Cass. Civ. - Sez. I - 16 dicembre 2013, n. 28015
L'amministratore di una s.r.l. ricorre avverso la sentenza della Corte d'Appello con la quale sono stati ritenuti infondati i motivi addotti a sostegno del suo reclamo contro la dichiarazione di fallimento della società.
In particolare, il ricorrente lamenta che vi sia stata una distorta applicazione delle norme codicistiche in tema di consorzio (artt. 2602 e 2612 ss. c.c.) le quali prevedono un'equiparazione del consorzio all'imprenditore commerciale qualora il primo svolga un'attività rivolta a terzi e, quindi, la sua assoggettabilità a fallimento qualora ne ricorrano i presupposti dimensionali e lo stato di insolvenza richiesti dagli artt. 1 e 5 l. fall..
A fondamento del ricorso, l'amministratore assume che l'attività rivolta verso terzi non deve essere valutata sulla base dell'astratta previsione statutaria, ma sull'effettivo svolgimento di un'attività verso soggetti estranei al consorzio.
I giudici di legittimità rigettano il ricorso affermando che un consorzio è assoggettabile alla disciplina delle società che svolgono un'attività commerciale indipendentemente dall'effettivo esercizio di una siffatta attività, in quanto le società acquistano la qualità di imprenditore commerciale dal momento della loro costituzione, non dall'inizio del concreto esercizio dell'attività d'impresa, al contrario di quanto avviene per l'imprenditore commerciale individuale.
Ciò significa che, se nell'atto costitutivo è previsto che venga esercitata un'attività verso terzi, è applicabile la normativa del fallimento, a prescindere dal fatto che l'attività sia realmente svolta o meno.
È sufficiente la previsione nell'oggetto sociale di un'attività rivolta a terzi perché il consorzio con attività esterna sia ex se imprenditore è quindi, in quanto tale, soggetto a fallimento.
Non sono però fallibili i consorziati: essi, infatti, non sono illimitatamente responsabili rispetto alle obbligazioni assunte in nome del consorzio e di conseguenza, come chiaramente recita l'art. 2615 c.c., “i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo consortile”.
Il tema non è nuovo per i Giudici di legittimità, i quali si erano già espressi negli stessi termini sulla questione dell'applicazione del fallimento a consorzi con attività esterna che “costituiscono centri d'imputazione di rapporti giuridici, autonomi rispetto alle imprese consorziate” (Cass. n. 2503/1993).
Una simile conclusione si ricava dalla speciale disciplina dettata per tali consorzi, che attiene sia alla previsione di un sistema di pubblicità legale (art. 2612 c.c.), in funzione delle informazioni dei terzi circa la struttura organizzativa del consorzio; sia alla rappresentanza in giudizio (art. 2613 c.c.), al fondo comune (art. 2614 c.c.) e, soprattutto, alla responsabilità verso terzi (art. 2615 c.c.). Anzi, è proprio tale ultima previsione (come modificata dall'art. 3 l. n. 377/1976) che, sancendo l'esclusiva responsabilità del consorzio con attività esterna per le obbligazioni assunte in suo nome, ha condotto un'autorevole dottrina a prospettare addirittura un'autonomia patrimoniale perfetta dell'istituto.
Inoltre, l'assimilazione operata dall'art. 2615-bis c.c alla società per azioni rafforza la tesi della Corte per cui “siffatti consorzi sono entità giuridiche, autonome rispetto alle imprese consorziate, nonché portatrici di interessi e posizioni giuridiche soggettive, distinti da quelli delle imprese stesse”.
Nel caso concreto sottoposto alla S.Corte il ricorso è stato quindi rigettato in quanto le norme statutarie contenevano l'espressa previsione di un'attività esterna come parte dell'oggetto sociale.