Affitto d’azienda e concordato in continuità

15 Novembre 2013

Un problema che la pratica si trova a dover affrontare negli ultimi tempi concerne la applicabilità o meno della disciplina della continuità aziendale nel caso in cui l'azienda medesima - ovviamente relativa alla impresa in crisi - sia ceduta con contratto di affitto a terzi.

Un problema che la pratica si trova a dover affrontare negli ultimi tempi concerne la applicabilità o meno della disciplina della continuità aziendale nel caso in cui l'azienda medesima - ovviamente relativa alla impresa in crisi - sia ceduta con contratto di affitto a terzi.

Il corretto inquadramento della questione presuppone il chiarimento preliminare sul problema della continuità aziendale nelle procedure concorsuali.
Sintetizzando al massimo senza tradire la reale complessità della questione, possiamo dire che la principale conseguenza dell'attività di impresa in svolgimento, e dunque della continuità aziendale, sotto il profilo patrimoniale è data dal rischio d'impresa che continua a gravare sugli aventi causa dell'imprenditore: soci, ossia prestatori di equity, e creditori, ossia prestatori di capitale di debito. La crisi finanziaria dell'impresa, quale conseguenza - il più delle volte - di un'iniziale crisi economica e patrimoniale, pone il problema dello sbilancio patrimoniale, ossia della insufficienza del patrimonio del debitore per il pagamento di tutti i debiti assunti. In caso di sbilancio patrimoniale l'unica condizione economicamente razionale perché prosegua l'attività è nel credito che la stessa riesce ancora a maturare sul mercato. Alcune recenti definizioni di insolvenza, suscitate dalla crisi economica, rendono chiaramente conto di questo fenomeno. Nel diritto positivo francese, la concessione di credito (realizzata in via diretta o indiretta, attraverso dilazioni di pagamento) esclude lo stato di cessazione dei pagamenti, ossia l'insolvenza vera e propria (cfr. art. L. 631-1 code comm.). Nel diritto tedesco, per verificare lo ‘sbilancio patrimoniale', ossia l'insufficienza dell'attivo patrimoniale a coprire le obbligazioni esistenti - e dunque, ancora, una situazione di insolvenza - occorre in ogni caso prendere in considerazione la prosecuzione dell'attività di impresa, qualora sia ragionevole presupporla (cfr. § 19 InsO): così da escludere la situazione di sbilancio patrimoniale tutte le volte che impresa riesca a permanere sul mercato.
Veniamo al punto.
Qualora l'impresa goda ancora di credito sul mercato, e dunque qualora sia ragionevole presupporre la prosecuzione dell'attività, il suo stesso svolgersi farà maturare un ulteriore rischio d'impresa, che graverà su tutti i creditori, e in primo luogo sui creditori che avranno ritenuto di confermare la propria fiducia nell'impresa in crisi consentendole di proseguire.
Qualora sia stata aperta una procedura concorsuale, si realizza il controllo degli organi della procedura sull'opzione della continuità aziendale. Cosa che si giustifica proprio per il permanere, in tal caso, del rischio di impresa in capo ai creditori concorsuali.
Così, nel fallimento, l'esercizio provvisorio dell'impresa è subordinato a gravi ragioni di convenienza, giacché può essere autorizzato soltanto se dalla cessazione dell'attività possa derivare un danno grave, e sempre che la continuità aziendale non arrechi pregiudizio ai creditori; la continuazione dell'attività rimane in ogni caso soggetta al parere favorevole del comitato dei creditori, che deve ravvisare l'opportunità della prosecuzione dell'attività (cfr. art. 104 l.fall.).
Non dissimilmente, nel concordato preventivo la continuità aziendale è sottoposta ad un severo controllo, giacché occorre che il professionista incaricato attesti che la prosecuzione dell'attività d'impresa prevista nel piano concordatario sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori (cfr. art. 186-bis l. fall.). Qui la situazione è ancora più difficile che nel fallimento, giacché mentre in quest'ultimo caso ad esercitare l'impresa è il curatore fallimentare, invece nel concordato l'imprenditore resta al suo posto di comando, sia pur sorvegliato quanto al compimento degli atti di straordinaria amministrazione dagli organi della procedura.
