Codice di Procedura Civile art. 782 - Vigilanza del giudice 1 .Vigilanza del giudice1. [I]. L'amministrazione del curatore [529 ss. c.c.] si svolge sotto la vigilanza del giudice2. Questi, quando lo crede opportuno, può prefiggere, con decreto, termini per la presentazione dei conti della gestione, e può in ogni tempo revocare o sostituire il curatore. [II]. Gli atti del curatore che eccedono l'ordinaria amministrazione debbono essere autorizzati dal giudice3. [1] V. sub art. 660. [2] V. sub art. 660. [3] V. sub art. 660. Inquadramentoll tribunale può autorizzare il curatore dell'eredità giacente al compimento degli atti di straordinaria amministrazione e può in qualsiasi momento (non solo al termine della gestione) fissargli un termine per la presentazione del rendiconto. È parimenti consentita al tribunale la revoca del curatore con decreto. Per l'analisi di dettaglio dei poteri del curatore dell'eredità giacente occorre rinviare al commento degli artt. 528 ss. c.c. I provvedimenti resi dal giudice sono assoggettati al regime dei provvedimenti camerali (Andrioli, 1964, 594). La giurisprudenza ha ammesso la reclamabilità del provvedimento con il quale si dichiara la chiusura dell'eredità giacente (Cass. n. 7032/2000). Le funzioni del curatore in generaleLa legge non definisce con esattezza le funzioni del curatore dell'eredità giacente, ma si limita ad enumerare, agli artt. 529 e 530 c.c., una serie di atti che egli deve compiere — sui quali ci si soffermerà tra breve —, aggiungendo, all'art. 531 c.c., che a lui sono comuni le regole dettate dagli artt. 484 ss. c.c. in tema di inventario, amministrazione e rendimento del conto da parte dell'erede beneficiato, esclusa la limitazione di responsabilità per colpa. In proposito, considerato che l'amministrazione del curatore dell'eredità giacente si colloca nel medesimo arco temporale in cui si esplica l'amministrazione del chiamato — ossia tra l'apertura della successione e l'accettazione — occorre stabilire le linee demarcazione tra l'una e l'altra. L'amministrazione del chiamato si caratterizza per una evidente finalità di conservazione del patrimonio ereditario, la quale trova la sua ragion d'essere, il suo riflesso, nell'urgenza di provvedere. L'amministrazione del curatore, ad un primo esame, pur svincolata dal presupposto dell'urgenza, ha anch'essa una finalità conservativa, poiché, nel suo svolgimento fisiologico, è destinata a concludersi con l'accettazione da parte del chiamato e, dunque, con la consegna dei beni ereditari dal curatore all'erede. Ma, accanto alla conservazione, la curatela ha di mira la liquidazione, ossia la soddisfazione delle passività ereditarie che eventualmente vi siano. Perciò, si è felicemente affermato che, a differenza di quella del chiamato, che tende alla conservazione del valore lordo dell'eredità, l'amministrazione del curatore giudiziale si presenta in funzione di conservazione del valore netto di essa (Natoli, 265). Dall'amministrazione del chiamato quella del curatore si differenzia anzitutto perché l'una è facoltativa, l'altra invece obbligatoria. Si differenzia ancora perché, diversamente dalla prima, non incontra, in ordine alla facoltà di porre in essere atti di cosiddetta straordinaria amministrazione, il limite costituito dal requisito dell'urgenza, salvo essere richiesta, per essi, ex art. 782, l'autorizzazione. Si differenzia, quindi, anche perché è soggetta a maggior controllo dell'autorità giudiziaria, che può giungere, ex art. 782, alla richiesta di presentazione dei conti della gestione nonché alla revoca e sostituzione del curatore. Si differenzia ancora perché destinata non soltanto alla conservazione dello stato attuale del patrimonio ereditario ma al suo miglioramento e anche all'eliminazione delle passività ereditarie. Infine, quanto al contenuto, essa ricomprende tutto ciò che costituisce oggetto della prima salvo essere assai più vasta di quella. In giurisprudenza, quanto al rapporto tra amministrazione del curatore dell'eredità giacente e del chiamato, si è affermato che quest'ultimo dispone di poteri originari e autonomi, che sono più ampi di quelli conferiti al semplice chiamato all'eredità, e che non incontrano se non quei limiti che sono espressamente stabiliti dalla legge o che risultano indirettamente dagli scopi che la sua attività è destinata a realizzare in rapporto agli interessi che ne costituiscono il presupposto (Cass. n. 727/1969). Sicché, tenuto conto delle differenze, l'affinità tra la curatela dell'eredità giacente e l'amministrazione del chiamato, dovuta alla loro comune collocazione temporale, non si riverbera sulla disciplina positiva dell'attività del curatore, ché, anzi, l'art. 531 c.c. la parifica all'amministrazione dell'erede beneficiato, dichiarando comuni al curatore le norme che