Speciale Decreto Sviluppo-bis - I reati nelle procedure concorsuali dei “non fallibili”
21 Dicembre 2012
La normativa di cui alla legge 3/2012 , novellata dal c.d. Decreto Sviluppo-bis ( d.l. n. 179/2012 , conv. in legge n. 221/2012 ), stabilisce al suo art. 16 le condotte passibili di sanzioni penali.
Le fattispecie di reato introdotte sono, nel vero, plurime ed attengono a condotte riferibili non solo al debitore non fallibile, ma anche al componente dell'organismo di composizione della crisi o al professionista, di cui all'art. 15 comma 9, che dell'organismo di composizione esercita compiti e funzioni.
Costruito in termini residuali (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), il novellato art. 16, comma 1, della citata legge 3/2012 punisce con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 1.000 a 50.000 euro il debitore che:
“a) al fine di ottenere l'accesso alla procedura di composizione della crisi di cui alla sezione prima del presente capo aumenta o diminuisce il passivo ovvero sottrae o dissimula una parte rilevante dell'attivo ovvero dolosamente simula attività inesistenti; b) al fine di ottenere l'accesso alle procedure di cui alle sezioni prima e seconda del presente capo, produce documentazione contraffatta o alterata, ovvero sottrae, occulta o distrugge, in tutto o in parte, la documentazione relativa alla propria situazione debitoria ovvero la propria documentazione contabile; c) omette l'indicazione di beni nell'inventario di cui all'articolo 14-ter, comma 3; d) nel corso della procedura di cui alla sezione prima del presente capo, effettua pagamenti in violazione dell'accordo o del piano del consumatore; e) dopo il deposito della proposta di accordo o di piano del consumatore, e per tutta la durata della procedura, aggrava la sua posizione debitoria; f) intenzionalmente non rispetta i contenuti dell'accordo o del piano del consumatore.”
Sono stati codificati, in buona sostanza, i fatti di bancarotta del debitore “non fallibile”, sovrapponendoli in buona misura alle fattispecie delittuose disciplinate dalla legge fallimentare .
Dunque il legislatore, nell'intento di istituire e normare un procedimento di carattere civilistico afferente i soggetti che per disposizione di legge non potevano accedere ad una procedura concorsuale classica, specularmente istituisce ipotesi di reato idonee a contrastare condotte fraudolente potenzialmente emergenti dalla regolazione della crisi da sovraindebitamento.
Tale aspetto conferma un preciso intento legislativo: la previsione di una normativa preposta alla risoluzione della crisi di tali soggetti assoggettata ad ipotesi di reato solo parzialmente sovrapponibili a quelle previsti dagli artt. 216 e seguenti della legge fallimentare .
Così, l'art. 16, comma 1, lett. a), parallelamente alla previsione di cui all' art. 216, comma 1, n. 1, l. fall ., punisce i fatti di bancarotta fraudolenta del debitore che, allo scopo di ottenere l'accesso alla procedura di composizione attraverso la proposta di un accordo e/o di un piano del consumatore, alternativamente aumenta o diminuisce il passivo, ovvero sottrae o dissimula una parte rilevante dell'attivo, ovvero dolosamente simula attività inesistenti.
Lo scopo dell'agire delittuoso (al fine di ottenere l'accesso alla procedura) rappresenta una chiara esplicitazione del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice e vale già ad evidenziare una differenza sostanziale con le fattispecie di bancarotta fraudolenta di cui alla legge fallimentare , atteso che queste ultime sono sorrette da un intento fraudolento diretto in via immediata alla massa dei creditori, anche con il fine di scongiurare e/o ritardare l'accesso alla procedura concorsuale; procedura che, invece, rappresenta il primo obiettivo dell'agire illecito del debitore/consumatore e che, quindi, parrebbe essere inteso dal Legislatore non come un momento di garanzia per i creditori, bensì come uno strumento di possibile pregiudizio per le loro ragioni.