Ma che cosa accade circa il contratto di affitto d'azienda nel fallimento? La legge fallimentare condiziona l'affitto alla probabilità di una più proficua vendita dell'azienda o di parti della stessa; precisa che la durata dell'affitto deve essere compatibile con le esigenze della liquidazione dei beni (cfr. art. 104-bis). Nessuna norma si preoccupa di tutelare i creditori dal rischio d'impresa inerente alla conduzione della azienda da parte dell'affittuario. È solo stabilito, per massimizzazione della tutela, che in caso di retrocessione dell'azienda il fallimento non sopporterà comunque la responsabilità per i debiti maturati sino alla retrocessione (cfr. art. 104-bis). E in effetti, non avrebbe potuto essere diversamente. A differenza di quanto accade nell'esercizio provvisorio, in cui l'azienda è condotta dal curatore e nell'ambito del fallimento - e dunque con sopportazione del rischio d'impresa da parte dei creditori concorsuali -, invece nel caso dell'affitto dell'azienda in fallimento il rischio d'impresa si sposta dai creditori concorsuali all'affittuario, mentre l'unico rischio che rimarrà pendente sopra i creditori concorsuali concernerà il mancato pagamento del canone.
Lo stesso si verifica nell'ipotesi del concordato. I creditori concorsuali sono destinati a sopportare il rischio d'impresa soltanto finché la stessa è condotta dall'imprenditore e nel concordato. Invece, quando sia concluso un contratto di affitto, precedentemente all'apertura della procedura concordataria o nel corso della stessa, allora dal momento della stipula del contratto il rischio di impresa graverà sull'affittuario. Cosicché o non graverà mai sui creditori concorsuali (nel caso in cui il contratto di affitto sia stato stipulato prima dell'apertura della procedura di concordato) oppure cesserà di gravare sui creditori concorsuali dal momento in cui, nell'ambito del concordato, sarà stipulato il contratto di affitto.
È facile considerare, del resto, che nessuna questione sulla continuità aziendale in concreto potrebbe porsi qualora l'azienda fosse affittata. Infatti, in virtù del contratto di affitto, l'azienda è restituita al mercato; è condotta sotto la responsabilità dell'affittuario: il quale sopporta il relativo rischio d'impresa. Non sarebbero prospettabili, nemmeno in tesi, norme di favore quali quelle previste dalla legge fallimentare con riguardo alla continuità aziendale, di cui mai potrebbe giovarsi non l'imprenditore in procedura bensì un soggetto estraneo alla procedura medesima. E questo non soltanto perché in tal modo si altererebbero le condizioni date del mercato, consentendo indebiti vantaggi differenziali ad un operatore rispetto a tutti gli altri operatori che operano a parità di condizioni; ma anche perché, perlopiù, lo stesso affittuario non sarebbe nemmeno interessato ad avvantaggiarsi di tali regole, previste infatti appositamente per imprenditori in procedura. Ovviamente, all'applicazione di tali regole non sarebbe nemmeno interessato l'imprenditore in procedura, giacché quelle stesse regole sono relative alla conduzione di una azienda che egli non sta conducendo.
In conclusione, poiché l'unico problema posto dalla continuità aziendale è nella sopportazione del rischio d'impresa da parte dei creditori concorsuali, tutte le volte che questo rischio di impresa non è sopportato o non è più sopportato dai creditori concorsuali, non si pone questione di continuità aziendale.
Con riguardo al contratto di affitto, possiamo allora dire che continuità aziendale e affitto di azienda si pongono in un rapporto di reciproca esclusione: dove vi è continuità aziendale non può esservi affitto di azienda; dove vi è affitto di azienda non può esservi continuità aziendale.

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