regolano l'inventario, l'amministrazione ed il rendimento del conto da parte del secondo. E, tuttavia, non bisogna credere che, in ragione del rinvio contenuto nell'art. 531 c.c., l'amministrazione del curatore e dell'erede beneficiato abbiano il medesimo contenuto. È facile rilevare che il curatore opera a tutela di un interesse alieno e ricopre un ufficio, mentre l'erede beneficiato persegue un interesse proprio ed esercita un diritto. Ciò consente di dire che il rinvio contenuto nell'art. 531 c.c. ha « carattere puramente formale, non sostanziale » (Natoli, 270). Il che si traduce in ciò, che il rinvio deve essere considerato operante nei limiti della compatibilità. Si è esclusa, perciò, la soggezione del curatore agli artt. 492, 493, 494, 497, 503, 504 e 505 c.c. Soluzione, questa, in parte perfettamente condivisibile — dal momento che appare intuitiva l'inapplicabilità al curatore dell'obbligo di prestazione della garanzia di cui all'art. 492 c.c. e della disciplina tutta della decadenza dal beneficio — in parte non del tutto convincente, dovendosi credere, come si vedrà, che la liquidazione concorsuale possa essere intrapresa anche per iniziativa del curatore, così come previsto, per l'erede beneficiato, dall'art. 503 c.c. La formazione dell'inventario. I sigilliTra le molteplici funzioni spettanti al curatore dell'eredità giacente, la prima in ordine logico, ai sensi dell'art. 529 c.c., è la doverosa formazione dell'inventario, da erigersi nelle forme previste dagli artt. 769 ss. Scopo dell'atto, è l'accertamento della consistenza del patrimonio, non solo al fine di rendere concretamente programmabile l'amministrazione dell'eredità, ma anche al fine di prefissare l'ambito di responsabilità del curatore. Alla luce dell'osservazione che il rinvio contenuto nell'art. 531 c.c. deve essere considerato operante nei limiti della compatibilità, va escluso che il curatore sia assoggettato al termine trimestrale per la formazione dell'inventario previsto dall'art. 485 c.c. Termini, però, possono essere stabiliti dal giudice, nell'esercizio del suo potere di controllo dell'attività del curatore. Esattamente si afferma che il curatore potrebbe trovarsi dinanzi ad un inventario già eretto e, in tal caso, si dice che egli può limitarsi al controllo della completezza ed esattezza dell'inventario ed alle sue eventuali integrazioni, mediante istanza di riapertura (Natoli, 271). In proposito, merita attenzione una decisione di merito in cui si afferma che quando la nomina del curatore dell'eredità giacente avvenga durante il corso dell'inventario promosso dall'erede, il curatore rimane dispensato dall'obbligo di promuovere o continuare esso stesso l'inventario, il cui compimento spetta all'organo pubblico che già è stato incaricato della sua esecuzione col decreto pretorile di cui all'art. 769 ss. (App. Firenze 22 maggio 1953). Soluzione che, se presa alla lettera — e, dunque, effettivamente riferita all'inventario formato ad istanza dell'erede e non del chiamato —, può trovare applicazione solo ove si ammetta il fenomeno della giacenza dell'eredità pro quota. Quando siano stati apposti i sigilli, il curatore dell'eredità giacente, occorrendo erigere l'inventario, deve chiederne la rimozione. Ed egli è legittimato anche a chiedere l'apposizione dei sigilli quando l'inventario non sia stato ancora eretto e in tutti i casi in cui l'obbligo incomberebbe anche al chiamato. AmministrazioneIl curatore, per amministrare, deve prendere possesso dei beni ereditari ed esercitare le azioni possessorie che si rendano eventualmente necessarie (Natoli, 272). La presa di possesso dei beni, cioè, è per il curatore un obbligo, del quale è evidente la relazione strumentale con l'amministrazione che egli deve esercitare. Ciò sebbene per il curatore dell'eredità giacente tale obbligo non sia espressamente previsto, come è per l'esecutore testamentario, ai sensi dell'art. 703 c.c. A tal fine, egli può avvalersi di tutti gli strumenti giuridici che l'ordinamento appresta. Secondo quanto stabilisce l'art. 529 c.c. il curatore è tenuto ad amministrare l'eredità. Diversa, però, è la disciplina dell'amministrazione ordinaria e di quella straordinaria. Quanto alla prima, si ritiene, in genere, che il curatore goda di un'ampia autonomia, poiché, per l'amministrazione ordinaria non è richiesta autorizzazione giudiziale. Ciò si desume con certezza, a contrario, dall'art. 782, comma 2, secondo il quale gli atti del curatore che eccedono l'ordinaria amministrazione debbono essere autorizzati dal giudice, il che sta senza dubbio a significare che, invece, quelli di amministrazione ordinaria non devono essere preventivamente autorizzati. Perciò, a titolo esemplificativo, si dice che il curatore può riscuotere canoni di locazione o di affitto, incassare