È evidente già da una prima lettura della norma che gli interessi a tutelarsi sono ben diversi.
Ai fini degli effetti pratici che produrrà la norma, aumentare o diminuire il passivo allo scopo di accedere all'accordo e/o al piano di ristrutturazione è condotta che, così formulata, lascia non poche incertezze interpretative, laddove non sia connotata da un quid pluris che ne determini il carattere fraudolento e/o di pregiudizio per i creditori. Né si può ritenere che il dolo specifico richiesto espliciti - anche - il grado di consapevolezza della propria condizione di disavanzo: questo, infatti, se può dare giustificazione della punizione di chi, pur nella consapevolezza del proprio dissesto, aumenta il proprio debito e, quindi, promuove la procedura di composizione, può giustificare assai meno la pena a carico di chi, invece, opera per ridurre la propria esposizione debitoria nella prospettiva di accedere all'accordo/piano di ristrutturazione.
Certo, la condotta di riduzione del debito in una condizione di insolvenza può delineare un pagamento preferenziale, ma non si comprende per quale ragione una condotta siffatta possa equipararsi, quoad poenam, alla condotta di chi aggrava il proprio disavanzo, da cui deriva certamente un maggior pregiudizio per i suoi creditori e, quindi, un più grave allarme.
Ad ogni buon conto, così come formulata, la norma punisce allo stesso modo chi riduce il proprio debito in vista di un accordo e chi, invece, con il medesimo fine, lo accresce.
In tal senso sarebbe apparso opportuno che il Legislatore, in sede di conversione, diversificasse le due distinte fattispecie, che, si ribadisce, paiono gravate da differenti indici di disvalore tali da non giustificare una sostanziale assimilazione delle pene.
Assai più chiara è, invece, la fattispecie delittuosa configurata a carico di chi sottrae o dissimula una parte rilevante dell'attivo ovvero dolosamente simula attività inesistenti. Il fine dell'agire è sempre quello dell'accesso alla procedura di composizione, ma le condotte in danno (sottrae) o in frode (dissimula o dolosamente simula) dei creditori appaiono certamente di più efficace applicazione.
Stupisce che la condotta simulatoria, a differenza di quella dissimulatoria, venga specificata dal termine dolosamente, quasi a voler disegnare per la prima la necessità di un momento soggettivo ulteriore e diverso rispetto alla seconda. Se così è, come appare dalla lettera della legge, deve ritenersi che il momento della simulazione dell'attivo, perché questa sia punita, debba essere sostenuto da un momento volitivo connotato da fraudolenza. Difficile, tuttavia, ipotizzare una messa in scena, ovvero un finzione (una simulazione appunto), non configurabile come il reato de quo, perché non caratterizzata dal proposito di voler ingannare il prossimo.
La sottrazione dell'attivo o la sua dissimulazione, per assurgere a reato, deve interessare una parte rilevante del patrimonio. Tale specificazione, se da un lato trova la propria ragion d'essere nella necessità (ed opportunità) di concentrare il momento punitivo solo sui fatti di maggior rilevanza, lascia un tale margine di discrezionalità all'interprete da inficiare il requisito della determinatezza della fattispecie. Neppure è dato sapere se il canone della rilevanza debba essere inteso in termini assoluti, ovvero relativi, con riguardo all'entità delle poste attive e passive di ciascun debitore/consumatore. Ne deriva un'incertezza interpretativa che solo la pratica giurisprudenziale potrà tentare di risolvere nel concreto e che, verosimilmente, qualificherà come rilevanti soltanto quelle condotte che rendano concreto il pericolo di offesa del bene giuridico protetto.
L'ipotesi di reato di cui alla lett. b) dell' art. 16 L. n. 3/2012 , poi, rappresenta un'ipotesi di bancarotta documentale, parallelamente a quanto previsto dall' art. 216, comma 1, n. 2, l. fall .
