Codice di Procedura Penale art. 200 - Segreto professionale.Segreto professionale. 1. Non possono essere obbligati a deporre [245 2c trans.] su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria [331, 334]: a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano; b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici [222 4 coord.] e i notai (1); c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria; d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale (2). 2. Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga. 3. Le disposizioni previste dai commi 1 e 2 si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell'albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell'esercizio della loro professione [195 7]. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l'identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni. (1) Lettera così sostituita dall'art. 4 l. 7 dicembre 2000, n. 397. (2) Per i consulenti del lavoro, v. art. 6 l. 11 gennaio 1979, n. 12; per i dottori commercialisti, i ragionieri e i periti commerciali, v. art. 1 l. 5 dicembre 1987, n. 507; per i dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze, v. art. 120 7 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; per i giornalisti e gli editori v. art. 2 l. 3 febbraio 1963, n. 69; per gli assistenti sociali v. art. 1 l. 3 aprile 2001, n. 119. InquadramentoL’art. 200 c.p.p. introduce una eccezione all’obbligo della testimonianza riconoscendo la prevalenza dell’interesse al “segreto professionale” di appartenenti a determinate categorie; tali soggetti, quindi, hanno la facoltà di astenersi dal testimoniare su “quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione”. Si tratta tendenzialmente di notizie assunte nel contesto di rapporti fiduciari/riservati finalizzati all’esercizio delle rispettive attività, con esclusione delle notizie che, invece, rientrano nel segreto di ufficio, disciplinate dal successivo art. 201. La precisazione è necessaria perché taluni dei soggetti di cui all’elenco dell’articolo in esame (i notai) possono essere pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio per parte almeno delle proprie attività. La disposizione prevede espressamente alcune categorie (lettere a, b e c e comma 3) a tutela, evidentemente, di diritti fondamentali quali la libertà e segretezza nell’ambito dello svolgimento del diritto di difesa, la libertà religiosa, il diritto alla salute, il diritto alla informazione e libertà. Ma fa anche riferimento a “esercenti altri uffici o professioni” cui la legge può riconoscere il segreto professionale, rimettendosi alle norme extra penali di riferimento del singolo settore; in tal caso, non si individua nella disposizione in esame quali possano essere gli interessi superiori che possano rendere recessivo il diritto alla prova. La formulazione della disposizione, comunque, consente di individuare con certezza i soggetti che hanno diritto all’astensione, salve le ipotesi in cui agli stessi siano imposto un particolare obbligo (come l’obbligo di referto per gli esercenti le professioni sanitarie). La norma riconosce la facoltà dei vari soggetti di non deporre ma, una volta che abbiano inteso rendere testimonianza, valgono nei loro confronti i comuni obblighi di verità e completezza. In particolare: - la disposizione non è una regola probatoria ma è una forma di tutela dei vari soggetti, in ragione del rilievo riconosciuto alla loro attività; quindi, il suo mancato rispetto non produce inutilizzabilità (Cass. VI, n. 15003/2013; Cass. S.U., n. 15208/2010 nel particolare caso del soggetto sentito per rogatoria all’estero ove la lex loci non prevedeva la facoltà di astensione). Si veda, nel commento all’art. 201, la diversità rispetto alla previsione del segreto di ufficio; – il segreto non rileva nell’intesse della amministrazione della giustizia; quindi, la sussistenza delle ragioni dell’astensione non può essere rilevata dal giudice ma deve essere eccepita dal soggetto chiamato a deporre. Né il giudice deve avvisare la parte della sua facoltà, come si desume dal silenzio della disposizione rispetto, invece, alla previsione dell’articolo 199, comma 2, c.p.p. che impone l’avviso ai congiunti dell’imputato della loro facoltà di astensione (Cass. VI, n. 9866/2009 rileva che è una ragionevole scelta normativa perché si presuppone che i titolari del segreto professionale, soggetti qualificati, siano a conoscenza dell’ambito delle loro facoltà); – ai fini del processo penale rileva solo il contenuto dell’art. 200 c.p.p., che prevede la “facoltà” di astensione e, quindi, non hanno rilievo le eventuali diverse regole previste dai singoli ordinamenti professionali laddove prevedano l’obbligo di astenersi dal deporre: in tali casi, “la scelta di non opporre il segreto professionale rileva, eventualmente, soltanto sotto un profilo deontologico” (Cass. II, n. 22954/2017) ma non inciderà sulla validità della deposizione; – la facoltà di astensione è posta