cedole di titoli, concedere in locazione beni immobili (purché non si tratti di locazioni ultranovennali), pagare quote condominiali, effettuare piccole riparazioni, pagare il canone di locazione di cassette di sicurezza, pagare il canone di locazione di immobili condotti dalla curatela (finché ciò sia possibile) nonché utenze varie (elettricità, acqua ecc.), pagare rate semestrali di mutuo gravanti su immobili ereditari, versare imposte alle scadenze relative, incassare somme periodiche dovute all'eredità giacente e, in definitiva, tutto ciò che costituisce reddito del patrimonio. Tuttavia, nel valutare l'autonomia di cui il curatore dispone, occorre anche considerare che egli è sempre soggetto al controllo del giudice. Dispone, infatti, l'art. 782, comma 1, che l'amministrazione del curatore si svolge sotto la vigilanza del giudice, che quando lo crede opportuno — dunque, in qualsiasi momento — può prefiggere, con decreto, termini per la presentazione dei conti della gestione, e può in ogni tempo sostituire il curatore. È possibile dire, quindi, che il curatore è stretto al giudice da un vincolo fiduciario, dal quale non può discostarsi. E, in questo quadro, anche il compimento di atti di amministrazione ordinaria può ledere la fiducia del rapporto: basti pensare — tra i tanti esempi possibili — alla sconveniente locazione di un immobile ad un canone inadeguato, o per una durata eccessiva. Nell'ambito dell'amministrazione ordinaria si colloca la custodia delle somme di pertinenza dell'eredità. L'art. 529 c.c., in particolare, stabilisce che il curatore deve depositare presso le casse postali o presso un istituto di credito designato dal giudice il denaro che si trova nell'eredità o si ritrae dalla vendita dei mobili o degli immobili. Disposizione, questa, che ha il duplice scopo di «salvaguardare, anche di fronte al curatore, quella parte delle sostanze ereditarie, che più di ogni altra è, per sua natura, di facile dispersione, e di assicurare nel contempo un proficuo investimento» (Natoli, 273). Ovvio che debba trattarsi di deposito vincolato all'ordine del giudice e che, di conseguenza, ogni prelievo debba essere da questo autorizzato, senza di che la funzione di cautela della norma non potrebbe realizzarsi. Si ritiene in prevalenza, tuttavia, che la norma andrebbe interpretata restrittivamente e che l'obbligo imposto al curatore non riguarderebbe le somme costituenti reddito del patrimonio, le quali dovrebbero essere impiegate per l'amministrazione. In caso contrario — si sostiene — l'amministrazione rimarrebbe paralizzata e non potrebbe che rivelarsi inefficiente (Natoli, 273). La tesi, però, non può essere condivisa, sia perché l'espressione utilizzata nell'art. 529 c.c. — « il danaro che si trova nell'eredità » —, nella sua ampiezza, non autorizza una simile conclusione, sia perché il pericolo di irrigidimento dell'amministrazione non è reale, dal momento che l'autorizzazione giudiziale non richiede, in sé, soverchia meditazione o apprezzabile impiego di tempo. È, perciò, da credere che tutte le somme esistenti nell'eredità debbano essere depositate, secondo quanto previsto dall'art. 529 c.c., salva la facoltà del giudice di autorizzare il curatore a trattenere presso di sé quanto occorrente per l'amministrazione. Naturalmente, non è escluso che, con l'autorizzazione giudiziale, il denaro appartenente all'eredità — escluso il necessario all'amministrazione corrente — possa essere più proficuamente investito, pur con la dovuta prudenza e cautela, sì da restituire un rendimento migliore di quello assicurato dal semplice deposito su un conto postale o presso un istituto di credito. Nel discorrere del deposito delle somme appartenenti all'eredità, è opportuno accennare alla sorte dei titoli rappresentativi di denaro in genere. Trattandosi di mobili, essi, secondo l'opinione comune, sono assoggettati alla regola posta dall'art. 783. Il curatore, dunque, è tenuto a procedere alla vendita, a meno che il giudice non autorizzi un diverso impiego (Natoli, 274). E, analogamente a quanto poc'anzi osservato, può essere certamente preferibile che un investimento di elevata garanzia — si pensi ai titoli di Stato — sia mantenuto, anziché essere convertito in denaro. L'art. 531 c.c. estende al curatore dell'eredità giacente le disposizioni poste in tema di amministrazione dell'erede beneficiato in quanto compatibili. L'erede beneficiato, ai sensi dell'art. 493 c.c., deve munirsi dell'autorizzazione giudiziale, pena la decadenza dal beneficio di inventario, per porre in essere ciascuno degli atti ivi menzionati e, più in generale, tutti gli atti di straordinaria amministrazione. Ma, ovviamente, nonostante il rinvio contenuto nell'art. 531 c.c., la disposizione non è come tale applicabile al curatore dell'eredità giacente, per