Codice di Procedura Civile art. 385 - Provvedimenti sulle spese.Provvedimenti sulle spese. [I]. La Corte, se rigetta il ricorso, condanna il ricorrente alle spese [91, 391 2]. [II]. Se cassa senza rinvio o per violazione delle norme sulla competenza [382 2], provvede sulle spese di tutti i precedenti giudizi, liquidandole essa stessa o rimettendone la liquidazione al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata. [III]. Se rinvia [392 1 ss.] la causa ad altro giudice, può provvedere sulle spese del giudizio di cassazione o rimetterne la pronuncia al giudice di rinvio1.
[1] Seguiva un quarto comma, inserito dall'art. 13 d.lg. 2 febbraio 2006, n. 40, a far data dal 2 marzo 2006, comma che è stato successivamente abrogato dall'art. 46, comma 20, della l. 18 giugno 2009, n. 69 (legge di riforma 2009), con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009, per i giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore. Il testo recitava: «Quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all'articolo 375, la Corte, anche d'ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave». V. inoltre art. 27, comma secondo, d.lg. n. 40, cit. InquadramentoIl legislatore ha disciplinato la condanna alle spese nel giudizio di cassazione, distinguendo a seconda del suo esito: in caso di rigetto, la Corte condanna alle spese di legittimità; se cassa senza rinvio, liquida non le sole spese di legittimità, ma quelle dell'intero giudizio, con facoltà di rimessione della liquidazione al giudice che pronunciò la sentenza cassata (tale rimessione non avviene peraltro mai, per ovvie ragioni di economia processuale); se, infine, cassa con rinvio, ha l'opzione se liquidare quelle della fase innanzi a sé o rimettere anch'esse, insieme al rescissorio, al giudice di rinvio. Mentre, infatti, nel primo caso la pronuncia sulle spese resa in sede di merito non viene travolta, il contrario avviene nelle ipotesi di annullamento della sentenza impugnata, con o senza rinvio, onde occorre una nuova statuizione sulle spese. Naturalmente, ove il controricorso sia inammissibile, non se ne può porre a carico del ricorrente soccombente la relativa spesa di lite, potendo semmai in tal caso essere questi condannato alla mera attività successiva eventualmente svolta, ove ammissibile (nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Sezione ordinaria, alla sola memoria scritta ex art. 380-bis, comma 1 (Cass. n. 21105/2018); così come, nei processi trattati in pubblica udienza, con riguardo agli onorari per la discussione della causa, fatta dal patrono della parte vittoriosa alla pubblica udienza (Cass. n. 22269/2010). La liquidazione delle spese secondo l'esito finale della liteA parte il solo caso del rigetto, o declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del ricorso, nelle ipotesi di cassazione della sentenza impugnata occorre provvedere, di regola, alle spese dell'intero giudizio. Ciò non avviene, peraltro, quando l'annullamento riguardi esclusivamente una specifica statuizione sulle spese processuali, ma non gli altri capi: infatti, solo la cassazione delle statuizioni relative ai capi principali della sentenza comporta la caducazione dei capi accessori sulle spese processuali, che dai primi dipendono; mentre la cassazione relativa ai capi accessori sulle spese non produce analogo effetto caducatorio, mancando un rapporto di dipendenza (Cass. n. 15123/2014). Ove invece occorra riliquidare, sia in caso di cassazione senza rinvio, sia di cassazione con rinvio ad altro giudice chiamato a provvedere anche sulle spese di legittimità, sia anche in caso di decisione nel merito della Corte di cassazione, il criterio da seguire è quello dell'esito finale della lite e non valutare separatamente i diversi gradi del giudizio ed il loro risultato, pur sempre secondo il principio della soccombenza ma applicato all'esito globale del processo. Si è ritenuto, pertanto, che il giudice del rinvio può legittimamente pervenire ad un provvedimento di compensazione delle spese, totale o parziale, ovvero, addirittura, condannare