Le condotte di contraffazione ed alterazione sono quelle tipiche delle fattispecie di falso, la cui materialità esecutiva è nota: si ha contraffazione allorché si falsifica un documento riproducendolo ad imitazione di quello vero, mentre l'alterazione ha per oggetto lo stesso documento originale, che viene falsificato mediante modifica e manipolazione dello stesso.
Ugualmente, la condotta di chi sottrae, nasconde o distrugge, in tutto o in parte, “la documentazione relativa alla propria situazione debitoria ovvero la propria documentazione contabile” offre all'interprete una definizione chiara dei comportamenti da perseguire.
I problemi applicativi, tuttavia, nascono allorché si deve individuare l'oggetto su cui ricade il comportamento illecito, ovvero il documento. A differenza di quanto previsto per l'imprenditore e per le società, non vi sono, per il debitore/consumatore, libri o scritture contabili specificamente indicati dal codice civile o da altre norme di legge, che possano essere assunti ad oggetto materiale del reato. Dal tenore della lettera, si deve ritenere che l'oggetto materiale del reato de quo debba individuarsi in qualsivoglia documento idoneo a fornire indicazione circa le posizioni debitorie o la situazione contabile del debitore/consumatore, dall'estratto conto bancario al contratto di finanziamento, e, per esagerare, dal conto del droghiere ai bollettini contributivi della badante.
Si deve evidenziare la previsione del dolo specifico anche con riferimento a tale fattispecie delittuosa, con le due finalità, alternative tra loro, dell'accesso alla procedura di composizione della crisi, di cui alla sezione prima del capo II, ovvero alla procedura di liquidazione del patrimonio, di cui alla sezione seconda del medesimo capo.
Anche l'ipotesi delittuosa di cui alla lett. c) dell'articolato normativo in commento attiene alla procedura liquidatoria di cui alla sezione seconda del capo II della L. 3/2012 , poiché punisce la condotta di chi “omette l'indicazione di beni nell'inventario di cui all'articolo 14-ter, comma 3”. Si tratta di fattispecie che, se da un lato, appare sovrapponibile all'ipotesi di chi sottrae occultando o dissimulando una parte del suo attivo, ai sensi dell'art. 16 lett. a) già citato, dall'altro lato se ne distingue e non di poco. Infatti, la norma in questione non richiede alcuna direzione del dolo ulteriore rispetto alla volontà omissiva; è costruita in termini di condotta omissiva propria e, pertanto, non occorre alcuna attività dissimulatoria perché ne sia integrata la fattispecie; l'oggetto materiale dell'omissione riguarda sic et simpliciter i beni, a prescindere dalla loro rilevanza.
Non si comprende appieno la ragione di una tale maggiore severità della disciplina dettata in tema di liquidazione del patrimonio, rispetto a quanto previsto in materia di accordi o piani di ristrutturazione dalla lett. a) dell'art. 16 in esame. Appare plausibile, tuttavia, pensare che il Legislatore abbia inteso come di maggior favore per il debitore (con il quale assumere, quindi, una maggiore severità) la procedura di esdebitazione attraverso la liquidazione del propri beni, rispetto a quella dell'accordo o del piano di ristrutturazione, perché in concreto può risolversi in una ben magra soddisfazione per i creditori. Se è vero che non aiuta la chiarezza il fatto che, tra le cause di revocabilità del provvedimento di esdebitazione, sia ricompresa solamente la dissimulazione di una parte rilevante dell'attivo e non anche l'omessa indicazione di un bene in inventario, ai sensi dell'art. 14-terdecies, comma 5, lett. b), non si può non sottolineare che la condanna definitiva per uno dei reati di cui all' art. 16 L. 3/2012 rappresenta condizione di inammissibilità per il debitore alla liberazione dei debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, giusta quanto sancito dal medesimo art. 14-terdecies, comma 1, lett. d).