il quale parlare di decadenza dal beneficio non avrebbe senso. E, d'altronde, l'obbedienza degli atti di straordinaria amministrazione all'autorizzazione giudiziale — che, per l'erede beneficiato, si ricava in via interpretativa — è espressamente stabilita, per il curatore dell'eredità giacente, dall'art. 782, comma 2. Non sembra potersi dubitare, dunque, che, in presenza di una specifica disciplina dettata per il curatore dell'eredità giacente, l'art. 493 non trovi nei suoi confronti applicazione. Competente ad autorizzare gli atti di straordinaria amministrazione è il tribunale in composizione monocratica, salvo si tratti di vendita immobiliare, nel qual caso trova applicazione l'art. 783, comma 2, c.c. Una volta riconosciuta l'inapplicabilità all'eredità giacente dell'art. 493 c.c. — il quale, secondo l'opinione preferibile, pone sullo stesso piano gli atti di disposizione, mobiliare e immobiliare, e gli altri atti di straordinaria amministrazione —, occorre concludere che il tribunale in composizione collegiale debba autorizzare la sola vendita immobiliare, rimanendo subordinati gli altri atti di amministrazione straordinaria — ivi comprese la permuta, la datio in solutum, la costituzione di diritti reali, la locazione ultranovennale — all'autorizzazione del giudice monocratico, secondo il dettato dell'art. 782, comma 2. Quanto alla tipologia degli atti che il curatore può compiere si ritiene comunemente che essa non incontri un limite nel citato art. 783, il quale contempla la sola ipotesi della vendita, mobiliare e immobiliare. Oltre a ciò, dunque, il curatore può, in generale, contrarre mutui, costituire garanzie, promuovere divisioni, riscuotere capitali. Ed ancora, si ritiene possa effettuare permute, concedere immobili in locazione ultranovennale, acquistare beni, assumere obbligazioni. È discusso se il curatore dell'eredità giacente possa promuovere la divisione ereditaria. Secondo una tesi, egli non potrebbe provocare la divisione dell'eredità, perché la divisione presuppone l'accettazione e questa, a sua volta, pone fine alla curatela giudiziale. È chiaro, invece, che, se si tratta di altra divisione, provocata ad es. da comunione interessante ad altro titolo un bene ereditario, la soluzione sarebbe diversa. Occorrerebbe, allora, l'autorizzazione, trattandosi di azione diretta a modificare lo stato attuale dei beni (Natoli, 275). E, che la divisione presupponga l'accettazione è confermato dalla S.C. (Cass. n. 2091/1974; Cass. n. 1628/1985). In effetti — come ha osservato la dottrina — bisogna tenere ben distinte due ipotesi: a) che si discuta della divisione dei beni del de cuius tra i suoi eredi; b) che si discuta della divisione di beni appartenuti a qualsiasi titolo in comunione al de cuius ed a terzi. Il primo quesito, a ben vedere, si interseca con quello relativo all'ammissibilità della giacenza parziale o pro quota. Difatti, se si nega l'ammissibilità di quest'ultima figura, diviene necessario ritenere che, in presenza di un coerede — ossia di un chiamato che abbia accettato l'eredità — la situazione di giacenza cessi e, dunque, non possa ammettersi la divisione tra il curatore ed i coeredi. Diversamente — se, cioè, sia in discussione lo scioglimento della comunione avente ad oggetto beni appartenuti al de cuius e a terzi — nessun dubbio che la divisione possa essere promossa anche dal curatore o nei suoi confronti. Occorrerà di certo l'autorizzazione, che — se si accede alla tesi che l'art. 493 c.c. non si applica al curatore dell'eredità giacente, il quale necessita dell'autorizzazione del tribunale riunito in collegio solo per la vendita — dovrà essere rilasciata dal tribunale in composizione monocratica. Altra questione controversa, è se il curatore dell'eredità giacente possa accettare l'eredità devoluta al de cuius, che sia deceduto ancora ricoprendo la posizione di chiamato. Muovendo dal presupposto che il curatore rappresenti il chiamato si è escluso che egli possa accettare eredità pervenute al defunto. Questo il ragionamento: se il curatore non può accettare, nell'interesse del chiamato, l'eredità che amministra, non può per identica ragione, accettare (o rifiutare) neppure l'eredità eventualmente devoluta al de cuius e da lui non accettata, perché il potere di accettarla spetta agli eredi di quest'ultimo, cioè agli eredi di colui che è morto senza accettare o rinunziare, e non a coloro che sono semplicemente chiamati alla sua successione. Sarebbe, perciò, inevitabile, di fronte ad una distinta delazione, nella ricorrenza del presupposto della vacanza nel possesso dei beni, aprire una distinta curatela, potendosi, tutt'al più, nominare lo stesso curatore (Cicu, 158). Sul versante opposto si colloca l'opinione di chi ha affermato che il diritto di accettare l'eredità ha essenzialmente