Fallimento del debitore concordatario in assenza o nell’impossibilità di pronunziare la risoluzione del concordato

Danilo Galletti
29 Luglio 2015

Anche ove sia decorso il termine di cui all'art. 186 l. fall., il debitore concordatario che sia inadempiente può essere dichiarato fallito.

Anche ove sia decorso il termine di cui all'art. 186 l. fall., il debitore concordatario che sia inadempiente può essere dichiarato fallito.

L'art. 186 l. fall. non menziona più il fallimento come conseguenza della dichiarazione di risoluzione del concordato preventivo omologato; ciò, mi pare, comporti non soltanto che il fallimento nel caso indicato non possa più essere dichiarato ex officio (così di recente anche Cass., Sez. Un., n. 9934 del 2015), ma altresì che il Legislatore ha ritenuto di recidere il nesso di corrispondenza biunivoco, già assai discutibile per la verità nel passato regime, fra risoluzione e fallimento.
I creditori concorsuali, e gli altri legittimati, sono infatti ancora facoltizzati ad instare per il fallimento del debitore concordatario inadempiente, stante l'insolvenza di quest'ultimo, che non è in grado di adempiere integralmente alle proprie obbligazioni, e tantomeno di condurre a termine con successo la propria liquidazione, né concordataria né societaria.
Fra i legittimati, è il caso di dirlo, non figurano né il commissario né il liquidatore giudiziale, i quali tuttavia, soprattutto il primo, solo abilitati a segnalare la circostanza al giudice delegato ex art. 185 l. fall., oppure anche al Pubblico Ministero; va anche detto tuttavia che appare assai dubbio che il G.D. possa segnalare la situazione di insolvenza al PM ai sensi dell'art. 7 l. fall., dato che egli svolge nella fase esecutiva del concordato un ruolo di carattere più amministrativo che giurisdizionale, e l'insolvenza non parrebbe agevolmente, in tale eventualità, essere sorta nell'ambito di un “procedimento civile”; anche la legittimazione del PM d'altro canto, in caso di segnalazione diretta del Commissario, potrebbe essere contestata sulla base della tesi tradizionale, per cui egli potrebbe richiedere il fallimento non già in termini generali, ma solo quando l'esigenza emerga in uno dei casi contemplati dall'art. 7 l. fall.
L'orientamento giurisprudenziale del S.C., nei casi di impresa in liquidazione, ritiene poi come è noto di dover far ricorso ad un metodo di stampo patrimoniale, volto a verificare se l'attivo concretamente liquidabile sia idoneo in prospettiva a pagare tutti i debiti, posto che ormai l'impresa ha imboccato la strada verso la propria dissoluzione, e non vi sarebbero più motivi per valutarla come un organismo vitale e dinamico.
Lo stato di insolvenza in questi casi non può dirsi rimosso, ed anzi parrebbe predicabile comunque l'insorgere di una nuova insolvenza, rapportata alle passività della società scaturite e “conformate” dall'omologazione del concordato.
In contrario non può addursi la portata dell'art. 168 l. fall., posto che da un lato la norma non può più trovare applicazione dopo la chiusura della procedura che consegue all'omologa (cfr. in tal senso Cass., 17 aprile 2003, n. 6166; conf. di recente Trib. Milano, 17 dicembre 2012), e dall'altro essa non è reputata di ostacolo alla declaratoria di fallimento nemmeno nella stessa pendenza della procedura concordataria (v. di recente in tal senso Cass., Sez. Un., 15 maggio 2015, n. 9935).
L'impossibilità di agire esecutivamente sui beni del debitore dopo l'omologa consegue semmai alla ridefinizione dei termini di esigibilità dell'obbligazione, dal lato sostanziale dell'obbligazione, e viene pertanto meno quando il credito, scaduto il termine per l'adempimento concordatario, ridiventa esigibile.
Da nessuna norma sembra poi potersi evincere una rinunzia da parte dei creditori concordatari alla tutela esecutiva concorsuale (fallimentare). E non deve essere che un caso che la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 9935 del 2015 non menzioni appunto l'art. 186 l. fall. fra le norme che segnano il momento ove dal concordato preventivo si può passare, previo “esaurimento” della relativa fase, al fallimento.
Scopo del concordato del resto è la “regolazione della crisi del debitore”, e non già necessariamente ed indefettibilmente la sottrazione del debitore al fallimento, ciò che può corrispondere semmai ad un motivo meramente soggettivo di questi.
Dunque a mio avviso è possibile il fallimento del debitore concordatario inadempiente (ed anche, vale la pena di precisarlo, di quello che certo lo sarà in futuro: cfr. Cass., 31 marzo 2010, n. 7942) anche in assenza o nell'impossibilità della risoluzione del concordato ex art. 186 l. fall.
In senso contrario non può essere citata Corte Cost., 2 aprile 2004, n. 106, la quale costituisce una sentenza interpretativa di rigetto, che reputa anzi la soluzione proposta compatibile con il sistema.
In astratto sarebbe possibile altresì una nuova regolazione concordataria della crisi del debitore, non impedita da alcuna norma.
Problema differente è verificare se l'eventuale fallimento possa essere posto in regime di consecuzione col precedente concordato, per tutti gli effetti potenzialmente correlati.
Nonostante il lungo tempo trascorso, ritengo astrattamente possibile l'affermazione di tale effetto, qualora l'insolvenza oggi manifestatasi sia riconosciuta come coincidente, e semmai costituente l'aggravamento, di quella riscontrabile all'epoca del concordato.
Infatti la giurisprudenza fondava, e continua a fondare, l'istituto della prededuzione sulla medesimezza dello stato di insolvenza sottostante ad entrambe le procedure, non sulla continuità in senso processuale fra le stesse: può dunque esservi consecuzione fra due procedure concorsuali anche se fra le stesse intercorra un intervallo temporale.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.