Rimane da osservare come, qualora l'omissione non venga scoperta (ed accertata in via definitiva) prima del provvedimento di esdebitazione, lo stesso non sarà revocabile per la mera omessa indicazione di un bene nell'inventario, atteso che l'ipotesi non rientra tra quelle espressamente previste dalla legge. Salvo che - e ciò rappresenta una sicura anomalia - la stessa omissione sia stata operata per favorire un creditore in danno degli altri, secondo quanto stabilisce il combinato disposto dei commi 2, lett. b), e 5, lett. a), del citato art. 14-terdecies.
Una sorta di bancarotta preferenziale è prevista alla lettera d) dell'articolato in esame, che punisce il debitore/consumatore che, nel corso della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, effettua pagamenti in violazione dell'accordo o del piano del consumatore. La fattispecie delittuosa appare chiaramente descritta e rivolta a punire i comportamenti del debitore che pone in essere pagamenti difformemente da quanto previsto nel piano. Il pagamento difforme, secondo il disposto di cui all'art. art. 13, comma 4, è inefficace non in assoluto, ma relativamente ai creditori anteriori al momento in cui è stata eseguita la pubblicità di cui agli artt. 10, comma 2, e 12-bis, comma 3. Tale previsione giustifica un'interpretazione della fattispecie delittuosa in termini più restrittivi, laddove induce a ravvisare la sussistenza del reato solo in presenza di un pregiudizio nei confronti di quei creditori “anteriori” tutelati dalla previsione di inefficacia del pagamento.
Con riferimento al reato di cui alla lettera e), si sottolinea come lo stesso sia costruito in maniera residuale tale da ricomprendere qualsivoglia comportamento del debitore che, dopo il deposito della proposta di accordo o di piano del consumatore, e per tutta la durata della procedura, aggrava la sua posizione debitoria. La condotta di chi aggrava la propria posizione di debito non necessita di annotazioni ulteriori rispetto a quanto insegna il già consolidato indirizzo in tema fallimentare circa le condotte di aggravamento del dissesto. Certo, il periodo entro cui può realizzarsi l'illecito induce a ritenere che, nel concreto, i comportamenti punibili debbano individuarsi in quelli che producono forme di debito non essenziali rispetto alle necessità del quotidiano e, comunque, ulteriori e diverse rispetto a quanto previsto nel piano/accordo proposto.
Anche la condotta di reato di cui alla lettera f) appare chiaramente formulata. Certo, l'intensità del dolo richiesta dalla norma, ovvero l'intenzionalità di non rispettare i contenuti dell'accordo o del piano del consumatore, denota un intento chiaro del Legislatore rivolto a mitigare gli effetti di una punizione anticipata (propria dei reati di condotta, come quello in esame) con la previsione di un momento soggettivo univocamente diretto, così che la condotta sarà punibile solo qualora sia produttiva di un pericolo concreto alle ragioni dei creditori coinvolti nel procedimento di composizione della crisi.
In aggiunta alle ipotesi delittuose appena esaminate, anche precedendo la recente introduzione del falso dell'attestatore, la disciplina della crisi da sovraindebitamento del soggetto non fallibile introduce previsioni delittuose anche a carico dei soggetti/professionisti preposti a tutela del regolare svolgimento della procedura.
Così, il novellato art. 16, comma 2, L. 3/2012 punisce (con la reclusione da 1 a 3 anni e con la multa dal € 1.000 ad € 50.000), il componente dell'organismo di composizione, ovvero il professionista di cui all'art. 15, comma 9, legge citata, che “rende false attestazioni in ordine alla veridicità dei dati contenuti nella proposta o nei documenti ad essa allegati, alla fattibilità del piano di cui all'art. 9, comma 2, ovvero nella relazione di cui agli articoli 9, comma 3-bis, 12, comma 1 e 14-ter comma 3”.