a tutela del professionista/ministro del culto etc. e non dei soggetti nel cui interesse è svolta la loro attività. Si è affermato, difatti, che la facoltà di astenersi permane anche laddove la parte assistita abbia dato il consenso alla testimonianza (Cass. I, n. 46207/2021 in un caso di rapporto fra imputato e suo difensore). In ragione del riconoscimento del diritto al segreto in favore dei soggetti indicati nell’art. 200 c.p.p. altre disposizioni del codice impediscono che tale segreto possa essere violato indirettamente. In particolare: – l’art. 195, comma 6, c.p.p., stabilisce che i testimoni non possono essere esaminati su fatti comunque appresi dalle persone indicate nell’art. 200 c.p.p. – l’art. 256, c.p.p. (dovere di esibizione e segreti) prevede che le persone indicate nell’art. 200 c.p.p. in sede di perquisizione possano rifiutare la consegna di documenti etc. per i quali vi è segreto professionale, dichiarandolo per iscritto, con una previsione di verifica da parte della A.g. delle condizioni per il rifiuto. – l’art. 271, comma 2, c.p.p. prevede la assoluta inutilizzabilità delle intercettazioni di comunicazioni delle persone indicate nell’art. 200 c.p.p. quando hanno ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro “ufficio o professione”. Gli artt. 195 e 271 c.p.p., non prevedono che il titolare del segreto possa dichiarare la sua volontà di non avvalersi del segreto; la ragione evidente di tale scelta è nel fatto che, una volta individuato, tale soggetto potrà essere chiamato a testimoniare e, in tale sede, decidere di non avvalersi della facoltà. Ciò non è però possibile nel caso in cui sia impossibile sentirlo, per irreperibilità, morte etc.; per tale caso, le norme degli artt. 195, comma 6, e 281, comma 2, c.p.p. rendono prevalente la tutela del segreto. I soggettiL'elenco dei soggetti individuati espressamente dalla disposizione non pone particolari difficoltà per la loro individuazione, salvo quanto dopo si dirà in tema di “ministri” della religione cattolico romana. Avvocati, medici, farmacisti, ostetriche ed esercenti professioni sanitarie , sono chiaramente individuati dalle normative di riferimento. La Corte costituzionale, sentenza n. 87/1997, ha ritenuto che la tutela del segreto professionale in materia di attività difensiva riguardi anche il praticante avvocato legittimato a compiere atti propri della professione, trattandosi di una tutela oggettiva della attività e non solo della persona esercente la professione. L'argomento, invero, appare riferibile anche ad altre categorie professionali. Gli investigatori privati sono individuati dagli artt. 134 e ss. T.U. n. 773/1931 nonché dall'art. 222 disp. att. c.p.p. quanto ai soggetti autorizzati a svolgere indagini difensive. La giurisprudenza estende la tutela anche agli investigatori stranieri autorizzati secondo l'ordinamento del proprio Paese, sempre che esistano disposizioni pattizie relative al riconoscimento del titolo (Cass. VI, n. 7387/2005, in riferimento alla Svizzera). Quanto ai soggetti per i quali vale il richiamo agli ordinamenti di riferimento, tra i vari, vi sono, tra gli altri, i dottori commercialisti ex art. 5 del d.lgs. n. 139 del 2005 (Cass. II, n. 46588/2017) e i consulenti del lavoro ex art. 6. l. n. 12 del 1979 – le cui norme di riferimento sembrano prevedere l'obbligo di astensione, nel senso sopra indicato – i mediatori nelle controversie civili, art. 10 d.lgs. n. 28/2010, per i quali la disposizione è nel senso della facoltatività. Di interesse per il processo penale, con la previsione ex art. 52, d.lgs n. 150/2022, della “Tutela del segreto” del mediatore del programma di giustizia riparativa per il quale, pur essendo riconosciuta la facoltà dell'art. 200 c.p.p., vi è la previsione particolare che, pur se di regola “non può essere obbligato a deporre davanti all'autorità giudiziaria né a rendere dichiarazioni davanti ad altra autorità sugli atti compiuti, sui contenuti dell'attività svolta, nonché sulle dichiarazioni rese dai partecipanti e sulle informazioni apprese per ragione o nel corso del programma di giustizia riparativa”, a parte il caso di assoluta necessità “per evitare la commissione di imminenti o gravi reati” non ha più tale possibilità di astensione laddove “vi sia il consenso dei partecipanti”. Tale ultima previsione, ragionevolmente da intendere come consenso di entrambe le parti in causa, sembra caratterizzare in modo particolare tale ipotesi, considerato che, come si è detto, per l'avvocato si è escluso che possa perdere la sostanziale immunità per volontà del suo cliente. In relazione ai ministri di confessioni religiose, la norma lascia al giudice la verifica che i relativi “statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano”. Non vi è casistica nota per religioni diverse da quella cristiano cattolica. Quanto a quest'ultima, innanzitutto si pone di quali siano i “ministri”; questi possono essere individuati in base all'art. 4 n. 4 dell'accordo tra la