttore non sono pubbliche, e possono perciò intervenirvi soltanto i difensori e le parti, che ne facciano richiesta o delle quali sia stata disposta la comparizione. Opera quindi il generale regime di cui agli artt. 128 e 84 disp. att. (che dispone la pubblicità della sola udienza di discussione della causa). L'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo non prevede, d‘altra parte, che tutta l'attività processuale debba svolgersi pubblicamente, ma assicura (salve talune specificate eccezioni) al soggetto che debba far valere i suoi diritti o debba veder determinati i suoi doveri o debba rispondere di un'accusa il diritto ad una pubblica udienza, in tal senso esigendo che il processo debba prevedere un momento di trattazione in un'udienza pubblica, e non che vi si debba tenere tutto lo svolgimento processuale. Il principio di pubblicità del giudizio, posto dall'art. 6 della CEDU, non è di applicazione assoluta, potendo essere limitato, fermo restando il rispetto dell'inderogabile principio del contraddittorio — oltre che nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico, della sicurezza nazionale, dei minori o della vita privata delle stesse parti del processo - anche nell'interesse della giustizia, laddove lo giustifichino esigenze particolari (Cass. II, n. 9041/2016).

Si assume in dottrina la funzione moralizzatrice della norma, in quanto volta a prevenire ogni forma di contegno sleale ed a sventare le manovre scorrette di una parte verso l'altra (Liebman, 114 ss.; Mandrioli, 1973, 962; Picardi, 2010, 187).

Sulla base dell'art. 175, comma 1, che chiama il giudice istruttore ad esercitare tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento, nonché dell'art. 88, che afferma i doveri di lealtà e probità incombenti su parti e difensori, e soprattutto del principio del “giusto processo” costituzionale, ex  art. 111 Cost., è stato negli ultimi decenni sviluppato il tema della repressione e disincentivazione delle condotte processuali abusive, ovvero della strumentalizzazione delle garanzie difensive al fine di perseguire scopi diversi, quando non proprio opposti, rispetto a quelli istituzionali, dell'utilizzazione delle facoltà e dei poteri offerti dal codice di rito per la finalità non di conseguire l'auspicato bene della vita, quanto di impedire all'avversario di ottenere soddisfazione alle sue aspettative giurisdizionali. In giurisprudenza sono state così proposte anche fattispecie di tipizzazione di abuso degli strumenti processuali, senza, peraltro, che si conoscano esplicite prese di posizione volte a sanzionare le rispettive richieste della parte abusante con una drastica pronuncia di absolutio ab instantia, ovvero con una provvedimento in rito attestante l'idoneità della medesima sollecitazione di parte a far sorgere in capo al  giudice il dovere di statuire sul merito della causa. Nel sistema inerziale del moderno processo civile, agisce, quale contraria forza di accelerazione, la lettura del principio costituzionale della ragionevole durata, inteso in combinato con gli artt. 127 e 175, secondo cui la primaria finalità della giurisdizione è pur sempre quella della piena realizzazione del diritto delle parti ad ottenere una risposta finale nel merito alle loro domande di giustizia. Non è tuttavia da condividere l'aspettativa volta a fare dell'art. 175, comma 1, la “clausola generale” in tema di abuso del processo. Come ben si spiega, il processo è funzionale esclusivamente a stabilire chi ha torto e chi ha ragione, e così la domanda o l'eccezione posso dirsi meritevoli di reiezione giammai perché (unicamente) abusive, quanto (unicamente) perché infondate (Scarselli, Lealtà e probità nel compimento degli atti processuali, in Riv. trim. dir. proc. civ.   1998, 1, 91 ss. ).

