La fusione posta in essere come esecuzione di un piano di concordato preventivo presuppone l'integrale applicazione della disciplina tipica, che ha sede nel diritto societario; non sono possibili “assorbimenti” di discipline speciali, ed in particolare del diritto di opposizione del creditore anteriore, per ritenute esigenze di “armonia” col diritto concorsuale.
Secondo un'impostazione diffusa fra gli operatori, il piano concordatario che preveda l'implementazione di una fusione che interessi la società in concordato non dovrebbe scontare il rischio dell'esercizio del potere di opposizione ai sensi dell'art. 2503 c.c. da parte dei creditori, quantomeno di quelli concorsuali.
Il rimedio infatti sarebbe “assorbito” dagli strumenti di tutela del concordato, ed in particolare dal potere di opporsi ai sensi dell'art. 180 l. fall.
In realtà, la capacità del diritto concorsuale di “assorbire” le tutele apprestate dal diritto societario appare assai scarsa, anche in forza dei vincoli derivanti dal diritto comunitario, ove i due universi ricevono sempre un trattamento differenziato.
Ciò a maggior ragione là dove il primo universo non sia in grado di soddisfare completamente le esigenze del secondo, così come avviene a mio avviso nella situazione in discorso.
E' da escludersi prima di tutto che possa ritenersi che il mancato esercizio del potere di opporsi al concordato comporti “rinunzia” all'opposizione alla fusione, o comunque comportamento incompatibile con la volontà di avvalersi della stessa. Di ciò potrebbe (forse, ma con molto scettiscismo) discutersi per il creditore che approvi espressamente il concordato, ma non certo per quello che resti del tutto silente, perché la valutazione di tale comportamento da parte del Legislatore come non di ostacolo all'approvazione del concordato non ha significato negoziale, ma solo procedimentale, e comunque non può essere ritenuto prova di una rinunzia a facoltà e situazioni soggettive non direttamente legate al procedimento di voto (si pensi alla stessa rinunzia all'ipoteca del creditore che voglia votare, che ha valore solo ai fini del procedimento), e dunque estranee alla dialettica dell'art. 184 l. fall.
Spesso infatti si dimentica che il procedimento di voto a maggioranza del concordato costituisce l'esplicazione di un potere privato, come tale eccezionale ed insuscettibile di essere esteso a situazioni non espressamente contemplate dalla Legge. E la legge del concordato non autorizza deroghe al principio della universale responsabilità patrimoniale, di cui all'art. 2740 c.c., che la fusione indubbiamente comporta.
Nessuna deroga all'art. 2740 c.c. è contenuta in realtà nemmeno in alcune situazioni concordatarie cui viene talvolta attribuita a mio parere erroneamente tale “virtù”: ad es. nel concordato in continuità, ove la cessione dei beni non funzionali alla continuazione dell'esercizio dell'impresa può alimentare tanto i flussi destinati al pagamento dei creditori concorsuali quanto della continuità, ed i beni impiegati in quest'ultima non sembrano affatto sottratti all'azione esecutiva dei creditori del concordato, soltanto ove si pensi all'eventualità in cui si manifesti l'inadempimento alla proposta; il fatto che tali beni si modifichino nel tempo, in forza dell'esercizio dell'impresa, e vengano sostituiti da altri non è contrario all'art. 2740 c.c., e anzi ne rispetta la vocazione “universale”; la stessa cosa del resto si afferma persino a proposito dei patrimoni separati (che invece costituiscono deroga all'art. 2740 c.c.) in forza di un fenomeno di surrogazione reale, ben noto alla tradizione civilistica delle segregazioni patrimoniali.
Inoltre il creditore che si oppone alla fusione (e che adisca il Tribunale delle Imprese) deduce che l'attuazione della stessa possa pregiudicarlo: contesta dunque in primis la convenienza dell'operazione, e potenzialmente anche la fattibilità in senso pieno (comprensiva di quella “economica”) della stessa (la fattibilità dell'operazione, infatti, è un presupposto fattuale imprescindibile della stessa).
Il creditore concorsuale invece, alla luce dell'attuale orientamento della Suprema Corte sembra poter contestare con l'opposizione ex art. 180 l. fall. (esperibile avanti il Tribunale fallimentare) la sola fattibilità “giuridica” dell'operazione.
Dunque non vi è sovrapposizione fra l'ambito della cognizione nei due rimedi, ed è da escludersi che la tutela meno ampia possa assorbire l'altra.
Gli argomenti fatti valere in senso contrario non appaiono neppure convincenti: non certo quello relativo agli obbligazionisti, i quali sono chiamati ad approvare il concordato nella loro assemblea pur a maggioranza, posto che questa norma (art. 2503-bis) promana proprio dal diritto societario, e si fonda sulla preesistenza al concordato di una comunità di interessi non “episodica”, che nasce con la stessa emissione del prestito. Non se ne può dunque ricavare la conclusione per cui, in qualsiasi altro caso in cui la fusione sia comunque implicata in una vicenda, esterna al diritto societario, che comporti un voto a maggioranza, il potere di opposizione ne resti “assorbito”.
Il problema può essere mitigato attraverso la anticipazione, già nel corso della procedura concordataria, della delibera assembleare di approvazione del progetto di fusione, espressamente condizionata all'omologa, sul presupposto (non del tutto pacifico per la verità) che ciò comporti la possibilità di far decorrere il termine per l'opposizione ex art. 2503 c.c.
Diversamente, la prospettiva dell'esercizio vittorioso dell'opposizione alla fusione costituirà un tema di fattibilità del concordato.
Anche la facoltà per il debitore di pagare il creditore opponente (art. 2503 c.c.), al fine di ottenere il rigetto dell'opposizione, dovrà essere autorizzato dal Tribunale fallimentare, siccome pagamento di un debito pregresso, senza alcuna possibilità di “assorbimento”.
Ed è dubbio persino che la approvazione assembleare del progetto di fusione sia sottratta al potere autorizzativo del Tribunale fallimentare, se ed in quanto si ritengano poi obbligati gli amministratori alla stipula dell'atto di fusione, posto che l'atto, pur riguardando formalmente l'organizzazione della società e non dell'impresa, sarebbe allora potenzialmente modificativo del patrimonio del debitore concordatario (anche se normalmente la delibera sarà condizionata all'omologa, e dunque normalmente non soggetta ad autorizzazione).