L'art. 24, comma 1, della L. 223 del 1991 stabilisce che si intende come licenziamento collettivo il recesso operato dal datore di lavoro che occupa più di quindici dipendenti in conseguenza di una riduzione o trasformazione dell'attività o di lavoro, quando i licenziamenti siano almeno cinque nell'arco di centoventi giorni in ciascuna unità produttiva o in più unità nell'ambito del territorio di una stessa provincia.
Il secondo comma del predetto articolo estende la nozione di licenziamento collettivo, fermo restando i requisiti dimensionali sopra richiamati, anche alle ipotesi di cessazione d'attività.
L'interpretazione della norma in ipotesi di procedure concorsuali ha dato luogo, da un lato, ad un vasto e complesso dibattito dottrinario e, dall'altro, ad una serie di decisioni giurisprudenziali che andremo ad esaminare.
Parte della dottrina, anche autorevole (v. in particolare gli interventi di Caiafa) ha sostenuto, e continua a sostenere, che il Curatore, quando procede al licenziamento totale delle maestranze, non sarebbe tenuto ad osservare il procedimento disciplinato dagli artt. 4 e 24 della L. 223 del 1991.
Secondo tale impostazione, la procedura di fatto troverebbe applicazione solo in presenza di un'impresa attiva, intenzionata a tornare e/o a rimanere sul mercato, e non dovrebbe, viceversa, riguardare il caso delle procedure concorsuali, non essendovi alcuna prosecuzione dell'attività.
Secondo tale orientamento, quindi, i licenziamenti dovrebbero considerarsi sempre come licenziamenti individuali e non collettivi, con conseguente applicazione dell'art. 3 della L. 604 del 1966.
Tale orientamento era stato positivamente accolto dalla Suprema Corte (fra le altre, Cass. 3 ottobre 1966, n. 8670 e Cass. 12 maggio 1997 n. 4146), che aveva escluso l'applicabilità dell'art. 24 della L. 223 del 1991 in ipotesi di cessazione d'attività.
Altra parte della dottrina (Alleva, Corrado, Tatarelli) ha invece sostenuto che il Curatore debba sempre procedere ai sensi della L. 223 del 1991 e che non vi sia sostanzialmente alcuna differenza tra licenziamenti operati da società in bonis e licenziamenti operati dal Curatore.
Sempre secondo tale orientamento, non vi è motivo alcuno per non svolgere l'esame congiunto, in quanto lo scopo del legislatore è quello di conservare il più possibile i livelli occupazionali.
Tale orientamento dottrinario ha trovato positivo accoglimento nella giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 27 aprile 2004 n. 8047; Cass. 8 luglio 2004 n. 12645 e Cass. 2 marzo 2009 n. 5033).
L'orientamento giurisprudenziale, ribadito ancora da ultimo nella recente sentenza della Cassazione del 23 settembre 2011 n. 19406, trova origine in queste convincenti motivazioni:
a) anche dopo il fallimento, l'azienda nella sua unitarietà sopravvive, e, nel suo ambito, anche il rapporto di lavoro;
b) la sopravvivenza del rapporto di lavoro sussiste anche nell'ipotesi di cessazione dell'attività imprenditoriale, pur risultando (in modo contingente) impossibile la materiale reintegrazione nel posto di lavoro;
c) la perdurante vigenza del rapporto, pur in stato di quiescenza, rende potenzialmente ipotizzabile la futura ripresa dell'attività lavorativa, per iniziativa del Curatore o con successivo provvedimento del Tribunale fallimentare (per es. con l'esercizio provvisorio) o anche con la cessione dell'azienda.
Il recente orientamento della Suprema Corte, che certamente pare consolidare l'applicazione della normativa generale sui licenziamenti anche nell'ambito fallimentare, fa ritenere quindi obbligatorio per il Curatore l'assolvimento della procedura dettata dall'art. 24 della L. 223 del 1991. L'obbligo e la funzione del confronto con le rappresentanze sindacali non viene meno nell'ambito della procedura concorsuale, anche in considerazione dell'obbligatorietà (invero ancora discussa, vedi mio precedente intervento sul blog, Assunzione di lavoratori in mobilità e benefici contributivi) dell'intervento della cassa integrazione speciale ai sensi dell'art. 3 della L. 223 del 1991 prima di procedere ai licenziamenti collettivi.