contenuto patrimoniale e, perciò, entra a far parte dell'asse ereditario. In proposito, si è ritenuto che il diritto di accettare l'eredità abbia rilevanza tipicamente patrimoniale e, in quanto tale, possa essere oggetto di successione. L'art. 479 c.c. afferma, infatti, che « il diritto di accettare si trasmette agli eredi » e ciò significa che la vocazione già apertasi a favore del de cuius rappresenta un titolo di diritto compreso nel patrimonio ereditario. E poiché l'attività del curatore si determina sulla base della rilevanza dei titoli che fanno parte di questo, si può anche ammettere che egli sia legittimato a far valere il titolo particolare rappresentato dalla vocazione a favore del de cuius (Natoli, 286). Mentre l'erede beneficiato può certamente proseguire nell'esercizio dell'impresa caduta in successione e, per farlo, non ha bisogno di autorizzazione, si discute se il curatore dell'eredità giacente possa proseguire l'impresa caduta in successione. In giurisprudenza si trova accolta la soluzione negativa (Pret. Gubbio 28 gennaio 1989). La soluzione non sembra condivisibile. Difatti, la pronuncia in esame, nell'affermare che il curatore dell'eredità giacente non potrebbe continuare l'esercizio dell'impresa, finisce per escludere — il che è certamente errato — che lo scopo primario della curatela sia la conservazione del patrimonio ereditario nel periodo compreso tra l'apertura della successione e l'accettazione dell'eredità. In altri termini, il curatore, non potendo continuare l'impresa caduta in successione, dovrebbe assistere alla sua disgregazione e, all'esito dell'opera prestata, non potrebbe consegnarla all'erede, il quale vedrebbe così depauperato il patrimonio relitto. Perciò, la dottrina ritiene che il curatore possa provvedere affinché l'impresa continui la sua attività produttiva. Semmai, dunque, si può ritenere che la continuazione dell'impresa sia inibita quando l'esistenza di passività ereditaria imponga la liquidazione dell'attivo, per soddisfare i creditori e legatari. Altra questione è se anche il curatore dell'eredità giacente, come l'erede beneficiato, possa proseguire nell'esercizio dell'impresa senza autorizzazione del giudice. La dottrina dà fondatamente risposta negativa. Si fa leva, in proposito, sull'osservazione che l'azienda è normalmente formata anche da beni mobili e, dunque, si richiama il dettato dell'art 783, comma 1, il quale impone la vendita dei mobili, a meno di diversa disposizione del giudice. Si ritiene, in altri termini, che la continuazione dell'impresa, configurando un impiego degli elementi mobiliari costitutivi dell'azienda diverso dalla vendita, richieda come tale l'autorizzazione giudiziale. Spetta al curatore, ai sensi dell'art. 529 c.c., di esercitare e promuovere le ragioni dell'eredità e di rispondere alle istanze proposte contro la medesima. La norma, dunque, attribuisce al curatore il potere-dovere di tutelare l'eredità sia in sede stragiudiziale, sia in giudizio. Sotto il primo profilo, il curatore è principalmente legittimato a fare il necessario per ottenere la riscossione dei crediti ereditari. Egli, a tale scopo, può e deve costituire in mora i debitori dell'eredità, far valere i possibili mezzi di conservazione delle garanzie patrimoniali dei crediti e, infine, ricevere il pagamento dei medesimi. In particolare, per quanto riguarda i depositi bancari, un giudice di merito ha chiarito che il depositario non può esigere dal curatore l'esibizione della denuncia di successione (Pret. Roma 29 marzo 1976). Il curatore, invece, può e deve recuperare presso terzi le azioni societarie a questi fittiziamente intestate dal de cuius (Trib. Bologna 31 ottobre 1985). Proseguendo nell'esame dei poteri di cui il curatore dispone al fine di tutelare l'eredità, si deve aggiungere che egli può e deve chiedere a chiunque abbia avuto il possesso dei beni ereditari il rendiconto della gestione. Si è detto, in proposito, che l'azione di rendiconto esperita dal curatore dell'eredità giacente nei confronti di chi, comunque, abbia avuto il possesso ed il godimento di beni ereditari comporta, in potenza, anche un giudizio circa le eventuali responsabilità connesse allo svolgimento concreto delle relative attività di gestione o di amministrazione, con la conseguenza che il relativo obbligo di rendere il conto può dirsi adempiuto unicamente quando si sia fornita la prova, non solo della qualità e quantità delle utilità percepite e dell'entità e causale degli eventuali esborsi, bensì pure di tutti gli elementi di fatto idonei ad individuare e vagliare le modalità con cui la gestione è stata condotta o l'incarico eseguito ed a stabilire, anche in relazione ai fini da perseguire ed ai risultati raggiunti, se l'operato si sia adeguato ai criteri di conveniente gestione e di buona