la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione — e, tuttavia, complessivamente soccombente — al rimborso delle stesse in favore della controparte (Cass. n. 20289/2015; Cass. n. 7243/2006). Parimenti, è legittima la condanna al pagamento delle spese del ricorrente già vittorioso che sia rimasto definitivamente soccombente nel giudizio di rinvio, dovendosi tener conto dell'esito finale della lite (Cass. n. 19345/2014; Cass. n. 14619/2010; Cass. n. 2634/2007; Cass. n. 4909/2004; Cass. n. 15559/2003; Cass. n. 12425/2003). Il collegamento strutturale ravvisabile tra il giudizio di cassazione e quello di rinvio, se consente di rimettere al giudice del secondo la liquidazione delle spese del primo, non consente, tuttavia, di contravvenire al principio secondo cui la condanna alle spese di lite presuppone indefettibilmente che la parte le abbia davvero sostenute (Cass. n. 15797/2005). Il giudice del rinvio, al quale la causa sia rimessa dalla corte di cassazione anche perché provveda sulle spese del giudizio di legittimità, è tenuto a provvedere sulle medesime: ma l'esito del giudizio di rinvio determina, naturalmente, una diversa distribuzione delle medesime. Ciò avverrà, invero, come segue: a) se il giudice del rinvio rigetta l'appello, egli pronuncia sulle spese delle fasi di impugnazione; b) se, invece, egli riforma la sentenza di primo grado, allora dovrà provvedere alla liquidazione delle spese secondo il principio della soccombenza, applicato all'esito globale del giudizio, non ai diversi gradi del giudizio ed al loro singolo risultato (Cass. n. 28698/2019; Cass. n. 15506/2018; Cass. n. 7243/2006; Cass. n. 4686/1992). Ecco la ragione per cui può avvenire, come sopra ricordato, che la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione, ma soccombente in rapporto all'esito finale della lite, possa trovarsi (legittimamente) condannata al rimborso delle spese in favore dell'altra parte anche con riguardo al giudizio di cassazione . In ogni caso, non si può procedere ad unica, globale, liquidazione per le spese di giudizio di cassazione e le spese del giudizio di rinvio, ma occorre procedere a liquidazione distinta (Cass. n. 5525/2014). La condanna del difensore in caso di mancanza di procuraSi noti che, quando difetti la procura, alle spese va condannato direttamente il difensore che abbia agito privo del potere di rappresentanza processuale (Cass. n. 27530/2017; Cass. S.U., n. 10706/2006), così come va condannato il soggetto che abbia proposto il ricorso nella veste, poi rivelatasi insussistente, di rappresentante sostanziale (Cass. n. 12603/2018, con riguardo all'ex rappresentante di una società ormai cancellata dal registro delle imprese). Infatti, in tal caso l'attività compiuta non è in nessun modo, per definizione, riferibile alla parte, onde lo stesso difensore è parte nel processo in ordine alla questione d'inammissibilità del ricorso per difetto della procura speciale a ricorrere per cassazione e, ove non sussistano giusti motivi di compensazione, la condanna alle spese va pronunciata a carico del difensore stesso, quale unica controparte del controricorrente nel giudizio di legittimità (Cass. n. 25435/2019). La distrazione delle speseL'istanza volta ad ottenere la distrazione delle spese, in favore del difensore dichiaratosi antistatario, deve ritenersi irritualmente proposta ed inaccoglibile, ove formulata, per la prima volta, solo in calce alla nota spese poiché, in sede di legittimità, l'ultimo atto di interlocuzione tra le parti e il Collegio è costituito, secondo la sequenza procedimentale dettata dal codice di rito, dalla memoria illustrativa oppure, qualora si tenga l'udienza pubblica, dalla discussione davanti al medesimo Collegio (Cass., n. 4294/2021). Dunque, detta istanza può essere formulata anche in sede di memoriaillustrativa ex art. 378 (Cass. n. 12111/2014); né la mancata riproposizione, nella memoria de qua, dell'istanza implica tacita rinuncia alla stessa, non rivestendo tale memoria la funzione di ribadire o precisare le conclusioni svolte negli atti introduttivi, bensì di illustrare i motivi o le difese