Soltanto in poche occasioni la Cassazione ha espressamente parlato di improponibilità dell'istanza abusante: per le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, che possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (Cass. S.U., n. 4090/2017); ovvero per la domanda di risarcimento dei danni alla persona subiti  in occasione di un sinistro stradale, formulata a seguito del passaggio in giudicato della sentenza conclusiva di separato giudizio avente ad oggetto i danni materiali, oggetto di separato giudizio concluso con sentenza passato in giudicato (Cass. n. 28286/ 2011). La reazione in termini di improponibilità (o di inammissibilità) non può, del resto, attagliarsi a tutte le prevedibili forme di abusi processuali lesive del “sollecito e leale svolgimento del procedimento”, ex art. 175. Secondo la visione naturalistica della giurisdizione civile, essa, non può che tendere teleologicamente alla pronuncia di un provvedimento in grado di incidere nel diritto sostanziale, dando, così, integrale realizzazione all'aspettativa delle parti di ottenere una risposta finale nel merito alle loro domande di giustizia. In tale prospettiva, la conclusione del processo, che si sublimi nell'emanazione di una sentenza di merito, raffigura un esito di “normale estinzione” del giudizio, mentre, allorché il giudice debba operare una chiusura del processo senza la decisione sul merito della pretesa, si produce sempre una “estinzione anormale” della lite. La violazione dei canoni posti dall'art. 175 non produce, quindi, l'effetto costitutivo di una vicenda di “crisi del processo”, tale da legittimare una sua “anomala conclusione” in rito. L'ordinamento, in verità, conosce alcuni tipici “modi di estinzione del processo non satisfattivi”, che abbracciano tutte quelle vicissitudini in cui la causa civile si arresta in itinere, senza raggiungere la prefissata meta del provvedimento attributivo del bene della vita. Il discorso riguarda, in primo luogo, le disposizioni che contemplano “l'assoluzione dal giudizio” e sottraggono il giudice dall'adempimento dell'obbligo decisorio circa la sostanza della contesa, sul presupposto dell'accertata carenza di un requisito di validità del giudizio. La sanzione dell'improponibilità o dell'inammissibilità di un'iniziativa difensiva strumentale ben può astrattamente concepirsi, però, con riguardo agli abusi perpetrati negli atti introduttivi, o comunque collocati nella fase iniziale del processo. Per gli abusi consumati in una fase successiva all'instaurazione della lite dovrebbe ragionarsi, magari, di estinzione, la quale normalmente discende dall'insorgenza di una sopravvenuta (e non originaria) impossibilità di fornire una risposta alla domanda di tutela giurisdizionale. E' ancora aperto il dibattito sull'ambito di operatività dell'ipotesi di responsabilità aggravata aggiunta dalla l. n. 69/2009, col comma 3 dell'art. 96. Ci si interroga se tale norma affidi davvero al giudice un potere discrezionale di scovare e sanzionare comportamenti difensivi che, sebbene non intenzionalmente strumentali, né menzogneri o reticenti, non di meno attentino alla giusta definizione del processo in tempi ragionevoli. Altrimenti, il nuovo istituto svolgerebbe la più limitata funzione di agevolare la condanna risarcitoria del litigante temerario, consentendone la pronuncia d'ufficio e la semplificazione della liquidazione equitativa, senza peraltro rinunziare ai tradizionali presupposti legati all'esistenza di una lite temeraria e di un danno concretamente esistente nell'an, casualmente correlati fra loro. Certamente, non è il comma 3 dell'art. 96 ad assicurare più solide fondamenta alle linee guida dell'art. 175, comma 1, visto che, anzi, la rafforzata sanzione risarcitoria scongiura, ed allontana ancor più, l'ammissibilità di una definizione in rito da contrapporre all'iniziativa processuale sproporzionata: la condanna per responsabilità aggravata non interviene nella valutazione di meritevolezza dell'azione o dell'eccezione, elevata a condizione processuale di accesso alla tutela giudiziaria, attuandosi, piuttosto, soltanto al culmine del procedimento, dopo la piena verifica della fondatezza delle pretese. L'abuso del processo non può certamente dirsi determinato sulla base della mera violazione del dovere di lealtà di cui agli artt. 88 e 175. Occorre, piuttosto, chiarire quali poteri impeditivi dell'abuso del processo siano in concreto esigibili dal giudice, dalla parte e dal suo difensore, e se, quindi, costoro abbiano il compito istituzionale, con le loro condotte attive, di influenzare il decorso delle attività del giudizio per indirizzarle, con la maggiore approssimazione possibile, verso la verità storica, o empirica, sulle vicende litigiose. In ogni caso, una condotta semplicemente inosservante dei doveri di lealtà, probità e sollecito svolgimento del procedimento, ex arTt. 88 e 175, non è qualificabile di per sé in termini di abuso del processo; mai da essa può scaturire una chiusura in rito del giudizio, ben potendo il comportamento menzognero, reticente, equivoco, o pure soltanto reticente, provenire proprio dalla parte che risulterà vincitrice nel merito della lite; il sistema sanzionatorio delle attività difensive contrastanti con i doveri di lealtà e probità si conchiude esaurientemente tra gli artt. 88, comma 2 (procedimento disciplinare in base alle regole delle deontologia professionale), art 89, comma 2 (cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive ed assegnazione di una somma a titolo risarcitorio), 91 (condanna alle spese secondo soccombenza), 92 (condanna alle spese per singoli atti indipendentemente dalla soccombenza e compensazione delle spese) e 96 (responsabilità aggravata, in particolare col  comma 3, che consente la condanna del soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata).