amministrazione (Cass. n. 1841/1982). Tutela giudiziale delle ragioni dell'ereditàAl curatore, inoltre, spetta — come si è accennato — la rappresentanza in giudizio dell'eredità. Si tratta — osserva la dottrina — della più ampia legittimazione, attiva e passiva, a stare in giudizio, per qualsiasi causa che interessi il patrimonio ereditario ovvero la sua amministrazione (Natoli, 274). In generale, il curatore, sia nell'agire che nel resistere in giudizio, deve comportarsi con prudenza e oculatezza, per evitare di gravare l'eredità di spese inutili, sì da rispondere, in caso contrario, anche per colpa lieve. E, dalla condotta processuale del curatore può scaturire non soltanto una sua condanna personale alle spese di lite, ex art. 94, ma anche una condanna per lite temeraria, ex art. 96 (Trib. Milano 14 gennaio 1971). Tra legittimazione attiva e passiva vi è da fare una distinzione. Difatti, si ritiene, in generale, che il curatore, per agire in giudizio, debba munirsi dell'autorizzazione giudiziale di cui all'art. 782, comma 2. Taluno, però, ha osservato che anche l'azione in giudizio può configurarsi come esercizio di ordinaria amministrazione, quando abbia scopo semplicemente conservativo dell'eredità. In altri termini, solo le azioni intese « a provocare una mutamento della situazione giuridica dei beni amministrati » (Natoli, 276) richiederebbero l'autorizzazione giudiziale, che in caso contrario, sarebbe superflua. E, a titolo di esempio di azioni che presupporrebbero l'autorizzazione, si fa menzione dell'esercizio del diritto di riscatto, ex art. 1500 c.c., di devoluzione, ex art. 972 c.c., di affrancazione. In giurisprudenza, in particolare, si è ritenuto che il curatore dell'eredità giacente non necessiterebbe di autorizzazione ex art. 783 per promuovere un giudizio di accertamento della nullità di un contratto di rendita vitalizia stipulato in vita dal de cuius, ancorché detto giudizio miri a recuperare un immobile all'asse ereditario (Cass. n. 367/1995). Una precedente pronuncia, muovendo dall'art. 782, ha posto in dubbio la necessità dell'autorizzazione giudiziale per l'introduzione di un'opposizione all'esecuzione diretta a disconoscere la sottoscrizione di un assegno, precisando che, in caso di translatio iudicii, conserva efficacia l'autorizzazione inizialmente rilasciata (Cass. n. 12784/1998). Per quanto attiene alla legittimazione passiva, occorre ricordare, in primo luogo, che la mancata vocatio in ius dell'eredità giacente, quando la legittimazione passiva spetti a quest'ultima, determina l'irregolarità di costituzione del contraddittorio, che non è sanata dalla citazione dei chiamati all'eredità, qualora costoro si costituiscano in giudizio non per far valere le ragioni dell'eredità loro devoluta, ma per prospettare la loro concreta e sostanziale estraneità alla successione ereditaria del de cuius (Cass. n. 12745/1993). Per la resistenza in giudizio, è opinione di alcuni che l'autorizzazione giudiziale non sia comunque richiesta (Natoli, 277). A differenza di quanto previsto dall'art. 486 c.c., secondo cui, se, essendo stato convenuto in giudizio, non compare il chiamato, occorre nominare un curatore all'eredità affinché la rappresenti nella causa, la mancata comparizione del curatore dell'eredità giacente dà luogo a contumacia, secondo le regole generali. Ma la contumacia del curatore può dar luogo a sua responsabilità verso l'eredità per i danni derivati ad essa dalla inerzia (Natoli, 277). Il curatore dell'entità giacente, inoltre, è legittimato a subentrare nei rapporti processuali pendenti alla morte del de cuius, a tutela dell'eredità, fino al momento in cui il chiamato, che non è nel possesso dei beni ereditari, dichiari di accettarla, e senza che l'efficacia retroattiva di detta accettazione incida sulla legittimazione ad causam esercitata medio tempore dal curatore (Cass. n. 2274/1972; Cass. n. 7076/1990). Passando all'esame della casistica in cui è stata riconosciuta la legittimazione del curatore dell'eredità giacente, si può ricordare che questi, avendo l'obbligo di esercitare e promuovere le ragioni che afferiscono al patrimonio ereditario, nonché di rispondere alle istanze contro il medesimo proposte, è legittimato a resistere all'azione diretta a far dichiarare l'invalidità o inefficacia dell'atto di acquisto di beni ereditari (Cass. n. 970/1967). Il curatore dell'eredità giacente, inoltre, è legittimato a resistere alle azioni di petizione ereditaria concernenti beni che non si trovano più compresi nell'eredità, per averne il de cuius già disposto per atto tra vivi, in quanto detto curatore deve intendersi abilitato a difendere l'integrità giuridica ed economica di tutti i rapporti comunque compresi o riconducibili nell'eredità giacente, onde assicurare un'opportuna tutela del