articolate, rispettivamente, nel ricorso e nel controricorso e di replicare alle difese contenute nel detto controricorso, nonché di segnalare mutamenti della giurisprudenza o sopravvenienze normative rilevanti e, eventualmente, di richiedere la distrazione delle spese (Cass. n. 14098/2020). L'abrogato quarto commaSecondo il comma 4 della disposizione — introdotto dall'art. 13 d.lgs. n. 40/2006, e successivamente abrogato dall'art. 46, comma 20, l. n. 69/2009 — la palese infondatezza della pretesa o della resistenza in giudizio comportava la condanna, anche d'ufficio, della controparte ad una somma determinata in via equitativa, non superiore al doppio dei massimi tariffari. Si trattava, dunque, dell'ipotesi in cui la parte abbia agito, o resistito, con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, ovvero senza avere adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione. Al riguardo, si è affermato che indizio idoneo a fondare detta responsabilità è “la palese infondatezza della tesi prospettata dal ricorrente, il cui sostegno significhi non intelligere quod omnes intelligunt” (Cass. n. 4930/2015; Cass. n. 22812/2013). Si tratta di una sanzione processuale per l'abuso del processo perpetrato dalla parte soccombente nel giudizio di legittimità e richiede almeno la violazione delle regole generali di correttezza e buona fede tale da risolversi in un uso strumentale ed illecito del processo, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate, anche se non richiede la prova di un danno (Cass. n. 22812/2013; Cass. n. 654/2010). Si è, dunque, affermato che la condanna ex art. 385, comma 4, non presuppone una domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, almeno la colpa grave della parte soccombente, da ritenersi sussistente nell'ipotesi di violazione del «grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l'infondatezza o l'inammissibilità della propria domanda» (Cass. n. 28658/2017; Cass. n. 28657/2017). Si è ritenuta, ad esempio, integrate la fattispecie in presenza di ricorso palesemente tardivo (Cass. n. 22812/2013), proposto a mezzo di un difensore privo di idonea procura speciale (Cass. S.U., n. 2636/2009), privo della formulazione dei quesiti di diritto e con la riproposizione delle questioni di merito (Cass. n. 5725/2019; Cass. n. 4829/2009), proposto in violazione dell'art. 366 (Cass. n. 14035/2019; Cass. n. 5725/2019), contenente un errore macroscopico nell'interpretazione di norme sostanziali o processuali in spregio a consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità (Cass. n. 28657/2017), che si limiti a ribadire le medesime argomentazioni poste a fondamento dell'appello (Cass. n. 28658/2017), che invochi la vessatorietà ex art. 1341 c.c. di una clausola contenuta in un atto pubblico rogato da notaio contro una giurisprudenza quarantennale di legittimità (Cass. n. 20732/2016), che chieda una valutazione delle prove diversa rispetto a quella compiuta dal giudice del merito (Cass. n. 3376/2016). Improvvisamente alquanto restrittiva, invece, altra decisione (Cass. S.U., n. 18079/2019, che infatti richiama in motivazione la lontana Cass. n. 7052/1990), secondo cui la circostanza che il ricorso per cassazione non sospenda automaticamente il processo, permettendo quindi l'eventuale esecuzione della sentenza impugnata, impedirebbe l'integrazione della fattispecie dell'art. 96: come si vede, una sostanziale disapplicazione della norma nel processo di cassazione. La norma dell'art. 385 continua ad applicarsi nei giudizi di legittimità aventi ad oggetto sentenze pubblicate dopo il 4 luglio 2009, a condizione che il primo grado sia stato instaurato anteriormente (Cass. n. 28657/2017; Cass. n. 5801/2017; Cass. n. 20732/2016; Cass. n. 3376/2016; Cass. n. 15030/2015; Cass. n. 817/2015; Cass. n. 5599/2014; Cass. n. 22812/2013; contra, Cass. n. 22226/2014, secondo cui invece non si applica nei confronti di ricorsi proposti avverso sentenze pubblicate successivamente a tale data). Si veda, per ulteriori indicazioni, il commento all’art. 96, comma 3. 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