Dagli artt. 88 e 175 può trarsi, peraltro, un dovere di chiarezza, nel senso di imporre all'avvocato, cui sia stata sollecitata una presa di posizione su di un'istanza ben definita, non solo di rispondere, ma anche di esprimersi in maniera altrettanto comprensibile e, soprattutto, di attenersi ad una logica di tipo binario, che non ammette formule di dubbia lettura, né ipotesi terze fra l'affermazione e la negazione, la condivisione ed il rifiuto. Anche, l'omissione di tale dovere di chiarezza, però, non equivale automaticamente ad un abuso del processo, ed è stata censurata, sotto il profilo effettuale, soltanto interpretando le difese della parte, che abbiano ingenerato dubbi o perplessità, a favore della controparte. La Cassazione ha così ritenuto che la dichiarazione di “rimettersi” alla decisione del giudice (formulata da un difensore in presenza di richiesta di sospensione del giudizio, ai sensi dell'art. 279, comma 4,proveniente da altro procuratore), dovesse intendersi equivalente ad una adesione all'istanza, mostrando una sostanziale non avversità ad essa (Cass. n. 3338 /2012).

Casistica

Diversi sono gli aspetti pratici del potere di direzione formale del procedimento riservato al giudice.

Il primo riflesso operativo del compito a questo riservato di disciplinare lo svolgimento delle attività processuali si coglie nella fissazione delle udienze e dei termini, come nella determinazione del calendario del processo ex art. 81-bis disp. att. 

Il potere giudiziale di fissazione delle udienze ha carattere discrezionale; esso influisce non sul contenuto della decisione, quanto sulla durata del processo, e non è, perciò controllabile in sede di impugnazioni, ma soltanto sul piano della responsabilità disciplinare o civile del magistrato, ovvero dell'indennità di equa riparazione per la violazione del termine ragionevole.

Egualmente il potere attribuito al giudice di fissare alle parti il termine entro il quale vanno effettuate determinate attività processuali (ad esempio, artt. 102, comma 2; 164, comma 2; 291, comma 1; 182, comma 2; 303, comma 1) ha carattere discrezionale quanto alla valutazione di congruità del termine, rimessa esclusivamente al suo prudente apprezzamento ma sindacabile mediante impugnazione.

La mancata fissazione dell'udienza successiva o del termine da assegnare comporta l'applicazione dell'art. 289, che prevede l'integrazione, ad istanza di parte o d'ufficio, dei provvedimenti istruttori che non contengano, appunto, la fissazione dell'udienza successiva o del termine entro il quale le parti debbono compiere gli atti processuali, nel termine perentorio di sei mesi stabilito da quest'ultima norma.

Quanto alla conduzione dell'udienza, il potere di direzione ex art. 175 consente altresì al giudice di disporre la riapertura del verbale dell'udienza di istruzione della singola causa dopo la chiusura dello stesso, ciò implicando la revoca del provvedimento già pronunciato di fissazione dell'udienza successiva, con onere di comunicazione alla parte non più presente (Cass. n. 3303/1997). Dalla disposizione di cui all'art. 127 — che riguarda i poteri discrezionali del giudice nella direzione dell'udienza — si desume che il giudice non abbia alcun obbligo di accogliere una richiesta di rinvio congiuntamente formulata da entrambe le parti (Cass. n. 2008/2001).

Ancora, il comma 4 dell'art. 183 rappresenta un'ulteriore significativa espressione del principio di lealtà ex art. 175: l'obbligo del giudice di richiedere alle parti i chiarimenti necessari, sulla base dei fatti allegati, costituisce, infatti, un principio di civiltà dell'ordinamento processuale civile; la sua funzione primaria è quella della esplicitazione delle allegazioni delle parti e svolge un ruolo insopprimibile sul piano della individuazione delle domande e delle eccezioni dei contendenti.

Parimenti, la separazione delle cause, a norma dell'art. 103, comma 2, come la riunione dei procedimenti connessi ex art. 274, rappresentano l'esercizio di un potere discrezionale del giudice, che si ricollega pur sempre all'esigenza di interesse generale della sollecita definizione dei giudizi sotteso all'art. 175.

Per una valorizzazione dei poteri di direzione del processo in ogni caso riconosciuti all’autorità giudiziaria dall’art. 175, che, in uno con la possibilità di svolgere le udienze da remoto o sostituirle con lo scambio di note scritte, consente agevolmente al giudice di interloquire con i difensori anche nella fase delle verifiche preliminari fissando, senza alcuna preclusione da parte della normativa vigente, un’apposita udienza (C. cost. n.  96/2024)

Bibliografia

Cordopatri, Per la chiarezza delle idee in tema di forma del provvedimento dichiarativo dell'estinzione del processo e del suo regime impugnatorio, in Riv. trim. dir e proc. civ., 2014, 785 ss.; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Principi, VI ed., a cura di Colesanti-Merlin-Ricci, Milano, 2002; Punzi, Il processo civile. Sistema e problematiche, II, Torino, 2010; Saletti, voce Estinzione del processo: 1) dir. proc. civ., in Enc. giur., XIII, Roma, 1989.

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