relativo asse contro l'accertamento pregiudizievole di eventuali responsabilità patrimoniali suscettibili di riverberarsi sulla consistenza economica dell'eredità (Cass. n. 5889/1982). Al curatore dell'eredità giacente competono i poteri conferiti al chiamato prima dell'accettazione, ex art. 460 c.c. (Cass. n. 727/1969). Si applica all'eredità giacente l'istituto dell'azione generale di rescissione per lesione, di cui all'art. 1448 c.c. (Cass. n. 2166/1986). Altra questione affrontata in giurisprudenza è quella della legittimazione del curatore dell'eredità giacente dell'imprenditore defunto a chiedere l'ammissione al concordato preventivo e, quindi, a resistere nei giudizi promossi dai lavoratori, per l'accertamento dei propri diritti. Si è detto che con riguardo all'ammissione al concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori che sia stata chiesta ed ottenuta dal curatore dell'eredità giacente dell'imprenditore defunto, la legittimazione passiva nei giudizi promossi dai lavoratori, per l'accertamento dei diritti dagli stessi vantati, spetta in via esclusiva al datore di lavoro debitore — ai suoi successori, od al curatore dell'eredità — assoggettato alla procedura, ma non anche al liquidatore del concordato, la cui legittimazione è viceversa limitata, sia attivamente che passivamente, ai soli affari inerenti alle operazioni di liquidazione (Cass. n. 3701/1987). Il curatore dell'eredità giacente, quando sia un avvocato legalmente esercente, può difendere la curatela a proprio ministero, in applicazione dell'art. 86 (Cass. n. 12784/1998). In più di un'occasione la giurisprudenza si è soffermata sugli effetti della cessazione della curatela sui giudizi pendenti per intervenuta accettazione da parte del chiamato, ai sensi dell'art. 532 c.c. Ciò si ricollega al problema dell'estensione temporale della legittimazione processuale del curatore ed a quello della sorte dell'attività dal medesimo posta in essere, una volta che la curatela sia venuta meno. Sull'argomento, si è detto che, se l'esercizio e la promozione delle ragioni ereditarie e la risposta alle istanze proposte contro la medesima (art. 529 c.c.) rientrano tra gli obblighi connessi all'ufficio del curatore dell'eredità giacente, essi devono persistere fin quando vengano a cessarne gli estremi. Conseguentemente, l'efficacia retroattiva dell'accettazione (costruita come onere integrativo della vocazione) o della devoluzione di diritto allo Stato ex art. 586 c.c. (che addirittura prescinde dall'accettazione) — mediante la quale si tende ad evitare una vacanza nella titolarità del patrimonio ereditario — non può incidere sulla legittimazione ad causam, medio tempore esercitata dal curatore, e, solo dal momento in cui risultano realizzati gli scopi cui tale legittimazione sostitutiva tende, vengono a cessare di diritto e lo stato di giacenza e l'ufficio del curatore (Cass. n. 2274/1972). Tornando agli effetti della cessazione della curatela sui giudizi pendenti, si è osservato che, nelle controversie riguardanti i beni dell'eredità giacente, per le quali la capacità di stare in giudizio spetta al curatore, la cessazione del medesimo dall'ufficio, ancorché derivante da sopravvenuta chiusura dell'eredità giacente per accettazione da parte dell'erede, non incide sull'attività processuale in precedenza svolta e determina una causa d'interruzione del procedimento, ai sensi dell'art. 300, come tale non applicabile nel giudizio di legittimità (Cass. n. 1601/1988; Cass. n. 970/1967). Nel ribadire i principi, la Corte suprema ha aggiunto che l'erede succede nel processo al curatore, in applicazione della regola generale sancita dall'art. 110 (Cass. n. 12784/1998). Sempre in tema di interruzione, occorre menzionare gli effetti della dichiarazione di giacenza sui giudizi pendenti alla morte del de cuius. In proposito si è osservato che, verificatasi l'interruzione del processo, per la morte della parte costituita a mezzo di procuratore, la notificazione dell'atto riassuntivo (del processo) agli eredi della parte defunta, considerati collettivamente ed impersonalmente, rappresenta non un obbligo ma una facoltà, alternativa alla possibilità che l'atto di riassunzione sia notificato ai singoli eredi; in questo secondo caso, la parte che esegue la riassunzione non è tenuta ad accertarsi preventivamente che i chiamati all'eredità non vi abbiano rinunciato, dovendo invece la prova della rinuncia essere fornita dai soggetti evocati in giudizio in qualità di eredi, con la conseguenza che il processo è legittimamente riassunto nei loro confronti e che, una volta fornita dai medesimi la prova dell'avvenuta rinuncia all'eredità, è possibile integrare il contraddittorio nei confronti dei successori non rinuncianti o nei confronti dell'eventuale eredità giacente (Cass. n. 