Con riguardo alla fattispecie in esame, occorre osservare come la veridicità dei dati e dei documenti e la fattibilità del piano assumano maggiore rilievo addirittura con riguardo alla condotte illecite e fraudolente del debitore. Si deve ritenere che il reato de quo possa essere ricompreso tra quelli posti a tutela della fede pubblica, in ragione dell'affidamento di cui devono godere le relazioni che si rivolgono ad un ceto, quello creditorio, meritevole di adeguata protezione. Se non si ravvisano criticità in ordine all'ipotesi di attestazione false circa la veridicità dei dati contenuti nella proposta o nei documenti allegati, appare più problematico individuare il requisito del falso nell'ambito di una previsione di fattibilità, dove non viene richiesto al professionista (o componente dell'organismo di composizione) di accertare una verità storica e, dunque, oggettiva, bensì di esprimersi in termini di fattibilità, operando così valutazioni che, in quanto tali, non possono non distinguersi dalla verità storicamente intesa. In tale contesto, la condotta di attestare il falso è da ricercarsi non tanto negli aspetti valutativi dell'attività del professionista (o del componente dell'organismo di composizione), quanto piuttosto negli elementi e/o parametri su cui le medesime valutazioni (di fattibilità, di convenienza, di diligenza, ecc.) trovano la propria ragion d'essere.
Imporre la certezza della verità in materie di per sè opinabili, quali le valutazioni, andrebbe ad impedire la formulazione delle stesse che, invece, debbono trovare legittimità e giustificazione pur laddove si rivelino errate. Saranno la scienza e la coscienza del professionista a dettare determinate previsioni di fattibilità o valutazioni di idoneità, mentre saranno la veridicità e la completezza dei dati e dei parametri su cui quelle valutazioni basano la propria ragion d'essere a costituire il momento di verità su cui operare il controllo.
Il dolo richiesto dalla norma incriminatrice non consentirà certo di operare una revisione critica circa la diligenza, la prudenza o la perizia del professionista incaricato; eventuali responsabilità professionali colpose troveranno la loro sanzione in ambito civile.
Come ogni reato di falso, anche quello in parola, pure se proprio, può essere commesso da chiunque allorché si incorra nella figura dell'autore mediato, ai sensi dell' art. 48 c.p. Non si può escludere, dunque, che di quanto attestato dal professionista incaricato possa essere chiamato a rispondere di falso il terzo che, in forza del combinato disposto di cui all' art. 48 c.p. e 16, comma 2, L. 3/2012, abbia indotto in errore l'attestatore circa la verità e/o la completezza delle informazioni fornite.
L'ulteriore reato previsto dall'articolo in commento è dettato al comma 3 e punisce il professionista e/o il componente dell'organismo di composizione che “cagiona un danno ai creditori omettendo o rifiutando senza giustificato motivo un atto del suo ufficio”.
La fattispecie incriminatrice ricalca le ipotesi di cui all' art. 328 c.p. , non senza rilevanti differenze.
Così, se analoga appare la natura del bene giuridico protetto, individuabile anche in questo frangente nel buon andamento e funzionamento della procedura di esdebitazione, non si può non evidenziare la plurioffensività del reato in questione, laddove la tutela delle ragioni del ceto creditorio appare richiamata esplicitamente dalla costruzione dell'ipotesi delittuosa in termini di danno, e non di mero pericolo.
Due sono le ipotesi delittuose, una che attiene all'omissione e l'altra al rifiuto. Entrambe presuppongono l'esistenza di un onere di attivazione, un potere-dovere di agire con riguardo agli atti dovuti in ragione del proprio ufficio. L'atto d'ufficio comprende una vasta gamma di comportamenti, che tuttavia non possono esorbitare dall'ambito normativo in commento.
Requisito di sussistenza del delitto in parola è l'assenza di giustificazione, ovvero l'omissione ed il rifiuto non debbono trovare nessun giustificato motivo, nemmeno a livello putativo.
Il semplice ritardo non può configurare il reato di omissione e/o rifiuto, salvo che l'urgenza sostanziale dell'atto imponga di provvedere. |