Repubblica italiana e la Santa Sede del 18 febbraio 1984, recepito con l. 25 marzo 1985, n. 121 (“I sacerdoti, i diaconi ed i religiosi che hanno emesso i voti”). Per costoro (e in generale per i ministri di confessioni religiose) l'ambito del segreto non è ricollegabile ad un rapporto fiduciario con un singolo interessato; nella scarna giurisprudenza al riguardo, Cass. VI, n. 6912/2017 rileva come non sia oggetto del segreto solo quanto appreso nel sacramento della confessione, ma tutte le notizie acquisite nell'ambito delle attività connesse all'esercizio del ministero religioso. Si deve, però, trattare di attività strettamente religiose e non le più ampie attività definibili “sociali” pure svolte spesso da ministri del culto (il caso particolare riguardava l'esclusione del segreto su informazioni apprese da una giovane, vittima di violenza, che si era rivolta ad un sacerdote per sostegno morale). Inoltre, è stata esclusa la natura di attività religiosa per il giudice ecclesiastico in quanto esercita una attività “laica” attribuita a persone che abbiano conoscenza tecnica del diritto canonico e capacità di applicazione in concreto delle norme processuali (Cass. V, n. 7387/2005). Il controllo del giudice sulla fondatezza della dichiarazione di astensione
La norma prevede mezzi sostanzialmente liberi per accertare la insussistenza delle condizioni per la astensione, per cui può anche utilizzare semplici argomenti logici. Si tratta di una valutazione assolutamente discrezionale e non sottoposta a verifica in quanto si esclude la ricorribilità per cassazione e qualsiasi forma di impugnazione del provvedimento con cui il giudice, avendo escluso il segreto professionale, ordini al testimone di deporre (Cass. VI. n. 7440/2017). Il segreto delle fonti giornalisticheIn conformità all'ordinamento professionale dei giornalisti (l'art. 2 l. n. 69/1963, “Ordinamento della professione di giornalista” prevede che “giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse”), l'art. 200 c.p.p. tutela i “giornalisti professionisti iscritti nell'albo professionale” limitatamente ai nomi delle loro fonti. La disposizione, quindi, esclude i giornalisti pubblicisti nonché i praticanti, così come non ha ulteriore ambito che quello delle fonti. Da considerare che tale ambito del segreto, ovviamente, comprende anche la facoltà di non fornire altre informazioni utili alla individuazione, quali recapiti telefonici etc. (“nel cui ambito rientra qualsiasi indicazione che possa portare ad individuare la stessa“ Cass. I, n. 25755/2007; Cass. VI, n. 22397/2004, che ne discute in tema di contestazione del reato di cui all'art. 371-bis c.p.; Cass. VI, n. 24617/2015 che preclude perquisizione e sequestro a carico del giornalista per trovare tracce della fonte). Vi è, però, la peculiare previsione per cui “se le notizie sono indispensabili ai fini della prova” e la “ veridicità può essere accertata solo attraverso l'identificazione della fonte”, il giudice ordina al giornalista di indicare il nome del suo informatore. Per tale disposizione non risulta una significativa casistica ma testualmente si comprende che è necessario che si sia in presenza di un caso nel quale il reato in sé, e non solo le sue circostanze accessorie, può essere provato solo individuando la fonte. Ovvero, non vi deve essere una possibilità alternativa di raccogliere la prova. La norma non fa riferimento a tipologie di reati ma, considerato che deve ricorrere una “pressante necessità sociale” (Corte EDU, Grande Camera, caso Goodwin c. Regno Unito, 27/03/1996) l'ordine di divulgazione della fonte va limitato in base a un ragionevole esercizio della verifica di proporzionalità tra gravità dei fatti in concreto ed esigenze di garanzia della libertà di stampa. BibliografiaCorso, Il “segreto professionale” tra vecchio e nuovo codice di procedura penale, in Riv. dir. civ. 1989, 185; Erbani, Processo penale e obblighi del giornalista, in Quest. Giust. 2001, 791; Giunchedi, La testimonianza dell’avvocato tra accertamento della verità e segreto professionale, in Proc.pen.giust. 2002, n. 5, 1236; Grifantini, Il segreto difensivo nel processo penale, Torino, 2001; Grilli, La pubblicazione degli atti e il segreto professionale del giornalista, in Giust. pen. 1990, fasc. III; Jesu, Esclusione dell’obbligo di avvertimento per il professionista chiamato a testimoniare, in Dir. pen. e proc. 2010, 323; Morisco, Il segreto professionale del giornalista nel processo penale, in Giust. pen. 2005, III, 283; Riccardi, Libertà di espressione. Commento all’art. 10 CEDU, in La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, Commentario diretto da Beltrani, Torino, 2022, 850; Sisto, Mezzi di ricerca della prova ‘intrusivi’ e diritto alla riservatezza del giornalista: il ruolo guida del principio di proporzionalità, in Proc.pen.giust. 2021, n. 5, 1218; Varraso, Commento all’art. 200, in Commento al Codice di procedura penale, a cura di Canzio - Tranchina, t. I, Milano, 2012. |