2331/1984). Se il curatore può stare in giudizio può certamente transigere le liti o comprometterle in arbitri (Natoli, 277). Pagamento dei debiti ereditariSecondo l'art. 530 c.c., il curatore dell'eredità giacente può provvedere al pagamento dei debiti ereditari e dei legati previa autorizzazione giudiziale. Se, però, alcuno dei creditori o lei legatari fa opposizione il curatore non può effettuare alcun pagamento, ma deve procedere alla liquidazione concorsuale dell'eredità, ai sensi degli artt. 498 ss. c.c. Tenuto conto della formulazione della norma, taluno ha sostenuto che il pagamento delle passività ereditarie sarebbe una semplice facoltà e che, anzi, il curatore non sarebbe legittimato a provvedervi, essendo vincolato all'autorizzazione prevista. In giurisprudenza, l'opinione è stata accolta in una decisione nella quale si è sostenuto che la facoltatività del pagamento si estenderebbe ai legati di specie (Trib. Milano 8 novembre 1956). La tesi della facoltatività dei pagamenti non sembra poter essere condivisa. Difatti, il curatore, quale amministratore dell'eredità, deve estinguere le passività ereditarie, secondo le diverse modalità della liquidazione individuale o concorsuale: in caso contrario, la sua sarebbe un'amministrazione monca. Ed ancora, l'art. 530, comma 2., c.c., nel prevedere come obbligatoria la liquidazione concorsuale in caso di opposizione dei creditori o legatari, rende inaccettabile, sul piano della coerenza logica, la tesi della facoltatività dei pagamenti: facoltatività che non si spiegherebbe, potendo essere neutralizzata mediante l'opposizione. D'altronde, è facile osservare che il conferimento al curatore di un potere discrezionale di effettuare o meno i pagamenti dovuti non avrebbe senso, dal momento che i creditori e legatari potrebbero aggredire esecutivamente l'eredità, con evidente pregiudizio di questa. Sicché, l'espressione utilizzata dal legislatore sembra da intendere nel senso che il curatore può pagare solo dopo aver ottenuto l'autorizzazione, ma, una volta che questa sia stata conseguita, deve pagare, senza che residui alcuna facoltatività nell'atto. Quanto alla concreta disciplina della liquidazione, occorre ricordare che l'art. 531 c.c. estende al curatore dell'eredità le regole dettate dagli artt. 484 ss. c.c. in tema di inventario, amministrazione e rendimento del conto da parte dell'erede beneficiato. Vi è, dunque, un implicito rinvio dell'art. 530 c.c. a quest'ultima disposizione, attraverso l'art. 531 c.c. Ciò comporta il pagamento dei creditori e legatari, nell'ambito della liquidazione individuale, qui primi veniunt, salvi i diritti di poziorità. In effetti, la Corte suprema ha riconosciuto l'applicabilità dell'art. 495 c.c. alla curatela dell'eredità giacente, stabilendo che, a differenza del debitore che per adempiere alcune delle sue obbligazioni, al di fuori di procedure concorsuali o individuali, è libero di scegliere il creditore al quale eseguire il pagamento, il curatore dell'eredità giacente è tenuto — anche al di fuori della ipotesi di liquidazione dell'eredità a norma degli artt. 498 ss. c.c. — a rispettare l'ordine dei diritti di prelazione a norma dell'art. 495 c.c. (richiamato dall'art. 531 stesso codice) con la conseguenza che, restando la pretesa dei vari creditori alla soddisfazione delle loro ragioni limitata da quella concorrente dei creditori aventi un titolo poziore, l'inosservanza di quell'ordine comporta l'illegittimità del relativo pagamento anche se debitamente autorizzato dal pretore (Cass. n. 1627/1985). Se taluno dei creditori o legatari propone opposizione alla liquidazione individuale, il curatore deve procedere alla liquidazione concorsuale, ai sensi degli artt. 498 ss. c.c. Si è ritenuto che la liquidazione concorsuale, nel rispetto dell'art. 499 ss. c.c. debba essere eseguita dal curatore con l'assistenza di un notaio (App. Milano 24 giugno 1960). In proposito, se è certamente ammesso il ricorso all'assistenza del notaio, deve ritenersi parimenti consentito, dietro autorizzazione giudiziale, che la liquidazione concorsuale sia eseguita direttamente dal curatore. Se è vero, infatti, che il notaio interviene nella procedura di liquidazione concorsuale dell'eredità beneficiata nell'interesse degli stessi eredi beneficiati, normalmente inesperti di difficili questioni giuridiche, ma anche dei creditori e degli eredi assenti, è altrettanto vero che siffatti interessi, nel quadro della liquidazione concorsuale dell'eredità giacente, ben possano essere tutelati dal curatore, che opera in funzione di salvaguardia di tutti gli interessati alla successione, è normalmente scelto tra persone esperte in materie giuridiche ed opera sotto la vigilanza del giudice (Trib. Roma 5 febbraio 2000). 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